Due incontri che svelano il significato profondo del prendersi cura, dell’attenzione per chi vive la fragilità e dei malati. Li ha raccontati il vescovo Franco Giulio Brambilla nella sua omelia nella messa per l’anniversario delle apparizioni mariane a Lourdes, nella Giornata mondiale del malato, lo scorso 11 febbraio. La celebrazione, come ormai tradizione, si è svolta nella chiesa di San Michele nell’ospedale di Novara e trasmessa – per ovviare ai limiti alle presenze in chiesa dovute alle norme anti-covid – anche in streaming.
Due incontri sull’aver cura
Messa all’Ospedale di Novara
11-02-2021
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Il primo è quello con i seminaristi, cui il vescovo ha predicato il corso di esercizi spirituali dedicato ai primi sei capitoli del Vangelo di Marco. Un testo dal quale emerge non tanto la figura di Gesù come guaritore dalla malattia, ma come guaritore dello spirito, che apre ad un cammino di salvezza. «Certo Gesù viene incontro al nostro bisogno, ma per aprirlo a un bisogno più grande o, meglio, a un desiderio più grande, il desiderio di Dio!», ha detto il vescovo.
E poi l’incontro con i medici novaresi, avvenuto prima di Natale: «Talune infermiere e medici – ha raccontato – hanno svolto persino il compito tipico del sacerdote, quando per il cappellano non era possibile accedere alle sale di rianimazione e ad altri reparti: cercati dagli sguardi pieni di paura dei malati in rianimazione, li hanno accompagnati con l’ultima preghiera!».
Ecco di seguito il testo integrale dell’omelia.
Due incontri sull’aver cura
Messa all’Ospedale di Novara
Due incontri mi hanno molto impressionato in questi ultimi tempi. Essi ci aiutano a trovare l’occasione per una breve riflessione, oggi festa dell’Immacolata Vergine di Lourdes, il santuario a cui si riferiscono prevalentemente gli ammalati della cristianità.
Il primo incontro
Il primo incontro è avvenuto la settimana scorsa. Per la verità si trattava di una serie di incontri. Infatti, sarei dovuto andare in seminario a predicare gli esercizi spirituali ai nostri seminaristi, mentre invece sono stato trattenuto a casa e ho dovuto proporre gli esercizi in video tutta la settimana, come si usa adesso. Come tema e canovaccio degli esercizi ho scelto i primi sei capitoli del vangelo di Marco. Mentre spiegavo, passo dopo passo, a un pubblico così esigente, come sono quelli in cammino per diventare i preti di domani, mi ha impressionato il fatto che uno dei tratti per cui il ministero di Gesù è, fin dall’origine, riconoscibile, probabilmente anche il tratto più certo dal punto di vista storico, ed è il seguente: Gesù si è presentato, ci verrebbe da dire, come un guaritore. In realtà si deve dire come uno che libera dal male. Infatti se osserviamo i racconti dei primi capitoli, che inscenano il momento entusiasta del suo ministero – momento nel quale egli letteralmente spopola, perché molta gente lo segue e lo ascolta – Gesù compie soprattutto gesti di liberazione.
L’evangelista Giovanni riprende nel suo vangelo alcuni di questi episodi. L’episodio di Cana che abbiamo ascoltato, non è definito tuttavia come miracolo o azione taumaturgica, ma come segno. Qualcuno oggi riduce il cristianesimo al suo aspetto miracolistico: se anche noi celebrassimo una “messa di guarigione” ci sarebbero sicuramente folle presenti – peraltro faccio notare che in tutto il messale non c’è un formulario per una messa di guarigione – e anche nella nostra diocesi abbiamo avuto casi di questo genere perché, quando uno sta male, va dovunque per cercare la possibilità di guarire! Questa però è una evidente distorsione del messaggio di Gesù.
Gesù appare sì come un guaritore, ma egli non libera solo in superfice, va anche in profondità. La cosa storicamente più certa è che all’inizio Gesù apparve così ma, come chiarisce Giovanni: «Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù» (cfr Gv 2,11). Gesù vuole che anche il gesto di guarigione sia sentito, vissuto, sperimentato, non solo come un venire incontro al nostro bisogno di salute, ma come il segno di qualcos’altro, come appello alla salvezza! E la salvezza è accogliere Dio nella nostra esistenza per orientarla alla vita buona. Tant’è vero che spesso in questi capitoli succede che Gesù – e l’evangelista insiste moltissimo su questo – per tutto il giorno, pressato dalla gente, fino a tarda notte, non si risparmi nel guarire coloro che venivano da tutte le parti, ma poi si sottrae e si ritira “in un luogo deserto” per pregare, come ci ricorda il vangelo di Marco subito all’inizio: – εἰς ἔρημον τόπον (Mc 1,35) – in un “luogo eremitico”, perché nessuno pensi che egli possa essere usato e sequestrato solo come un guaritore. Certo Gesù viene incontro al nostro bisogno, ma per aprirlo a un bisogno più grande o, meglio, a un desiderio più grande, il desiderio di Dio!
Il secondo incontro
Il secondo incontro è avvenuto, durante una bella serata, prima di Natale. Era presente anche il Direttore Generale dell’Ospedale insieme a circa quaranta medici, in streaming. Era l’occasione per rivolgerci gli auguri e per raccontare la vicenda tragica di quest’anno. Alcune testimonianze sono state persino commoventi. Emergeva anche in quell’occasione – e lo dobbiamo dire in modo forte – che molti medici, infermieri, operatori sanitari e amministrativi e tutte le persone del mondo ospedaliero, e anche i volontari qui presenti, non solo hanno curato, ma si sono presi cura del malato. Talune infermiere e medici hanno svolto persino il compito tipico del sacerdote, quando per il cappellano non era possibile accedere alle sale di rianimazione e ad altri reparti: cercati dagli sguardi pieni di paura dei malati in rianimazione, li hanno accompagnati con l’ultima preghiera! E questo aspetto di cura umana e religiosa, sottolineato anche dal Direttore nel suo intervento quella sera, mi ha commosso molto. Ha suscitato davvero dentro tutti noi un bisogno di gratitudine, verso chi, magari senza apparire, ha reso possibile tali gesti, perché oggi l’istituzione sanitaria è presente non solo con competenza, ma anche con umanità.
Curare e aver cura
Dunque questi due incontri, il gesto di Gesù che libera e il gesto di medici e sanitari che guariscono: due scene in cui non solo si cura, ma ci si prende cura. Nel mondo occidentale, ormai da cinque secoli si distingue tra guarigione e salvezza – non si separa, ma si distingue tra guarigione e salvezza. Ciò ci spinge a dire in questo momento una parola di gratitudine. Intende essere una parola di gratitudine molto profonda, non semplicemente un “grazie”, ma un “grazie” che consente di sostenere, anche dentro una situazione così difficile, la fiducia e la speranza nei confronti degli ammalati e delle famiglie. Esse sono state le più colpite dal punto di vista dell’esperienza psicologica: possiamo immaginare quanto sia devastante per la coscienza e per l’elaborazione del lutto far ricoverare un malato e non rivederlo più neppure da morto!
Allora, il “grazie” che vogliamo esprimere è per affermare che, nonostante questa drammatica vicenda, che non è neppure la prima nella storia – nel Trecento e Quattrocento la peste nera aveva così colpito il sentire comune tanto da far diventare pessimisti sul futuro, come sto leggendo in questi giorni in un libro sul Medioevo –, non dobbiamo perdere la fiammella della speranza. Per alcuni medici e operatori sanitari, forse è difficile percepire immediatamente nell’intervento tecnico anche questo risvolto più ampio, che però è presente in molti. La differenza tra curare e aver cura è importante: curare è la tecnica e la clinica, aver cura è il sorriso, l’umanità, la buona relazione, l’ascolto, in ogni caso qualcosa di più!
Anzi aver cura significa una cosa più radicale. Come ho già spiegato altri anni, ma ora in questa situazione drammatica ha un significato e una consistenza ben più forti, aver cura significa restituire al malato un’immagine affidabile: non curo solo la malattia, ma curo il malato, non tratto la malattia come un “cosa del malato”, ma mi accosto al malato che è minacciato nel suo spirito dalla malattia. La differenza è decisiva. Il malato è qualcuno per cui “i giorni della malattia” non sono solo una sfida per il corpo, ma per lo spirito. Sono una sfida per l’anima!”. L’espressione “i giorni della malattia” è della Beata Giovannina Franchi, vissuta tra il 1807 e il 1872, fondatrice della Congregazione delle Suore Infermiere dell’Addolorata di Como, che prestano il loro servizio presso il centro di riabilitazione di Costa Masnaga (LC).
In questi giorni ho fatto pubblicare sul sito della diocesi un testo che avevo composto durante la degenza per la riabilitazione del mio ginocchio proprio là a Villa Beretta. Una sera ho potuto fare una piccola chiacchierata proprio su questo tema: “Curare e aver cura” (disponibile a questo indirizzo ndr.). Mi piacerebbe che questo testo fosse distribuito dal cappellano, don Michele, che ringrazio per la sua dedizione e accoglienza, come segno della gratitudine mia, dei sacerdoti, della gente, della comunità cristiana e della città tutta!
+Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara