Gratuitamente non vuol dire gratis

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Sabato 11 novembre 2023 si è tenuto a Borgomanero l’annuale Convegno della Caritas diocesana. In quell’occasione è stato presentato ai partecipanti una riflessione del vescovo Franco Giulio sull’etica del dono, “Gratuitamente non vuol dire gratis”, che riprende alcuni dei nodi tematici della lettera pastorale di quest’anno “Chi è il mio prossimo?”, dedicata alla carità evangelica. Di seguito il testo integrale.

 

Gratuitamente non vuol dire gratis

 

L’espressione provocatoria: «Gratuitamente non vuol dire gratis!» mette in luce la finalità e il destinatario del dono (donatario). Per questo definisce anche lo stile di tutti gli interventi di volontariato e di carità ed è assai importante per tutti gli operatori della Caritas e non solo. “Gratuitamente” indica che il dono deve essere totalmente gratuito, senza sottintesi e contropartite, senza neppure voler legare il donatario alla propria persona. L’espressione “non vuol dire gratis!” non significa che in qualche modo devo costringere il povero a restituire, a fare qualcosa, a dare una mano, ma indica la finalità del dono. Il dono non serve solo a rispondere al bisogno, neppure soltanto deve trattare il bisognoso con dignità, senza fargli pesare l’aiuto che gli do, ma deve liberare dal bisogno! Anche se ci vuole tempo perché questo avvenga, anche se è necessario un cammino lungo e graduale.


Gratuitamente non vuol dire gratis
Riflessione sull’etica del dono per il Convegno diocesano Caritas 2023
11-11-2023
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Tuttavia, fin dall’inizio deve essere chiaro che io ti auto, ma il mio scopo è che tu pian piano diventi responsabile del tuo futuro. Io ti dono cose, soldi, risorse, casa, lavoro (che tra l’altro non sono mie, ma di cui sono solo amministratore), perché poi tu possa stare in piedi da solo, responsabilmente, autonomamente. L’operatore caritas o il volontario deve coltivare la coscienza che la sua vocazione è come quella della levatrice: essa ha fatto bene il suo lavoro, quando è diventata inutile, perché ha messo al mondo una vita che poi cresce autonomamente. Questo non significa che sta in piedi da sola, ma che non ha più bisogno di soccorso quotidiano, bensì comincia a rispondere e crescere con i suoi gesti e le sue forze.

            Per comprendere bene la nostra espressione, allora, è necessario conoscere che vi sono tre tipi di dono: il dono munifico, il dono benefico, il dono malefico. I primi due tipi sono positivi e responsabilizzanti, il terzo è la maschera del dono, è la sua contraffazione che si inserisce nel cuore del dono corrompendolo.

Il dono munifico è quello che avviene tra situazioni dispari. Oggi anche le fondazioni tendono a donare una metà, mentre l’altra metà deve essere raccolta da ciascuno donatario. Perché se si dona tutta la quota richiesta, non si suscita responsabilità nel soggetto ricevente, che rimane un soggetto passivo. Se invece partecipa alla gestione delle risorse ricevute, sarà incentivato a tenerne conto e a spenderle bene. Tuttavia questa precauzione non è sufficiente perché il dono rimane sempre munifico. Il suo valore è di compensare la giustizia, che noi chiamiamo “commutativa” (do ut des), con la solidarietà che chiamiamo “distributiva”. Nell’Ottocento le famiglie borghesi consideravano un onore fare donazioni per costruire opere pubbliche come asili, ospedali, case di riposo, ma spesso l’opera non era solo per l’elevazione sociale e la risposta al bisogno. Sovente l’intervento non eliminava, ma manteneva la distanza sociale. Il dono tra dispari fatica a rendere pari coloro che sono coinvolti: se do un dono a te che sei soggetto di bisogno, non basta che io riempia il tuo bisogno, ma è necessario che elevi anche le tue possibilità, che ti aiuti a diventare soggetto autonomo e responsabile. L’operatore caritas deve stare molto attento a non avere solo un atteggiamento e una pratica “munifica”, che tratta il povero dall’alto in basso, senza preoccuparsi di responsabilizzarlo, senza renderlo capace di collaborare al suo progresso familiare e sociale.

Il secondo tipo è il dono benefico che di solito avviene tra pari. Nei linguaggi dei cristiani spesso fa capolino l’idea che donare significa sempre dare e mai ricevere, ma chi non sa ricevere, non sa donare nel modo giusto. Se applichiamo questo all’amore tra uomo e donna, è facilissimo da capire. Nel rapporto di coppia non basta solo dare: questo ha generato sovente un atteggiamento “sacrificale” (basti pensare alla condizione della donna tra fine Ottocento e inizio Novecento). Quando noi doniamo al povero, lui in qualche modo ci fa comprendere ciò che è essenziale per vivere. Questa lezione di umanità è fondamentale per far crescere legami buoni. Io posso avere una casa piena di beni, ma abitare in una famiglia disastrata. Il dono benefico stabilisce una circolarità tra il donante e il donatario, perché mette in condizione l’altro di essere un soggetto attivo, che deve esercitare anch’egli la sua responsabilità e partecipazione. Talvolta, invece, può succedere addirittura di umiliare l’altro con il dono. Nella pratica vi sono molti di questi casi: l’idea che vi soggiace è che si debba dare senza ricevere. Per questo il dono benefico fa crescere relazioni. Io dono a te, tu doni a me o altri, e, sebbene quello che ci doniamo sia diverso, comunque fa crescere la bontà del nostro legame.

Infine, il terzo tipo è il dono malefico. Per il dono malefico si può far riferimento al cavallo di Troia. Introdotto come voto a Giove dai greci, entra nella città di Troia e porta alla sua distruzione. La metafora è geniale: infatti l’idea che il pericolo sia nella pancia del dono è un’immagine forte e tragica. La pancia è il posto della vita, dell’opulenza, ma il cavallo porta la morte alla città, perché introduce, nascondendolo nel suo grembo, il nemico esterno. Ci sono tanti doni malefici anche nella nostra vita di ogni giorno: quando facciamo doni per affermare la nostra superiorità e potenza. Pensiamo al dono che lascia a bocca aperta, che umilia e fa sentire poveri, che fa sperimentare che non potremo mai ricambiare. È il dono che abusa della posizione di forza nei confronti dell’altro e invece di costruire la relazione di amicizia, la corrompe e la porta alla sua morte.

Ecco, la triplice configurazione del dono. A partire da questo possiamo prospettare la figura della nostra società futura almeno a tre livelli. Tutte le società occidentali e orientali sono sostanzialmente giocate sul concetto di libertà o di uguaglianza. Le nostre società sono concentrate o sulla libertà nelle sue varie gradazioni (le società liberiste), o sull’uguaglianza nelle sue varie tonalità (le società socialiste). A questi due tipi di società corrisponde il doppio concetto di giustizia: la giustizia commutativa e la giustizia distributiva

La giustizia commutativa è la giustizia del do ut des, e la giustizia del mercato (se io do una cosa a te, tu devi dare una cosa a me; io ti vendo un prodotto e ricevo un compenso, oppure vengo pagato in natura). Però già in questo tipo di società, il funzionamento non avviene sempre in modo così schematico. La giustizia commutativa, in qualche, modo prevede già alcuni correttivi al suo interno. Un giovane con una start-up creativa fa credito con il suo tempo, perché egli ha ancora tanto tempo da vivere e questo tempo è denaro: se tu hai futuro, il tuo tempo può diventare valore. A parità di condizioni, tra un giovane trentenne ed un adulto di cinquanta­cinque anni, ha più credito il primo. Questa è la giustizia commutativa: essa non soppesa lo scambio solo in senso quantitativo, ma mette in gioco anche la valutazione del tempo.

Dall’altra parte c’è la giustizia distributiva. È la giustizia a cui presiede l’istanza politica, finalizzata alla redistribuzione dei beni, in vista del bene comune. Per le fasce deboli della popolazione, attraverso le tasse si raccolgono risorse che saranno poi distribuite a chi è nel bisogno. Il nostro Welfare State ha corso un grosso rischio: soprattutto in occidente ha distribuito risorse a pioggia, a perdere, e sovente non ha suscitato responsabilità. Anche il Welfare deve venire incontro alla giustizia commutativa, nella misura in cui anche quest’ultima non è un puro do ut des. Questa duplice figura di giustizia è astratta, perché la giustizia distributiva non dice semplicemente: “tu sei stato uno svantaggiato, ti vengo incontro”. Se io aiuto una famiglia con la borsa della spesa, ma non la aiuto a fare bene la spesa, questo non va bene, perché non fa crescere la capacità di gestire la casa. Infatti, più il bisogno è servito, esso non diminuisce, ma si specializza. Anche la giustizia distributiva ha bisogno di incitare l’altro ad avere la dignità di concorrere al proprio bisogno e magari di condividere quello che ha, quando è migliorata la sua situazione, con altri più svantaggiati.

Qual è, allora, il vero effetto del dono? L’intenzione del dono è far crescere il legame sociale, e di mediare tra le due forme di giustizia (commutativa e distributiva), per correggere il nostro individualismo. Questa è la potenza del dono. Il dono fa crescere in umanità, in socialità e solidarietà. Di qui lo slogan da cui siamo partiti: “gratuitamente non vuol dire gratis!”.

A questo punto resta un’ultima obiezione: “coloro che hanno dato la vita (ad es. nella resistenza dell’ultima guerra mondiale) per farci ritrovare la libertà, essi, in quanto persone singole, non hanno più riavuto la loro vita. Il dono della loro vita è stato senza ritorno, è stato un dono totalmente gratis!”. Questa è un’obiezione radicale: c’è un dono che è totalmente gratis! Questa obiezione è terribilmente vera, se ci consideriamo solo come individui. Apre, invece, una nuova prospettiva si ci pensiamo all’interno di una rete di legami. Chiediamoci: quali sono i valori comuni dell’Europa? I padri fondatori, De Gasperi, Truman e Adenauer, hanno onorato la liberazione avvenuta dopo la seconda guerra mondiale. Hanno fatto tesoro di questo evento drammatico perché, durante la Seconda guerra mondiale, non era scritto da nessuna parte che avrebbe vinto il bene. Ciò che ha portato libertà all’Europa è stata quasi un’esperienza dell’esodo. La Costituzione (e l’Europa) è nata in rapporto alla libertà ottenuta: poiché siamo stati liberati e siamo diventati liberi, dobbiamo darci una legge comune: la Costituzione. La legge sta in piedi solo sul fondamento di un patto sociale, su un’alleanza tra i cittadini, altrimenti muore. Oggi, che non si sente più la forza del patto sociale che ci lega, tutti invocano la democrazia, ma ognuno la intende alla propria maniera. Ecco questo è il messaggio finale: è molto importante che noi arriviamo a costruire una società così. Bisogna invertire la rotta: tra la libertà e l’uguaglianza, solo la fraternità (o l’amicizia) costruisce il legame sociale. La fraternità promuove l’etica del dono: solo essa può costruire il legame tra noi, alimentando con il regime della gratuità le dinamiche della libertà e dell’uguaglianza. Senza la fraternità o l’amicizia sociale non c’è libertà ed uguaglianza!

Possiamo a questo punto farci alcune domande:

  • La Caritas e le Agenzie di volontariato devono anzitutto educare all’etica del dono, perché tutti gli interventi a servizio delle povertà e delle situazioni di bisogno facciano crescere la risposta dei destinatari del dono, la loro responsabilità e capacità di autonomia. Non importa se ci vorrà tanto tempo, ma dal gesto più semplice a quello più complesso, si deve educare non solo a ricevere, ma a far crescere la capacità di condividere a propria volta.
  • Gli operatori della Caritas e del Volontariato devono stare molto attenti a non distribuire risorse, servizi e luoghi di accoglienza con un atteggiamento solo materialista e burocratico, senza suscitare convinzioni ed azioni di responsabilità, partecipazione, condivisione e inclusione.
  • “Dare gratuitamente” può essere gratificante (e non è una cosa sconveniente), ma aiutare “a non ricevere gratis” è educativo (e soprattutto è cristiano), perché la relazione di aiuto mira a trasformare il bisognoso in un fratello libero e responsabile, a sua volta capace di donare in altro modo e con altre persone svantaggiate.

+Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara