Figure dell’amicizia presbiterale. Omelia per l’ordinazione presbiterale

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Nella mattina dello scorso 12 giugno in cattedrale, il vescovo Franco Giulio ha ordinato presbiteri don Luca Longo e don Denis Paglino (qui un profilo dei due preti novelli e la registrazione). Di seguito pubblichiamo il testo integrale dell’omelia di mons. Brambilla.


Figure dell’amicizia presbiterale

Omelia per l’Ordinazione sacerdotale
12-06-2021
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Figure dell’amicizia presbiterale

Omelia per l’Ordinazione sacerdotale

Cari Luca e Denis,
cari genitori e parenti,
carissime comunità di Sizzano e Crodo,
cari sacerdoti qui presenti,

oggi partecipiamo al momento solenne, che significativamente si colloca sempre alla fine dell’anno pastorale, e in qualche modo lo corona come il frutto più bello, dell’ordinazione dei presbiteri che provengono dal nostro Seminario, il quale ora beneficia di una sede nuova e smagliante.

La Parola di Dio che abbiamo ascoltato, e che voi avete scelto, ha al centro il Vangelo (Gv 15,9-17), che si trova nella prima parte del capitolo 15 di Giovanni, e che ho avuto modo di commentare lungamente in uno studio dedicato al tema della fraternità sacerdotale. Al centro della prima parte (versetti 1-8, che non abbiamo letto), Gesù dice: “Rimanete in me”. Al centro della seconda parte (versetti 9-17, il brano di oggi), Gesù varia dicendo: “Rimanete nel mio amore”.

Probabilmente sentendo la parola “amore” noi la interpretiamo subito con l’invito a dimorare in una sorta di atmosfera sentimentale, perché oggi “amore” è la parola più equivocata, ma nel testo originale è detto “Rimanete nell’agàpe, quello mio” (μείνατε ἐν τῇ ἀγάπῃ τῇ ἐμῇ). Quando noi sentiamo la parola “agàpe”, che è molto più alta, addirittura oceanica, cioè grande come un oceano, allora forse l’espressione “Rimanete nel mio amore”, che è il tema del Vangelo di oggi, diviene qualcosa di inesauribile.

Il duplice dimorare, di Gesù in noi e di noi in Lui, è svolto nella prima parte con la metafora della linfa vitale che circola tra la vite (che è il tutto) e i tralci (che sono la parte), perché porti molto frutto. Tale riferimento – portare molto frutto – ritorna come chiusa anche alla fine del brano di oggi.

Nella seconda parte, invece, il tema è declinato con il motivo della reciprocità dell’amore tra il Padre e Gesù, e tra Gesù e noi. Ed ecco che da qui l’agàpe trae il suo aspetto oceanico, che non riguarda solo le dimensioni orizzontali dell’amore, anche la sua dimensione verticale, anzi trinitaria.

È suggestivo immaginare che la prima parte – quella della vite e i tralci – appartenesse originariamente anche a un contesto eucaristico, dopo la distribuzione del calice, il che indicherebbe nell’Eucaristia la sorgente della comunione effettiva e affettiva di Gesù con noi e di noi con Gesù.

 

  1. Rimanete nel mio amore

Il Vangelo proclamato oggi è intessuto su una trama di motivi molto significativi. Giovanni parte dalla reciprocità di amore tra il Padre e il Figlio, e tra Gesù e noi; stabilisce il parallelo tra dimorare in Gesù e rimanere nella sua Parola; indica l’osservanza dei comandamenti quale forma del rimanere nel suo amore; egli parla quindi di un amore pratico, e non solo di un amore sentimentale o emozionale; il comandamento dell’amore reciproco “Amatevi gli uni gli altri” che, potremmo dire, è il logo centrale del cristianesimo, è fondato sul “come io” dell’amore di Gesù per noi (così recita anche la famosa frase di sant’Agostino per cui “l’amare senza misura, è la misura dell’amore”, perché il senza misura è esattamente la misura di Gesù); il testo ha al centro la forma “cristica” dell’amore più grande (è un comparativo, ma che ha un valore assoluto); l’amore di Gesù è l’amore più grande, perché consiste nel dare la vita ai propri amici.

Si snoda poi il secondo tema, radicato nel primo, che tratta dell’amore di amicizia: esso si nutre della conoscenza della Parola, udita dal Padre; poi irrompe improvvisamente un motivo fondamentale (molto amato da papa Benedetto XVI), indicando il passaggio dal rapporto servo-padrone al rapporto di amicizia che si alimenta di una conoscenza amorevole (“non vi chiamo più servi, ma vi chiamo amici). È decisivo il significato che l’amore di amicizia assume nella vita di ogni giorno, poiché noi abbiamo la tentazione di istituire sempre relazioni di dipendenza, non relazioni liberanti, come sono invece quelle di amicizia. In seguito viene illustrato il nesso tra l’amore di amicizia e la chiamata da parte di Gesù.

Carissimi, da oggi entrate a far parte di un presbitèrio: alcuni sacerdoti possono essere vostri amici perché vi hanno accompagnato e riconosco fra loro alcuni che sono i padri del vostro cammino, della vostra fede e altri invece che diventeranno amici perché tutti insieme siamo chiamati nel Signore Gesù. La costituzione del gruppo dei Dodici è un riferimento per noi, perché non si diventa amici sparsi, ma formando un gruppo costituito, noi oggi diremmo addirittura istituzionalizzato, persino gerarchico, poiché i Dodici hanno Pietro a capo. È interessante che la costituzione del gruppo dei Dodici è richiamata come la condizione perché l’amicizia presbiterale porti un frutto durevole. Se quindi si è preti da soli il frutto non può essere durevole. Si può essere anche molto appariscenti, avere pure molto consenso, ma poi le persone restano legate alla nostra immagine, e meno al cammino cristiano che, proposto da noi, è però più grande di noi e soprattutto deve durare oltre noi.

Infine, l’amore di amicizia è fonte della gioia donata e pienezza della gioia ricevuta. L’evangelista Giovanni ritorna spesso, anche nella sua prima lettera, su questo segno distintivo: se l’amore di amicizia cresce bene, il suo segno è la gioia! Se un prete, ma anche un cristiano, poiché questo testo vale per tutti, possiede una serenità di fondo, si lascia appassionare dalle cose di ogni giorno. Anche gli eventi più drammatici al limite increspano solo la superficie della vita, ma non riescono a disturbare la serenità del suo cuore.

La fitta trama di questi motivi illustra il dinamismo che si attua nell’amore reciproco tra il Padre e Gesù, nello Spirito, e tra Gesù e i suoi discepoli: questo è il segreto della vita cristiana. A questo voi siete chiamati a fare da ministri. Si riceve, infatti, il ministero “ordinato” a questo servizio, non ordinato a introdurci in una casta, ma “ordinato” a far crescere il popolo di Dio per farlo entrare nella dinamica dell’amore trinitario. Quindi la verità del proprio ministero è misurabile – se è consentito usare questa espressione con cautela – per il modo con cui fa crescere il tessuto di amicizia nelle comunità cristiane, tra i loro membri come riverbero storico della comunione trinitaria. Questa è la Chiesa!

 

  1. Figure dell’amicizia presbiterale

Tento, allora, di riassumere con alcuni brevi riferimenti i fili della trama di questa fraternità presbiterale, nella quale oggi siete inseriti, attorno a quattro coppie di termini che ci aiutano a capire, ma soprattutto a raccogliere il mistero che ci viene donato.

a) La prima coppia di termini è chiamata-ascolto. La radice sacerdotale fiorisce sulla consapevolezza della comune chiamata alla vita cristiana e al ministero presbiterale. La fraternità è una realtà impegnativa: accetta l’altro, anche se rimane altro, e non diventa corrispondente a noi. Per questo ho sempre sostenuto che, se noi facessimo solo la Chiesa, cambieremmo il mondo! La chiamata è alla vita cristiana e al ministero presbiterale. Ogni volta che bisogna rinnovare, rivivere, sostenere, ossigenare i legami fraterni, occorre riascoltare la parola di Gesù che dice: “Chiamò a sé quelli che voleva, ne costituì dodici, perché stessero con lui e per mandarli a…” (Mc 3,13-14). La dialettica tra chiamata e ascolto si traduce nell’accoglienza comune della Parola – ed è la prima cosa che voglio regalarvi, ne riparlerò in occasione della presentazione della nuova lettera pastorale – nella Lectio divina fatta insieme, nello scambio fraterno, nel consiglio di buone letture, nell’ascolto reciproco, nel confronto sincero. Forse quest’anno abbiamo distribuito più igienizzante che Parola di Dio! Se le due realtà non vanno contrapposte, come fanno alcuni, è certo però che siamo stati generosi e precisi per l’igienizzante, ma siamo stati forse un po’ avari di Parola di Dio.

Credo che appena ci sarà dato di essere liberi, dopo un po’ di euforia generalizzata che pure potrà portare a commettere qualche errore, avremo bisogno di un’abbondante seminagione della Parola che ci nutra di significati e ci aiuti a riprendere quelle domande che nel chiuso del lockdown sono rimaste rinchiuse dentro di noi, anzi che si sono sedimentate negativamente, hanno creato ombre, paure e rabbia. Queste domande profonde avranno bisogno di ascolto, della trasmissione di una Parola che sia sapida, profonda. Invito tutti i sacerdoti l’anno prossimo a dedicare tanto tempo a quest’opera.

b) La seconda coppia di termini è dono e dimora. Oggi è il punto più difficile perché la comunione liturgica, in particolare eucaristica, ci deve aiutare a rimanere nell’amore, nell’agàpe. La dialettica dono-dimora diventa esperienza del dono di Cristo per noi, condivisione della mensa dei beni, solidarietà nella fatica del ministero, spazi di riposo e di recupero umano, vicinanza nel dolore e nell’aridità della vita (è capitato che alcuni sacerdoti abbiano vissuto momenti di difficoltà e d’attorno nessuno se n’è reso conto), circolazione delle risorse ministeriali, sostegno nella carità e nella missione.

Ci sono alcuni che non si vedono mai e che per ricordarsene bisogna andare proprio a cercarli sull’elenco. Come possono vivere il ministero, che si fonda sul legame con l’Eucaristia, senza mai un momento d’incontro e di confronto, di amicizia e di fraternità?! Perché anche il legame sacramentale di un prete con l’Eucaristia non lo sottrae al legame ecclesiale dell’essere prete in questa Chiesa e per questa Chiesa. Un’Eucaristia privata e privatizzata non è certamente la cena del Signore! Questo vale anche per le comunità cristiane, per le nostre parrocchie. Vi auguro proprio di non essere preti così! Il tema del dimorare nel presbitèrio, come forma visibile del rimanere nel suo amore, è decisivo.

c) La terza coppia di termini è conoscenza e preghiera. Il dimorare nell’amore è l’inizio di un cammino di maturazione cristiana e di crescita presbiterale, lungo l’età della vita e le stagioni del ministero. Se una coppia pensa che il momento più bello della sua relazione stia solo all’inizio dell’innamoramento, e per certi versi lo è, dovrà sperimentare in seguito che nella vita ci sono momenti altrettanto belli che hanno una figura diversa man mano che si cresce nel cammino di comune. Noi spesso scambiamo l’apparenza del rapporto con la figura profonda delle relazioni, l’intensità delle emozioni con la solidità dei legami. Invece, occorre che il ministero, ma anche la vita cristiana, divenga una conoscenza graduale del mistero del Signore Gesù e del nostro ministero personale. Sant’Agostino, che se ne intendeva, alla domanda: “Che cosa vuoi sapere?”, rispondeva: “Deum et animam scire cupio” (Ho l’ardente desiderio di conoscere Dio e l’anima). E s’interrogava: “Nient’altro?”, rispondendo perentoriamente: “Nulla di più!” (Agostino, Soliloquia I, 2, 7). Queste due realtà si conoscono insieme: più si conosce Dio, più si conosce se stessi; più si conosce se stessi e più ci si apre a Dio.

Questo è l’augurio più vero di oggi: che possiate camminare nel percorso di conoscenza del Signore che, certo, nei primi anni avrà il tratto dell’attività, della generosità, della capacità di fare molte cose, ma pian piano il tratto diventerà meno quantitativo e più qualitativo. Il suo filo rosso è esattamente la conoscenza, la conoscenza amorevole di sé e di Dio. La dialettica conoscenza-preghiera forse è oggi quella meno frequentata, perché non ci si accorge che diverse sono le stagioni della vita. Esse devono affrontare gli ardori degli inizi, tenendo in mano le intemperanze giovanili. Poi vengono le fatiche dell’età adulta, che consolidano le energie del ministero, e, infine, soprag­giunge la stanchezza del tramonto, che dovrebbe disporci a una sapiente e affettuosa trasmissione di ciò che abbiamo vissuto. Piacerebbe vedere i sacerdoti anziani, che hanno lavorato tutta una vita, che sanno apprezzare quanto i giovani preti fanno, rallegrandosi che la propria fatica del ministero continui in coloro che vengono dopo di loro, magari con stili diversi, ma con la stessa passione per il Signore e la gente.

d) Da ultimo, la coppia fecondità e consolazione. Il portare molto frutto e l’esperienza della gioia salvano il ministero dall’accidia pastorale e domandano la circolazione dei frutti del ministero. Anche in questo caso la dialettica tra fecondità e gioia è l’antidoto maggiore al logoramento del ministero. Perché i successi e gli insuccessi condivisi, fanno apparire il nostro ministero nella sua giusta luce. La condivisione della fecondità toglie dal ripiegamento di sé, guarisce dalla gelosia e dall’invidia, fa crescere nel cammino presbiterale, scambia il dono prezioso della gioia cristiana.

Vi auguro, cari don Luca e don Denis, con le vostre famiglie, di essere preti ariosi, armonici, capaci di entrare con fiducia e simpatia nel presbitèrio, per ricevere molto da esso, ma anche dare molto con esso. Buon cammino!

+Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara