Due icone della testimonianza omelia alla festa del Tredicino

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Lo scorso 13 marzo, nella chiesa dei S.S. Martiri di Arona il vescovo Franco Giulio ha presieduto la messa solenne per la tradizionale festa del Tredicino. Di seguito il testo integrale dell’omelia.

 

Due icone della testimonianza

 

Un cordiale saluto a tutti voi che siete qui presenti a celebrare la festa compatronale dei quattro martiri di cui in questo luogo si custodiscono le reliquie e che è conosciuta come il “Tredicino” per la data annuale nella quale ricorre. Rivolgo anch’io il mio particolare saluto, unitamente a quello espresso dal parroco all’inizio della messa, alle autorità, ai monaci ortodossi che ci portano un po’ di Oriente in casa, e ancora a voi e vi abbraccio tutti.

Celebrare la festa patronale significa tornare all’origine che è il luogo dell’identità. Il nome che ciascuno porta, non se l’è scelto, ma gli è stato dato. Ci sono due cose che nessuno di noi, nonostante possa avere tanti soldi, può comperare e sono il volto e il nome. Essi sono segno che qualcuno ci ha pensato, ci ha voluti e ci ha amati. Tornare ogni anno all’origine da parte della comunità è allora un riandare alla sorgente di ciò per cui noi viviamo. La vostra è una sorgente preziosa, rappresentata dalla testimonianza di ben quattro martiri. In questo momento, però, non rievochiamo la vicenda dei vostri martiri, delle loro reliquie e dei loro nomi. A questo supplisce la devozione e l’attaccamento degli aronesi.


Due icone della testimonianza
Omelia per la festa del Tredicino ad Arona 2023
13-03-2023
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Mi preme invece dirvi il senso che assume per noi avere ben quattro martiri come patroni e lo dico in rapporto ai brani della Parola di Dio che abbiamo ascoltato. Si tratta di due pagine, come se fossero due icone dell’iconostasi della chiesa del monastero, a cui stanno lavorando i monaci ortodossi, e per la cui inaugurazione e benedizione verrà il loro arcivescovo. Sulla prima icona, cioè sulla pagina tratta dagli Atti degli Apostoli (At 6, 8-15; 7,55-60) compare la figura di Stefano, il protomartire, il modello di tutti i martiri; nella seconda icona abbiamo un brano del vangelo di Giovanni, che non riporta direttamente l’episodio drammatico del Getsemani, ma anticipa in una descrizione sorprendente la consegna di Gesù alla volontà del Padre, già nel capitolo 12 (Gv 12, 20-32).

 

  1. L’icona di Stefano: la storia della testimonianza

L’icona di Stefano è la storia della testimonianza, o meglio è la testimonianza che si snoda attraverso una storia. Una storia narrata ha bisogno di persone a cui riferirsi, necessita di modelli. Così è per tutte le “passioni dei martiri” scritte nei primi quattro secoli dell’èra cristiana che traggono esempio in qualche modo da questo modello. L’elemento sintetico che accomuna le Passiones è che la testimonianza riferita al martirio va compresa nel modo con cui la lingua greca, lingua nella quale è scritto tutto il Nuovo Testamento, esprime nell’unica parola “μαρτυρία/marturìa” senza soluzione di continuità sia la testimonianza sia il martirio. In tono incoraggiante dico che la storia della testimonianza ha un prezzo, non è una cosa facile, come tutte le cose belle della vita; dobbiamo stare attenti perché se la troviamo a un costo troppo conveniente dobbiamo diffidare, perché ci stanno ingannando. Tutto ciò che è raro è caro!

Così è bello vedere che nell’episodio di Stefano sono contenuti gli elementi della preziosità della testimonianza. Voglio ricordare che a partire da Stefano, in tutta la storia dell’umanità, i testimoni che poi diventano martiri non sono martiri contro gli altri, ma “a spese di se stessi”. In questi anni abbiamo avuto il documento tremendo di molti martiri kamikaze, a danno degli altri, mentre al contrario tutti i martiri cristiani sono uomini e donne che hanno pagato con il prezzo della propria vita. Il prezzo finale non è nient’altro che il vertice, cioè l’inveramento, di tutti i piccoli costi che ciascuno di noi paga nella propria vita. Ascoltate dunque qual è il tono, il colore, del prezzo finale che troviamo nelle parole che Stefano pronuncia, mentre viene fatto morire in modo truce con la lapidazione:

“E lapidavano Stefano, che pregava e diceva:”

Stefano muore a imitazione di Gesù. Nel racconto di Atti sono usate le stesse espressioni del Vangelo di Luca, così che il discepolo ritrascrive nella sua storia e nella sua vita la passione di Gesù. L’evangelista, che ha raccontato in modo avvincente la passione di Gesù, scrive quasi con le stesse parole la passione di Stefano (cfr. Lc 23,46), anzi ne usa lo stesso canovaccio.

“Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. (Lc 23,36)

 Mentre Gesù invoca e consegna al Padre il suo spirito, il discepolo dice:

“Signore Gesù accogli il mio spirito.” (At 7,59)

È un elemento bello e di verità: facendo accogliere il proprio spirito da Gesù, Stefano, e con lui tutti i testimoni, compresi noi, se non vogliono vivere una vita senza valore, senza forza, senza nerbo nel lavoro, nella professione, nella scuola, nella famiglia, alla fine senza un significato autentico, devono poter dire: “Signore Gesù accogli il mio spirito, perché solo così saremo accolti dal Padre”. Il testo degli Atti poi prosegue:

Poi piegò le ginocchia e gridò a gran voce: “Signore, non imputare loro questo peccato”. Detto questo, morì”. (At 7,60)

Che corrisponde alla parola di Gesù:

“Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno”. (Lc 23,34)

È detto in modo chiaro che l’azione contro Stefano è un peccato e una colpa, che sopprimere uno che s’impegna a favore degli altri, ed è vittima della sua generosità, resta una colpa, tuttavia il martire non è mai contro, ma affida la sua vita a Dio e perciò può dire: “Perdona loro perché non sanno quello che fanno!”. Persino: “Non imputare loro, il loro peccato!”.

È la prima icona: la storia della testimonianza ha un prezzo!

 

  1. L’icona del Getsemani: il cuore della testimonianza

La seconda icona è tratta dal vangelo di Giovanni: essa dice sostanzialmente tre cose. Il primo messaggio è il seguente:

“Tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci”. (Gv 12, 20) 

Il testo parlando dei Greci intende i proseliti, coloro che erano simpatizzanti, quelli che manifestavano un certo interesse per Gesù, un po’ come coloro che si avvicinano poco alla volta al nostro ambiente ecclesiale, ma con timidezza o tiepidamente; tuttavia di questi citati dal vangelo si dice che «volevano vedere Gesù»! (cfr. Gv 12,21). Quel Gesù che è visto da Stefano mentre viene lapidato, ora sono i Greci che lo vogliono vedere.

“Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: “Signore, vogliamo vedere Gesù”. Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù”. (Gv 12,21-22)

Il secondo messaggio di questi versetti è significativo: a Gesù non si arriva mai da soli, ma insieme ad altri, facendo, se necessario, anche qualche passo intermedio. La mediazione dei discepoli è decisiva per vedere Gesù, per incontrarlo è necessaria la mediazione della Chiesa degli apostoli.

Infine il terzo messaggio. Nella risposta di Gesù troviamo il “Getsemani di Giovanni”, con un linguaggio molto alto che non fa nessuno sconto e che ci presenta non più la storia, ma il “cuore della testimonianza”. Come è il testimone, qual è il suo cuore, qual è la sua passione? In una parola, qual è il fuoco che lo spinge a dare la vita a caro prezzo fino alla fine? Egli non lo fa per se stesso, ma agisce con una passione che è espressa da una bella espressione diventata giustamente famosa:

“In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”. (Gv 12, 24)

È un forte monito per noi che non abbiamo il coraggio di sacrificarci. Gesù conclude il suo aforisma dicendo:

“Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna”. (Gv 12, 25) 

Gesù intende dire che ritroverà la sua vita colui che la donerà, magari non la ritroverà subito, ma forse nei figli, nei nipoti, nella vita del Paese. Se invece tratteniamo la vita faremo come quelli che oggi vogliono tenere tutto per sé, sapendo che fra dieci anni non varrà più nulla! Così ci insegna questo aforisma: se si trattiene la vita per sé, essa perde di valore; se la si mette in gioco, essa cresce dentro di te. Gesù esprime la stessa idea a proposito del chicco che se, caduto in terra non muore, rimane solo. È un grande “pugno nello stomaco” nei confronti di tutti noi che pensiamo alla nostra realizzazione a partire da noi stessi, rimanendo in vetrina, cambiando tutti i giorni il profilo di Facebook… ma alla fine rimaniamo soli! Soli perché nessuno entra più nell’arena della vita e nessuno si mette in gioco. Al contrario chi muore mettendosi in gioco produce molto frutto. Ascoltiamo bene il detto di Gesù: “Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna”. (Gv 12, 25). Occorre fare attenzione a non interpretare questo testo come una sorta di “do ut des”, di scambio, per cui uno finge di perderla, per meritarsi con questo scambio l’aldilà, il paradiso.

Il testo continua con il passo definito il “Getsemani secondo Giovanni”, quando Gesù prega:

“Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome”. (Gv 12, 27-28) 

Mentre nei sinottici Matteo e Luca Gesù dice:

“Padre mio, se questo calice non può passare via senza che io lo beva, si compia la tua volontà“. (Mt 26, 42)

 

“Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà“. (Lc 22, 42)

È quella stessa volontà che noi chiediamo si compia tutte le volte che recitiamo la preghiera del Signore.  Il brano poi si conclude con una sorta di commento fuori campo, che rappresenta il dono, l’augurio, la bellezza di questa festa patronale. La voce dice così:

La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: “Un angelo gli ha parlato”. 

Anche al Getsemani si parla di angeli che vengono a consolare Gesù.

Disse Gesù: “Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me”. (Gv 12, 29-32) 

Quest’espressione che si trova qui al capitolo 12 sarà poi inverata quando Gesù sulla croce attira a sé, dapprima il discepolo nascosto – in greco κεκρυμμένος/kekrummènos (da κρυπτος/cruptos=nascosto) – Giuseppe d’Arimatea, e con lui un discepolo notturno, Nicodemo, che non rappresenta quelli che stanno vicini a Lui, ma i “lontani”.  Un discepolo nascosto e un discepolo notturno sono attirati dal magnetismo della croce di Gesù! Fin dall’inizio abbiamo rilevato che sono i Greci cioè dei pagani, ma essi vogliono ugualmente vedere Gesù, come lo aveva voluto vedere Stefano.

Siamo al cuore della testimonianza, in cui non serve apparire per essere belli, ma che pulsa perché noi custodiamo lo sguardo che ci fa vedere Gesù, e che dunque è capace nella vita di ogni giorno di animare la nostra fiducia, la nostra speranza, il desiderio di condividere, di essere prossimi, la voglia di animare la vita della città. In tale senso in una festa patronale ci sono tutte le forze e le componenti del popolo di Dio! –. Ecco, vi chiedo: noi abbiamo dentro questa passione, questo cuore della testimonianza?

Attenzione, si può morire persino “assiderati” senza il fuoco della testimonianza! Chiarisco la motivazione di questo verbo attraverso la citazione di un famoso teologo cattolico, conosciuto anche nel mondo orientale, Johann Adam Möhler (Igersheim, 1796 – Monaco di Baviera, 1838):

“Non vorremmo morire né asfissiati per estremo centralismo, né assiderati per estremo individualismo. Né uno può pensare di essere tutti, né ciascuno può pensare di essere il tutto, ma solo l’unità di tutti è una totalità. Questo è l’eídos (εἶδος) della Chiesa cattolica!”.

Qui chiaramente si intende la Chiesa cattolica come Chiesa universale. Ahimè stiamo morendo assiderati! Le nostre comunità non sono più unità vive, sono spesso come un arcipelago, cioè un insieme di isole! La nostra pratica della vita civile e sociale è fortemente individualista, al massimo qualcuno pensa di aprirsi agli altri senza aver bisogno degli altri. Cosa significa? Riascoltiamo il punto centrale dell’espressione di Möhler appena citata:

Né uno può pensare di essere tutti, né ciascuno può pensare di essere il tutto, ma solo l’unità di tutti è una totalità.

Basta portarla nel cuore, con tanti auguri.

 

+Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara