Torno volentieri, per la quinta volta, alla festa della beata Panacea: la prima volta ci venni da vescovo ausiliare di Milano, a motivo della mia lunghissima frequentazione della Valsesia, che dura da cinquant’anni, e le altre quattro naturalmente come vescovo di Novara.
Vengo volentieri perché è una festa cara a tutta la Valsesia, in particolare a Quarona e Ghemme. Vorrei offrirvi anche in questo anno un commento alla Parola di Dio e poterlo calare nella situazione attuale nella quale viviamo e che vediamo attorno, come ci ha detto all’inizio con grande finezza nel suo indirizzo di saluto il vostro parroco, don Piero. Subito il culto della Beata Panacea, pur essendo il misfatto capitato in un secolo di passaggio, si segnalò come una sorta di punto di riferimento per superare e guarire quello che potremmo definire un dramma della casa, una tragedia della famiglia. In effetti, la circostanza che generò questo infanticidio fu sostanzialmente un dramma familiare: di un uomo che, avendo perso la prima moglie, ne sposò un’altra e, pur di avere una compagna, fece una scelta del tutto sbagliata, come si rivelò per come uccise poi la figlia, frutto del primo matrimonio.