«Cercando Dio a tentoni». In morte di don Carlo Orecchia

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Venerdì 24 febbraio, nella cattedrale di Vercelli, si sono svolti i funerali di don Carlo Orecchia, figura storica del clero vercellese e per anni docente in seminario e all’Istituto di scienze religiose di Novara, spentosi nella serata di mercoledì, all’età di 86 anni.

Di seguito il testo integrale dell’omelia pronunciata dal vescovo Franco Giulio Brambilla nella celebrazione presieduta dall’arcivescovo di Vercelli Marco Arnolfo.

«Cercando Dio a tentoni». In morte di don Carlo Orecchia

Omelia della Messa esequiale

 

Carissimi familiari,
carissimi fedeli
cari vescovi,

è bello vedere così tanti presbiteri qui radunati per celebrare questo momento umano e cristiano di congedo, segno dell’affetto e della gratitudine dei molti che sono stati guidati dalla docenza del nostro caro don Carlo, mossi anche dalla riconoscenza per il suo lungo corso di magistero biblico e teologico.

Io stesso ho potuto conoscerlo a partire dal 1981, quando iniziai ad insegnare alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale di Milano, avendolo avuto poi come buon compagno di viaggio per gli ultimi sei anni da Preside fino al 2012. Ricordo con simpatia quando il mercoledì arrivava a pranzo, solitamente in ritardo per il prolungarsi delle sue lezioni, e pur tuttavia trovava sempre l’occasione di inserirsi nel dialogo e di insidiarci benevolmente con qualche domanda apparentemente ingenua.

L’ho rivisto poi volentieri a Novara dal 2012 fino al 2018, quando in occasione della conclusione della sua docenza lo abbiamo salutato, facendogli dono dell’edizione di uno dei corsi che teneva all’abbazia di Sant’Andrea qui a Vercelli, dei quali abbiamo sentito parlare nel bel profilo tracciato da monsignor Allolio all’inizio della celebrazione. Quei corsi furono per lui sicuramente uno dei momenti più belli.


In morte di don Carlo Orecchia
Omelia della Messa esequiale
24-02-2023
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Quando mi accingo a fare l’omelia per un sacerdote, mi è caro illuminarne il profilo della vita con due pagine della Scrittura, solitamente la prima presa dalle lettere di San Paolo apostolo, oppure come quest’oggi dagli Atti degli Apostoli; e poi la seconda ovviamente dal Vangelo. Questo a motivo del fatto che noi abbiamo bisogno di una lente di ingrandimento presa della Scrittura per poter comprendere la dimensione profonda di un cammino umano, di un cammino intellettuale e infine di un cammino spirituale.

1. L’intelligenza della Scrittura

La prima lettura è tratta dagli Atti degli Apostoli (At 17, 16-34). La pagina rappresenta da sempre il testo fonte di ispirazione durante due millenni per tutti coloro che hanno inteso dialogare con i “Greci”, vale a dire con coloro che sono stati la culla della sapienza umana, almeno dell’Europa orientale e occidentale.

È la pagina chiamata “discorso di Paolo all’areopago di Atene”. Potremmo affermare che il testo delinea l’aspetto per cui Don Carlo può essere definito l’“amico dei Greci”, quasi una sorta di “Filone cristiano”. Filone d’Alessandria (20 a.C. ca. – 45 d.C. ca.) fu un filosofo e un autore che cercò di far dialogare la cultura greca con la cultura ebraica. A tale riferimento lego il mio primo ricordo di don Carlo. Nel momento in cui arrivo ad insegnare, don Orecchia teneva il corso di Ermeneutica biblica. Tuttavia egli era simpaticamente temuto da tutti gli alunni per il corso di ebraico biblico e il corso di greco biblico, con i rispettivi lettorati. Gli alunni, alcuni di questi assai attempati, lungo i corridoi della facoltà stendevano sui banchi per così dire lenzuoli cartacei, scritti in greco ed ebraico, e passando a volte li provocavo chiedendo se comprendessero ciò che era scritto, fingendo di non conoscere il greco o l’ebrai­co. Tante volte in modo rassegnato mi dichiaravano che si preparavano con enorme sforzo e con timidi risultati a fare l’esame con il professor Orecchia. Era una prova temuta, ma che una volta superata, era motivo di vanto proprio a causa di don Carlo. Una sorta di traguardo e di fondamento per il cammino teologico, che li avrebbe annoverati tra i mai sufficientemente lodati studenti della Facoltà Teologica.

Don Carlo ha insegnato a sentire il sapore, il colore, il tenore e l’amore della lingua della Scrittura, dell’Antico e del Nuovo Testamento. La lingua non è, come si potrebbe pensare, l’etichetta da apporre sulle cose. No, la lingua è la chiave che apre il mistero di tutte le cose, delle realtà della vita, degli eventi e delle relazioni. Chi avesse l’orecchio sordo alla lingua è un po’ simile a quei mariti che si dimostrano sordi alla voce delle mogli e che non comprendono nulla della donna che sta loro accanto, per quanto quella continui a parlare! L’apprendere e il comprendere la lingua della Scrittura era la grande sorpresa degli alunni, i quali portavano con sé la loro Bibbia, ma che con don Carlo riuscivano ad intendere a un altro livello, in forma del tutto nuova. Nel corso di ermeneutica biblica poi egli forniva loro la “cassetta degli attrezzi” in modo tale che nascesse un rapporto vivo con la Sacra Scrittura.

Ecco, questo è il primo ricordo di don Carlo! Era giusto che egli suscitasse un sacro timore e tremore entrando nella grande foresta del messaggio biblico, per non accostarsi a leggere la Scrittura con leggerezza, come hanno fatto molti di noi che si sono fatti regalare una Bibbia, aprendola alla prima pagina e chiudendola talvolta alla seconda.

2. Una ricerca a tentoni

Traggo anche la seconda immagine dal discorso di San Paolo all’areopago di Atene. Don Carlo è stato capace di intessere un costante dialogo con la cultura. Nel testo degli Atti degli Apostoli sono citati persino gli stoici e gli epicurei. Anche se non sono ricordati esplicitamente con il nome, si menzionano due poeti del tempo: sono Arato e Cleante, precisamente due stoici. Don Carlo con la sua scuola ha aperto alla conoscenza di tale foresta di pensatori che custodisce la capacità e il tentativo di dialogo con la cultura ellenistica, come è detto da Paolo:

“Ateniesi, vedo che, in tutto, siete molto religiosi. Passando infatti e osservando i vostri monumenti sacri, ho trovato anche un altare con l’iscrizione: “A un dio ignoto”. (At 17,22-23)

E più avanti aggiunge:

“Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio 27perché cerchino Dio, se mai, tastando qua e là come ciechi” (At 17,26-27)

Don Carlo è stato colui che ha tentato di illustrare le forme con cui l’uomo di tutti i tempi ha cercato e cerca Dio a tentoni “quasi tastando”, come dice il testo, le tracce di Dio nella vita degli uomini. Ieri un giovane prete della mia diocesi, da cui ero in visita, mi ha mostrato i dodici fascicoli, i “plichi” come li chiamava don Carlo, del suo corso. Non li avevo mai visti, ma ne avevo sempre sentito parlare, perché molto apprezzati dai preti, ordinati negli ultimi vent’anni e oltre.

Ho qui tra le mani la fotocopia dell’indice dei dodici plichi del corso che è intitolato: Scienza delle religioni. E ognuno di questi fascicoli contiene la ricerca delle tracce del divino nell’umano. Scienza delle religioni è il titolo del primo fascicolo e offre un’introduzione metodologica, poi seguono i plichi su Il simbolo, Il luogo sacro, Il tempo sacro… Pensiamo, per esempio, solo al fatto che il tempo sacro, per noi è la domenica, è diventata semplicemente l’intervallo tra due fatiche; non è più un tempo per vivere un giorno diverso dagli altri, ma è lo spazio bianco fra due fatiche! Serve per mettere a riposare “l’animale uomo/donna” per farlo ritornare il lunedì al lavoro. Non è più il luogo e il tempo dove si celebra la superiorità dell’uomo, che è fatto sì per il lavoro, ma anche perché sia signore del lavoro e possa distribuire, nella generosità e nella gratuità, i beni della terra, così che elargendoli, condivida anche un po’ del suo cuore. Seguono poi i plichi su La salvezza, Il divino, Il mito, Il rito, La religione e al termine il grande tema del Sacro/Sacrificio.

Credo che questa sia la radice e la ragione per cui l’insegnamento di don Carlo abbia un po’ “stregato” e affascinato i suoi discepoli. Venendo a Novara fui colpito dal fatto che molti parlavano bene di questo suo corso. E come se per le giovani menti si spalancasse il mondo della foresta di segni, simboli e categorie che li introducevano a capire che tra noi e il mondo non ci sono solo le cose da fare, ma ci sono anche i segni con cui parliamo, con cui scambiamo e facciamo crescere la nostra fiducia, la nostra voglia di vivere, la nostra gioia, la nostra tenerezza, la nostra prossimità, la nostra speranza. Tutti segni che vanno custoditi come in una teca preziosa e che don Carlo ha insegnato a cogliere e riconoscere.

Ieri, come dicevo, ho voluto anche sfogliare un paio di questi “plichi”, per vedere quali fossero gli autori che lui trattava, persino con una miriade di citazioni, attraverso le quali era un po’ difficile farsi strada e trovare quel varco stretto che fa accedere alla fede.

Noi parliamo troppo spesso e troppo frettolosamente di fede. In questo senso siamo diventati per così dire “protestanti” prima del tempo. Intendo dire che negli anni ’60 e ’70 del Novecento, abbiamo incominciato a leggere i libri dei nostri fratelli protestanti, che insistevano sulla sola fede (sola fide), e li abbiamo sostituiti a tutti questi segni, attraverso i quali bisogna cercare quasi a tentoni le tracce del mistero di Dio.

3. La via stretta della fede

Per questo è illuminante la seconda pagina della Sacra Scrittura che è stata proclamata, tratta dal Vangelo di Giovanni (Gv 12, 20-32). Essa rivela un dato forse un po’ nascosto della figura di don Carlo. Raccolgo solo due tracce. In qualche domanda un po’ insidiosa che don Carlo faceva, come dicevo pocanzi, a fine pranzo di fronte agli eminenti personaggi della facoltà che spesso con discussioni erudite si lambiccavano il cervello, egli poneva la questione riguardo allo stretto passaggio attraverso cui i Greci cercavano di vedere Gesù, come dice il vangelo proclamato:

“Si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: “Signore, vogliamo vedere Gesù”. (Gv 12, 21)

Don Carlo, come mi è stato testimoniato, in alcune stagioni della sua vita ha fatto anche fatica a vedere Gesù, perché avvertiva il peso e il gravame di tutta questa foresta di segni, di simboli e di tracce attraverso cui cercare lo stretto passaggio della fede, eppure io credo che alla fine l’abbia trovato!

Il discorso di Atene – forse pochi conoscono questa circostanza – andò peraltro a finire con un fiasco totale perché, quando Paolo iniziò ad annunciare Gesù e la risurrezione, si sentì dire dagli ateniesi:

“Su questo ti sentiremo un’altra volta” (At 17, 32)

Questo fatto trova una risonanza nel primo e secondo capitolo della prima Lettera ai Corinzi, là dove Paolo afferma:

“Anch’io, fratelli, quando venni tra voi, non mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio con l’eccellenza della parola o della sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso”.  (1Cor 2,1-2)

Il testo è giustamente famoso ed è la conseguenza del fiasco di Atene. Don Carlo ci ha insegnato che noi dobbiamo essere preti, genitori, laici, fratelli, amici che cercano le tracce del divino nell’umano. Epperò cercando le tracce del divino dobbiamo avere sempre una figura come quella dell’apostolo Filippo, che a sua volta conduce da Andrea, per ascoltare la voce di Gesù.

Ma cosa ascoltiamo di Gesù? Il brano che segue è impressionante: è un “Getsemani in miniatura”. Nel racconto del vangelo di Giovanni non è presente la scena del Getsemani, ma essa è evocata e anticipata qui al capitolo 12 e ci rivela che il segreto profondo di quel Dio che noi cerchiamo “quasi a tentoni” si manifesta dicendo:

In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. 

Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora.

E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me”. (Gv 12, 24-25.27.32)

In effetti don Carlo ha condotto tante generazioni di presbiteri, e forse li sta aiutando ancora, nei momenti dei passaggi difficili del loro ministero, a trovare la via stretta che conduce alla croce di Gesù. E conduce nella forma di un seme caduto per terra, il quale, se non muore, rimane solo. E solo se muore, può rinascere ed essere generativo, come s’usa dire oggi. Occorre però che leggendo il mito, il simbolo, il rito, il sacro facciamo sempre sentire il brivido del dono di Dio che si è reso presente nella croce di Gesù, una vita consegnata per sempre senza condizioni. E don Carlo forse ce l’ha raccontata anche negli ultimi anni della sua vita, quando perdeva le forze, le energie, la consapevolezza.

Conclusione

Alla fine, mi piace ricordarlo seduto a un pianoforte a coda, insieme a un collega e altrettanto noto e grande teologo, don Pierangelo Sequeri, mentre suonavano a quattro mani una riduzione di “Quatuor pour la fin du temps” (Quartetto per la fine del tempo)[1], composizione da camera di Olivier Messiaen (1908- 1992). È un brano che l’autore aveva composto nel campo di concentramento in cui era stato imprigionato. Non c’erano molti strumenti ed egli compose lo spartito per quelli che aveva a disposizione. Quella musica dava speranza in quei luoghi terribili nei quali di Dio non si vedevano neppure le tracce. Quelle tracce che don Orecchia ha fatto cercare a tentoni per tutta la vita!

+Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara

 


[1]                 Composto tra la fine del 1940 e i primi giorni del 1941 nel campo di concentramento di Görlitz, è considerato uno dei più alti esempi di musica cameristica del ventesimo secolo. Il Quatuor pour la fin du temps fu portato a termine agli inizi del nuovo anno ed eseguito il 15 gennaio del ’41, in un edificio del campo che veniva usato come auditorium, di fronte ai prigionieri dello Stalag VIII-A. Gli altri musicisti a eseguire il Quatuor con Messiaen furono Henri Akoka (clarinetto), Jean le Boulaire (violino) ed Étienne Pasquier (violoncello): nessuno dei tre era un musicista professionista. I nazisti permisero a Pasquier di acquistare un violoncello da un liutaio di Görlitz grazie a una colletta tra i prigionieri e il pianoforte su cui suonò Messiaen era talmente vecchio e malmesso che ogni tanto i tasti, una volta premuti, restavano abbassati.