Gli attori della testimonianza: secondo incontro del Seminario dei Laici

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E’ stato “Gli attori della testimonianza” il tema al centro del secondo incontro del Seminario dei Laici, che si è svolto lo scorso sabato 12 gennaio.

Come per il primo appuntamento, la giornata si è tenuta in tre sedi (Novara, Armeno e Domodossola). Il programma ha visto la proposta di un momoneto di preghiera, con le Lodi, che ha preceduto la relazione (a cura rispettivamente del vicario per la pastorale don Brunello Floriani; del vicario per il clero e la vita consacrata e del vicario generale don Fausto Cossalter) sul tema al cuore dell’incontro.


A questo link tutto il materiale a disposizione sul Seminario dei laici


Nel pomeriggio a Novara un laboratorio sulla pastorale familaire, ad Armeno sulla catechesi e a Domodossola sulla pastorale giovanile.

Di seguito il testo di mons. Franco Giulio Brambilla – scaricabile anche  in pdf da questo link – sull’argomento che ha segnato il tema della seconda giornata del seminario dei laici, presentato e commentato durante l’incontro dai tre relatori.

 

SEMINARIO DEI LAICI – SECONDO INCONTRO
Sintesi della relazione della mattina

Gli attori della testimonianza

 

Nel primo incontro abbiamo visto che lo scopo della cura animarum è la formazione del cristiano testimone e l’edificazione della chiesa come testimonianza. La testimonianza, infatti, è un compito di tutti i credenti. Essa s’iscrive nella vita del cristiano e definisce l’essere stesso della chiesa. La testimonianza precede le diverse condizioni di vita, viene prima di ogni carisma, ministero e missione. Le distinzioni dei compiti dei credenti nella chiesa e nel mondo non devono far perdere la bellezza della vocazione battesimale che è propria di tutti. Il cristiano è conformato a Cristo nel cammino di iniziazione cristiana (battesimo, cresima, eucaristia) e così diventa creatura nuova in Cristo.

Per questo, fin dal Nuovo Testamento, la comunità cristiana appare popolata da molte figure che sono gli “attori della testimonianza”. La loro relazione reciproca, la necessità del loro compito, le diverse membra del corpo di Cristo che è la chiesa, hanno subìto molti cambiamenti derivanti dal mutamento del cammino della chiesa nella storia.

Sacerdoti, religiosi e laici sono gli attori che oggi sembrano ai nostri occhi come gli unici, con una disposizione molto gerarchizzata nel corpo della chiesa. Basterebbe, invece, scorrere le pagine del Nuovo Testamento, per rendersi conto come gli elenchi dei carismi, dei ministeri e delle missioni siano irriducibili a un solo schema. La chiesa degli apostoli e la chiesa del primo millennio (la chiesa di pietre vive) è molto più ricca di figure rispetto alla chiesa della fine del secondo millennio. Perciò dobbiamo ripensare i carismi di oggi dentro la molteplicità delle figure ecclesiali che la tradizione ci consegna.

  1. Il ministero presbiterale oggi

Il “ministero ordinato” (vescovo, prete, diacono) ha il suo punto fermo nell’edificazione della chiesa. Edificare la chiesa non significa solo costruire una comunità dove “si sta bene” insieme, ma una comunione fraterna che sia segno reale del Vangelo donato al mondo. La chiesa c’è per donare il Vangelo al mondo e per portare gli uomini al Vangelo: essa lo fa non solo con la testimonianza di ogni credente, ma con il volto della comunione fraterna. Per dire e donare Gesù non basta la testimonianza di uno solo, ma ci vuole la ricchezza dei doni di molti, se non di tutti i credenti. Non c’è Vangelo senza chiesa, ma non c’è chiesa che non sia segno del Vangelo per gli altri. Se la chiesa fa altro, non è la chiesa di Gesù.

Il pastore (vescovo, prete e diacono) anima la porzione di chiesa affidatagli, e lo fa guidando la comu- nità ad essere Vangelo vivo e chiesa di pietre vive. Il verbo “guidare” non rimanda solo al suo esercizio uffi- ciale, ma anche a tutta la molteplicità d’interventi, di presenze, di pazienza, di ascolto, di accompagnamenti, che edificano veramente una fraternità evangelica. Si pensi alla capacità che è richiesta nell’accompagnare i genitori dei ragazzi dell’iniziazione cristiana. Si ricordi oggi la delicatezza della preparazione al matrimonio cristiano, da non trasformare in un incontro burocratico o fiscale, ma da intendere come una vera iniziazione alla vita a due, al significato cristiano del legame definitivo e del dono dello Spirito che lo rende possibile. Si

pensi a che immagine di comunità e di prete offriamo nel momento della sofferenza e della morte. E così in molte altre occasioni della vita ecclesiale. Il presbitero con i suoi collaboratori ritrova così l’essenziale non solo per la vita personale, ma anche per il servizio pastorale nella cura animarum.

C’è una difficoltà particolare nella situazione presente, che devono condividere tutti, preti e laici: il pastore di fronte alla domanda religiosa, che si presenta sovente in maniera convenzionale e rigida (pensiamo solo alla richiesta dei sacramenti), risponde a volte in modo abitudinario e scarsamente coinvolgente. Il mini- stero del prete è così vissuto talvolta in maniera burocratica. È un pericolo certamente legato alla ripetizione. Così può accadere al pastore di esercitare un ministero a due velocità: per la realizzazione personale il prete cerca di ricuperare vivacità mediante i gruppi di ascolto, del Vangelo o di preghiera: attraverso relazioni e in- contri emotivamente caldi; mentre quando egli esercita il ruolo del prete, egli lo pratica come un dovere “pro- fessionale” per rispondere alle attese che appartengono alla sua “funzione”. Queste due velocità generano due figure del ministero: da un lato quella ufficiale del ruolo e della professione, dall’altro quella emotivamente calda delle relazioni brevi. Un pastore “funzionario” nei gesti ufficiali e un pastore “amico” nei rapporti brevi può generare una figura di prete sdoppiata. Dobbiamo aiutare i preti ad essere pastori perché sono uomini ca- paci di buone relazioni, e dobbiamo fare in modo che le relazioni fraterne del prete siano però al servizio del suo essere “buon pastore”.

Possiamo indicare l’immagine “buona” del prete con due aspetti. Anzitutto, la metafora del “buon pa- store” dice ancora oggi la bellezza di un ministero di relazione. Il pastore “conosce” le sue pecore e le “guida” verso i pascoli della vita. In secondo luogo, l’altro aspetto “buono” del ministero sarà lo stile rinnovato del presbitero come “uomo della comunione”. La guida della comunità dovrà pensarsi come corresponsabilità in solido con i laici e prima ancora con i preti e i religiosi della stessa Unità Pastorale Missionaria. Il ministero del pastore oggi non può essere vissuto che all’interno di un’intensa sinodalità che, se da un lato limita la sua azione, dall’altro la rende sicuramente più efficace.

Nel passato il “potere” sacramentale aveva legato il pastore a doppio filo alla propria parrocchia, in- torno al valore della cura delle anime. Oggi la cura per l’edificazione della comunità può rendere la figura del prete il crocevia di una serie di fruttuose relazioni. Senza questa nuova coscienza ecclesiale ogni richiamo alla collaborazione può cadere nel limbo dei buoni propositi che si scontrano con l’inerzia che pensa: “da soli è meglio”. La guida della comunità non può mai esercitarsi fruttuosamente soltanto come l’impresa di uno solo: anch’essa dev’essere “cattolica”, capace di far camminare (preti, religiosi e laici) verso l’edificazione della chiesa, perché essa sia il segno reale del Vangelo accolto e testimoniato.

  1. La corresponsabilità dei laici

La nuova situazione delle comunità cristiane reclama un rinnovato e generoso slancio nella formazione e nella cura della testimonianza di tutti i credenti e dei ministeri laicali. Fino al Vaticano II, la suddivisione delle parrocchie col proprio parroco fungeva da mappa di distribuzione dei ruoli. La presenza di uno o più sacerdoti per comunità correva il rischio di nascondere la necessità dei ministeri laicali. Nel momento attuale occorre assumere uno sguardo diverso.

Nasce l’urgenza di una partecipazione dei laici che devono uscire dalla routine dei “collaboratori dell’apostolato gerarchico” per aprire lo spazio ai laici “corresponsabili” a tempo pieno o parziale: le nostre parrocchie non possono essere più solo identificate col parroco, ma hanno bisogno di un gruppo di laici che si facciano carico col proprio pastore della fede degli altri, nella chiesa e nel mondo. Non bisogna solo fare que- sto perché siamo in uno stato di emergenza (diminuzione del clero, aumento della sua età), ma per promuovere l’immagine nuova di chiesa popolata di nuovi ministeri e missioni.

I nuovi ministeri, infatti, pongono in questione la nostra immagine attuale di chiesa. Ciò può avvenire, come è scritto nella lettera pastorale Li mandò a due a due. Lettera pastorale sul Seminario dei laici (2018- 2019), promuovendo un’azione pastorale che si prende cura dei laici seguendo tre cerchi concentrici.

In primo luogo, occorre curare la qualità testimoniale della fede cristiana. Che significa questo tipo di cura? La caratteristica “testimoniale” della fede dice che ogni fede cristiana deve essere contagiosa, irradiarsi verso l’esterno, espandersi nelle diverse forme della vita quotidiana, farsi carico della fede degli altri. Una fede adulta e matura porta con sé, almeno implicitamente, quest’intenzione.

Le forme pratiche del farsi carico della fede altrui sono variegate. Le prime sono legate alle scelte della vita: nella famiglia, nella scuola, nella professione, nel tempo libero e, in genere, nei modi della vita quotidiana. Bisogna che le parrocchie si mettano “in stato di formazione”, cercando di vivere i momenti più importanti dell’anno pastorale con una forte sottolineatura educativa. Nella lettera Li mandò a due a due (pp. 38-39) ho fatto alcuni esempi pratici dello sforzo formativo a cui sono chiamati tutti. Dedichiamo i prossimi anni a questo compito formativo!

Questa cura può esprimersi in molti modi, valorizzando i gesti fondamentali: la preghiera comune, l’ascolto della parola, una celebrazione sacramentale che educhi alla comunione attraverso il modo stesso con cui si vive il rito, la formazione al senso della chiesa e della vocazione cristiana, l’aiuto dato alle persone per appassionarsi alla vita della gente, l’interesse al senso della vita civile e dei problemi sociali. Perché tale cura sia buona, occorre dedicare tempo, risorse, energie e mezzi, non prima di tutto per essere abilitati a un mini- stero pastorale, ma per promuovere la crescita della coscienza cristiana come tale.

In secondo luogo, altri compiti sono più indirizzati ai percorsi della comunità cristiana, nel senso che la premura per la fede altrui assume la figura di un “servizio” ecclesiale che si articola in modi diversi per tempi, luoghi, destinatari: alcuni sono i “ministeri” già presenti, o anche nuove figure da creare dove mancano (catechisti, animatori liturgici, operatori della carità, educatori di pastorale giovanile, animatori di coppie e famiglie, missionari laici, membri di consigli pastorali e affari economici, ecc…); altri sono servizi proiettati verso la società e il volontariato, l’azione missionaria e di educazione sociale, l’impegno civico e il compito politico. Il Seminario dei laici a cui stiamo partecipando in questi cinque sabati è rivolto soprattutto a questo secondo cerchio. Invito a leggere e meditare le tre belle figure di collaboratori dell’Evangelo che ho illustrato nella lettera Li mandò a due a due (pp. 16-26).

In terzo luogo, sarà opportuno a partire dall’anno prossimo dedicare un’attenzione particolare alle équipes pastorali, che dovranno diventare il motore propulsore e il cemento dell’azione pastorale delle UPM. Qui i laici testimoni sono chiamati ad assumere un senso ecclesiale libero, sciolto e generoso.

L’azione pastorale esige un’attitudine al discernimento comune e al lavoro insieme. Il primo fornisce i criteri, il secondo li mette alla prova del tempo. È questo il motivo per cui la pastorale integrata (nella parroc- chia e nelle UPM) oggi non può essere un optional. Per fare questo, occorre che tutti si educhino a uno stile di comunione nella chiesa!

Molte persone si tengono lontane da un “servizio” ecclesiale, perché si sentono impreparate. Ciò non può essere interpretato subito come una scusa, ma come la domanda di arricchimento della coscienza cristiana, di nutrimento del terreno sul quale possono poi germinare non solo vocazioni generose, ma anche competenti e consolidate. Nei prossimi anni sarà necessario un corale impegno a promuovere la formazione al sensus ecclesiae.

  1. Il segno della vita consacrata

Infine, una parola importante va spesa per la cura della vocazione e della testimonianza delle persone consacrate. Nel secondo millennio la vita religiosa ha assunto forme variegate, in risposta ai cambiamenti epocali avvenuti. Accanto al perdurare della vita monastica, sono sorti i nuovi ordini mendicanti ed evangeliz- zatori del Medioevo e gli ordini moderni con uno scopo prevalente educativo e missionario (ed es. i gesuiti), mentre gli istituti dell’Ottocento, si sono concentrati sull’educazione, la carità, la missione, fino a giungere ai recenti istituti secolari, che hanno abitato gli spazi della vita professionale, sociale e culturale.

È un segno di allarme la forte diminuzione della vocazione religiosa e consacrata nel postconcilio, comprensibile a partire dalla ritrovata coscienza della chiesa locale e dal ripiegamento su una spiritualità dell’incarnazione. Nonostante ciò, desta una grave preoccupazione la perdita del valore inestimabile della vita consacrata, soprattutto in se stessa, perché verrebbe a mancare un aspetto essenziale del valore della testimo- nianza cristiana.

Va almeno indicata la ragione più importante del deperimento della vita consacrata. Sovente nata per rispondere a funzioni di supplenza, rispetto a comunità cristiane burocratizzate e troppo istituzionalizzate, la vita consacrata è stata dirottata su compiti non propri e non ha curato a sufficienza la coscienza del proprio carisma. Quando in una diocesi, come la nostra, c’è il dono di una o più comunità monastiche fiorenti, esso si rivela fonte di benedizione per tutto il corpo della chiesa.

La chiesa deve far spazio anche oggi alla vita religiosa, curare il segno prezioso con cui essa indica il carattere pellegrinante della testimonianza della chiesa tutta. Nell’azione pastorale, preti e laici dovranno valorizzare la vita consacrata per il suo dono proprio: attestare la differenza della santità cristiana irriducibile a ogni umanesimo incarnato. Senza le diverse forme di vita consacrata (dedicata alla contemplazione, educa- zione e carità) la chiesa sarebbe più povera. Il Signore ci conceda la fioritura di un tempo di nuove vocazioni!

+Franco Giulio Brambilla