Nel pomeriggio di oggi, 8 gennaio, il vescovo Franco Giulio ha presieduto la messa solenne per la festa della Santissima Pietà di Cannobio nel 500° anniversario del miracolo. (Qui tutto il programma delle celebrazioni e la liturgia delle ore del giorno).
Di seguito pubblichiamo la sua omelia pronunciata durante la celebrazione, che riprende il testo (disponibile sempre in questa pagina in formato integrale per il download) della sua meditazione proposta per celebrare il centenario.
Nello spazio della sua intimità
Omelia nella celebrazione per il V Centenario del miracolo della Santissima Pietà di Cannobio
Quando sono arrivato a Novara, dopo l’ingresso nella Diocesi di san Gaudenzio il 5 febbraio 2012, quasi dieci anni fa, sono venuto qui la settimana prima di Natale di quell’anno a visitare la Pietà di Cannobio e a venerarla in privato, per rendermi conto della storia, del valore teologico e spirituale dell’icona custodita nel Santuario della città. Già san Carlo, cardinale di Milano, era stato in visita pastorale alla Pieve di Cannobio, che è appartenuta alla diocesi di Milano fino al 1818. Fu lui a volere la costruzione di un grande Santuario, sul luogo dove è avvenuto il segno prodigioso, per onorare e ricordare il Miracolo. Tra l’altro San Carlo qui celebrò la sua penultima messa, il 31 ottobre 1584.
Era di ritorno dal Sacro Monte di Varallo dove aveva trascorso gli esercizi spirituali da 12 al 28 ottobre, tra le Cappelle della Passione esistenti a quel tempo. Si recò poi ad Ascona a inaugurare il collegio Papio. Di ritorno pernottò presso la famiglia Omaccini, nobili milanesi che abitavano a fianco della casa del Miracolo. Il primo novembre si recò ad Arona, dove celebrò la sua ultima messa e poi, rientrato a Milano, vi moriva nella tarda sera del 3 novembre. Fu dunque San Carlo a volere la costruzione dell’attuale Santuario. I lavori iniziarono nel 1575 e si conclusero nel 1614 con la copertura in piombo del tiburio.
Nello spazio della sua intimità
Meditazione sul miracolo della Santissima Pietà nel 5° Centenario
08-01-2022
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Durante la mia prima visita fui sorpreso e affascinato anzitutto dalla forma dell’Icona: una piccola pergamena, di 30 x 27 cm, d’una bellezza incomparabile, da cui è avvenuto il miracolo dell’effusione di gocce di sangue e della Sacra Costa. Questo è un aspetto che impressiona, perché mette al centro il carattere oneroso e sofferente della passione di Cristo. È una realtà che stiamo censurando e che ci lascia sguarniti di fronte all’immane dolore che ancora oggi penetra nel mondo. Eppure in questi ultimi due anni il dolore nascosto di molti che sono stati vittime del terribile morbo ha bussato ancora in modo lancinante alla porta del nostro cuore. In altri periodi della storia, dove la sofferenza e la morte era più di casa, essa veniva visualizzata anche nelle immagini religiose, trovava occhi per essere vista ed essa parlava al cuore della gente. Oggi il dolore si riduce ad essere una battaglia per i vaccini…
La piccola pergamena della Pietà di Cannobio è un concentrato di teologia pasquale. A differenza della scenografia usuale delle “Pietà” o dei “Compianti”, in cui Maria, la mater dolorosa, accoglie nel suo grembo il Cristo morto, nell’icona di Cannobio il Corpo di Gesù assume i tratti del Cristo della Sindone, tanto che la pergamena è databile successivamente all’arrivo del Sacro Lino a Torino. In effetti verso la metà del ’400, prima di arrivare a Chambery, la sindone fu esposta a Vercelli, Avigliana, Pinerolo e a Savigliano. Il pittore, che forse era delle nostre parti, avrà avuto modo di vedere la Sindone per riprodurre sul nostro quadretto un Cristo sindonico. Si tratta di un’immagine che ha radici antiche.
Il Cristo vi appare frontale, con i signa passionis (gli strumenti della passione) che gli fanno corona, parte appesi sulla croce, parte sullo sfondo della pergamena. Il motivo della piccola pergamena risale a una visione che papa Gregorio Magno ha avuto mentre celebrava la messa in Santa Croce di Gerusalemme a Roma, ricordata come “la Messa di S. Gregorio”. Narra la leggenda che questo papa, mentre celebrava la messa, avrebbe visto un Cristo emergente dal Sepolcro, con alle spalle una Croce, con i due chiodi infissi. Parlò di questa visione e l’immagine fu immortalata in un mosaico che è ancora venerato in quella chiesa a Roma. I pittori che sono venuti in seguito, riprendendo quell’immagine, l’hanno arricchita della presenza di Maria, di Giovanni, e degli strumenti della passione, a modo di raggiera, con altri che non sono riprodotti nella nostra pergamena, come il gallo, la scala.
Nell’icona della Pietà di Cannobio questi elementi sono raccolti in modo essenziale attorno alle due figure di Maria e Giovanni. Il messaggio dell’Icona ci raggiunge ancor oggi, facendoci guardare il Cristo morto, col capo reclinato nella sua struggente bellezza, con lo stesso sguardo penetrante di Maria e Giovanni, carico di lacrime. Noi ci rivolgiamo al Cristo, circondato da tutti i segni della passione, strumenti di tortura e di morte, che sono l’emblema di quanto ancora oggi crocifigge l’uomo, soprattutto le donne e i bambini. Egli ha il volto reclinato che ci chiede di seguire la vita che muore con gli occhi gonfi di lacrime di Maria e Giovanni, con lo sguardo della pietà e dell’amore.
Osserviamoli: sono occhi che guardano il volto reclinato dell’uomo dei dolori e si riempiono delle lacrime della consolazione, della fiducia e della speranza. Gesù non giace tra le mani della Madre, come nel gruppo tradizionale che raffigura la Pietà con le donne e l’evangelista, quasi a fare da grembo che genera alla vita risorta. Qui Gesù con Maria e Giovanni è già nell’atto di uscire dal sepolcro. Il Cristo morto appena entra nel sepolcro sembra già uscirvi come risorto. Così è di solito raffigurato, ad esempio, nella bellissima Risurrezione del Mantegna.
Nella Pietà di Cannobio Gesù porta con sé nella vita nuova Maria e Giovanni, la Madre e il discepolo amato. Quello che avviene sotto la croce, quando Gesù dice alla Madre: “Ecco, tuo Figlio!” e al discepolo amato: “Ecco tua Madre!”, sembra qui mirabilmente rappresentato. L’evangelista Giovanni commenta: E da quell’ora il discepolo lo accolse nella sua casa, nello spazio della propria intimità (Gv 19,26-27).
Anche noi dobbiamo entrare nello “spazio della sua intimità”, nel sepolcro dove la morte genera vita, nell’atmosfera dove mors et vita duello / conflixere mirando (“la morte e la vita si sono affrontate in un prodigioso duello”, cfr Sequenza di Pasqua). Il nostro tempo della crisi deve passare da una libertà che produce morte, individualismo, dissipazione delle risorse, perdita della propria intimità, offesa ai bambini, alle donne, alle persone sole, agli svantaggiati, a una libertà che genera vita e la diffonde attorno a sé, che sa formare legami, gesti di prossimità, cura della sofferenza, passione per la vita comune, dedizione al bene della città.
Se restiamo nella vita che si consuma e ci consuma, se non scendiamo nel sepolcro con Cristo, allora rimarremo soli. Se con Lui, invece, ci immergiamo nella sua morte con lo sguardo della fede e dell’amore, allora diventiamo generatori di vita, trasmettiamo gesti di speranza, passione per l’uomo, forza di resistenza di fronte a coloro che abusano della vita privata e pubblica, pensando solo a sé. Lo spettacolo di quest’ultimi due anni ci chiede lo scatto di un “prodigioso duello” tra la morte che ci uccide e la vita che ci rigenera!
+ Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara