Sabato 9 ottobre, in cattedrale a Novara, il vescovo Franco Giulio ha ordinato diaconi cinque seminaristi del seminario San Gaudenzio: Giacomo Bovio, della parrocchia di San Clemente in Bellinzago, Gianluca Brusatore, della parrocchia della Madonna Pellegrina in Novara, Alessandro Clementi, della parrocchia di San Michele Arcangelo in Cameri, Daniel Corrias, della parrocchia dei Santi Vincenzo e Anastasio in Pieve Vergonte e Gabriele Tibaldi della parrocchia dei Santi Pietro e Paolo in Galliate.
Di seguito pubblichiamo l’omelia integrale pronunciata da mons. Brambilla nella celebrazione dell’ordinazione.
La chiamata inascoltata
Omelia nella celebrazione delle ordinazioni diaconali
Carissimi Giacomo, Gianluca, Alessandro, Daniel e Gabriele,
carissimi genitori, carissimi sacerdoti
e tutte le comunità cristiane nominate,
un caro e affettuoso saluto.
Gioisce la madre Chiesa in questo autunno pieno di colori per i nostri cinque giovani che fanno il grande passo verso il ministero presbiterale. Gioisce perché sono numerosi, anche se, come succede quando brilla un sole splendente, l’ombra diventa più intensa e dunque la nostra gioia è velata dal fatto che in quest’anno non è entrato in seminario quasi nessuno. Desideriamo e chiediamo allora che con il vostro esempio, il vostro coraggio, la vostra sfida – anche perché questo è l’invito dei testi della Parola di Dio che avete scelto – possiamo fare una riflessione incisiva e un appello profondo al tema della vocazione.
La chiamata inascoltata
Omelia nella celebrazione delle ordinazioni diaconali
09-10-2021
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- La chiamata inascoltata
La prima lettura (1Sam 3, 1-10.19-20) infatti potrebbe essere intitolata “La chiamata inascoltata”. Come prima pagina del trittico, che accompagna la vostra ordinazione diaconale, avete scelto questo testo del libro di Samuele così limpido, ben giocato tra il giovane Samuele, il maestro e profeta Eli, ormai anziano, e il Terzo “convitato” che parla, ma viene ascoltato prima dal giovane, e poi da chi avrebbe dovuto accompagnare i cammini delle persone.
Dice il testo:
“Il giovane Samuele serviva il Signore alla presenza di Eli”. (1Sam 3,1a)
A cui segue un versetto a tinte fosche:
“La parola del Signore era rara in quei giorni, le visioni non erano frequenti”.
(1Sam 3,1b)
Come sempre accade, nella storia, quasi a ondate successive, si alternano tempi di splendore e dilatazione a tempi invece di compressione e di depressione, dove la Parola diventa rara e le visioni non sono frequenti. Sarebbe interessante domandarsi la ragione di questo, quando invece probabilmente la causa è semplice: se abbiamo poche cose, cerchiamo il Terzo; quando ne abbiamo troppe ci accontentiamo di quelle che abbiamo. Ma si tratta di una causa di tale evidenza che occorrerà cercarne delle altre e più profonde. Comunque sappiamo che anche nei tempi tristi la parola del Signore si fa sentire. E anche se il vecchio maestro, che ormai non ci vede più, pensa di non potere più sentire la Parola, è il giovane che nella sua freschezza gliela fa ascoltare. E gliela fa udire con questo passaggio, in cui è abbastanza facile riconoscere il ritmo ternario – le tre volte – della chiamata. Per due volte il giovane Samuele si avvicina a Eli e dice:
“Mi hai chiamato, eccomi!”. Egli (Eli) rispose: “Non ti ho chiamato, torna a dormire!”. (cfr. 1 Sam 3,6)
Eli rimanda per due volte il giovane a dormire, rinviandolo al sua giaciglio “dormiente”, per così dire depresso. Non può succedere che il Signore chiami, perché lui ormai è vicino al limite della morte, non ci vede, e poi è avanti negli anni.
“Tornò e si mise a dormire” (ibid.)
e questo accade la prima e la seconda volta, perché:
“In realtà Samuele fino ad allora non aveva ancora conosciuto il Signore, né gli era stata ancora rivelata la parola del Signore”. (1Sam 3,7)
Quest’annotazione accade dopo i primi due tentativi di farsi ascoltare e di chiedere al maestro di essere aiutato a interpretare quella voce che egli sentiva come chiamata del Signore. Come sottolinea il testo, Samuele non era in grado di compiere questa operazione da solo, perché non aveva ancora conosciuto il Signore e nessuna parola gli era stata rivelata. Non dimentichiamo che quanto leggiamo è tratto dal primo di libro di Samuele, quindi di quel profeta che è egli stesso autore e che ha vissuto in prima persona l’esperienza dell’ispirazione del Signore e dunque si presenta come un narratore affidabile.
“Il Signore tornò a chiamare: ‘Samuele!’ (…) “Allora Eli comprese che il Signore chiamava il giovane” (cfr 1Sam 3,7-8)
È un bel tratto che rievoca un capitolo della Regola di san Benedetto, nel quale si dice che l’abate deve ascoltare anche il monaco più giovane. Nonostante l’indicazione talvolta venga liquidata un po’ velocemente, si dice chiaramente che l’abate debba decidere insieme alla comunità dei monaci e, nonostante alcuni possano ritenersi già esperti nella vita monastica, bisogna che l’abate sappia ascoltare anche il più giovane, che può dire una parola saggia sui tempi che cambiano! (cfr. Regola di san Benedetto, III, 3). Occorre ascoltare il giovane perché il suo occhio e il suo orecchio, che coglie tutto sinteticamente, non è ancora stato disturbato dalle divisioni e separazioni tipiche dell’età adulta, non è stato deformato dall’analiticità per cui ad ogni cosa deve corrispondere una causa e far conseguire un effetto. Il bambino vede tutto con l’occhio semplice, con sguardo sintetico, con occhio stupito, con uno sguardo capace di cogliere il tutto nei singoli frammenti e di vivere tutti i particolari rimandandoli al tutto.
“Il Signore tornò a chiamare: ‘Samuele!’ per la terza volta; questi si alzò nuovamente e corse da Eli dicendo: ‘Mi hai chiamato, eccomi!’. Allora Eli comprese che il Signore chiamava il giovane” (1Sam 3,8)
Si deve notare che Eli non richiama su di sé l’attenzione di Samuele, quasi che debba essere lui la sua unica guida, ma invece lo rimanda, lo indirizza al Signore, lo rimanda “al Terzo”, come si diceva all’inizio:
“Il Signore tornò a chiamare: “Samuele!” per la terza volta
Eli comprese che il Signore chiamava il giovane …. e disse a Samuele:
“Se ti chiamerà, dirai: “Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta”. (ibid.)
Ogni buon maestro, ogni levatrice, raggiunge il suo scopo quando diventa inutile, quando sente il bambino piangere e gridare, e sa che una nuova creatura è nata alla vita. La levatrice, magari anche con uno schiaffo terapeutico, ha finalmente terminato il suo compito. Così diceva Socrate, così dicono tutti i veri maestri che sanno farsi da parte, perché coloro che hanno cresciuto possano trovare la loro parte da fare. Qui anche Samuele trova finalmente la sua parte e ripete fedelmente le parole del maestro, ma non davanti al maestro, bensì davanti al Signore. Infatti:
“Venne il Signore, stette accanto a lui e lo chiamò come le altre volte: ‘Samuele, Samuele!’. (1Sam 3,10) Samuele rispose subito: ‘Parla, perché il tuo servo ti ascolta’”.
Samuele crebbe e il Signore fu con lui, né lasciò andare a vuoto una sola delle sue parole. (1Sam 3,19)
Sono testi affascinanti. Mi piace sottolineare l’annotazione finale con la quale, carissimi diaconi, vi rivolgo un primo augurio: nessuno di voi lasci perdere, lasci cadere nel vuoto nessuna delle Sue parole lungo la grande parabola della vita.
- Il roveto ardente
Ora viene il bello! Come seconda lettura avete scelto una forma brevissima, ridotta rispetto al brano integrale che viene denominato l’inno alla carità secondo la Lettera ai Romani. Siamo alla fine dell’ottavo capitolo e. dopo il grande affresco sulla dottrina della giustificazione e della riconciliazione, svetta questa domanda:
“Chi ci separerà dall’amore di Cristo?” (Rm 8,35a)
Possiamo intitolare tale domanda: il roveto ardente! Sarebbe significativo che tutti i sacerdoti qui presenti, oggi particolarmente numerosi, e anch’io con loro, potessero dare una risposta con buona coscienza alla domanda “Chi ci separerà dall’amore di Cristo?”. Cioè rispondere all’interrogativo se siamo capaci di tenere nel perimetro del nostro confine di esistenza, tutte le cose che sono qui ricordate, oppure se ci siamo spaventati, quando sono accadute. Riguardo a me devo ammettere che qualche volta mi spavento, quando al mattino il vicario generale mi presenta le varie situazioni della Diocesi: sacerdoti in difficoltà o che si sono ripresi, ospedalizzati, o altre e varie situazioni…
“Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?” (Rm 8,35b)
Ed ecco la risposta dell’Apostolo:
“Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori…”, non certo per virtù nostra, ma “grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso…
E sarebbe bello poter disegnare su un foglio i confini di queste parole:
che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura,
– così come nessun evento, situazione o fatto –
potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore”. (Rm 8,37-39).
Non c’è bisogno di aggiungere alcun altro commento. È sufficiente che noi possiamo dire in modo sincero e autentico che in verità non ci siamo mai lasciati separare dall’amore di Cristo!
- La beatitudine della pratica
Infine, la terza pagina, il Vangelo. Del testo appena proclamato sono stati omessi i due versetti conclusivi, che però sono essenziali alla comprensione del brano: si tratta della narrazione della lavanda dei piedi (Gv 13,1-15), che termina con “la beatitudine della pratica”. L’ultimo versetto dice infatti:
“Sapendo queste cose, siete beati se le mettete in pratica”. (Gv 13,17)
È troppo importante questa conclusione e non può essere tralasciata. Essa racchiude una delle due beatitudini – le uniche – contenute nel vangelo di Giovanni. La seconda è pronunciata da Gesù risorto davanti a Tommaso:
“Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!”. (Gv 20,29b).
È la beatitudine per il lettore futuro, che non vede il corpo del Risorto, ma il corpo del Libro (molti altri segni fece Gesù che non sono stati scritti in questo Libro, ma questi sono stati scritti…), e tuttavia proclama la stessa fede di Tommaso (Mio Signore e mio Dio!).
La prima beatitudine, invece, è la beatitudine della pratica. Il ministero che ora voi ricevete non è ancora il presbiterato, ma il diaconato. Il diaconato non viene azzerato, quando riceverete il presbiterato, come se “chiodo scacciasse chiodo”, ma rimane come il cuore vivo e pulsante fino all’ultimo giorno della vita. Se un prete presiede, ma non serve, se anche un vescovo presiede ma non serve, come fa il diacono che serve alla Parola e serve alla carità, non può dire di aver vissuto fino in fondo la realtà sacramentale dell’Ordine. I tre livelli in cui è ripartito il sacramento dell’Ordine significa esattamente questo: sono tre cerchi concentrici, dove questo è il più interno, poi viene il presbiterato e poi, a Dio piacendo, l’episcopato; ma il secondo e il terzo non si reggono senza il primo. Il primo livello proclama la beatitudine della pratica, ed essa ha la sua icona nella lavanda dei piedi. Il brano si apre infatti con un’indicazione che non ha solo valore cronologico:
“Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre…” (Gv 13,11)
E prosegue con il brano che è stato proclamato, che si conclude appunto con:
“Sapendo queste cose (in greco ταῦτα), siete beati se le mettete in pratica”. (Gv 13,17)
Essere diaconi, cioè essere servitori del popolo di Dio, è un’etichetta scottante. Se non sentiamo che brucia, significa che non scalda le mani, non incide sulla vita, non tocca il cuore. Attesteremo che ci crediamo davvero con intensità, se potremo dire con serena certezza che questa beatitudine attraversa la nostra vita. Non farò, come si diceva un tempo, l’elogio del mangiare un po’ di polvere sul campo del pallone, perché siete sufficientemente giovani per poterlo fare, tuttavia consentitemi di raccontare un episodio, che mi è accaduto. Un giorno, già preside a Venegono, andando a trovare un parroco nei pressi di Saronno, dove ero stato a fare esperienza pastorale in prima e seconda teologia, mi parlò del suo collaboratore, prete giovane, dicendo che era certo bravo, in gamba nel produrre libretti, sempre chiuso in casa, al piano di sopra, impegnato a comporli e stamparli, ma poco giù, nel cortile, in mezzo ai ragazzi! E aggiunse una frase che è una ferita che mi è rimasta nella carne, come rimprovero, che mi amareggia ancor oggi. Mi disse: “Non so se si guadagna la pagnotta!”. Vi auguro di essere oggi diaconi e domani preti, che possano gioire della pratica di un ministero che serve.