L’ingresso festoso a Gerusalemme, l’ultima cena, la Passione, la morte in Croce ed infine la luce della Resurrezione. Le tappe della Settimana Santa, raccontate attraverso gli occhi di Pietro, osservandone nelle pagine dei Vangeli i ricordi degli anni passati con il Rabbì, le scelte e gli atteggiamenti, ma anche provando a immaginarne i silenzi, i pensieri, le paure e scoprendone la Speranza.
Sono le cinque omelie della Pasqua 2024 che il vescovo Franco Giulio Brambilla ha tenuto in cattedrale dal 24 al 31 marzo. Un cammino avvincente, nel quale il lettore è accompagnato a mettersi al fianco di Cefa di Cafarnao, con lo sguardo che guarda al Risorto.
Le pubblichiamo in questa pagina e, raccolte in un unico volumetto da scaricare in PDF.
FARE PASQUA SULLE ORME DI PIETRO
Le omelie della Settimana Santa
24/31-03-2024 Download
UNA DOMENICA DI GLORIA
Cattedrale di Novara,
Domenica delle Palme, 24 marzo 2024
La Domenica delle Palme: Passione del Signore, come titola il Messale Romano questa solennità, dà inizio alla Grande Settimana, la Settimana Santa. Essa prende avvio con il rito della benedizione degli ulivi e delle palme che ricorda il solenne ingresso di Gesù a Gerusalemme, accolto dalla folla, e in particolare dai bambini, che agitano le loro palme per festeggiare l’arrivo del Signore nella Città santa.
Tuttavia, per contrasto, nella Messa la liturgia ci fa leggere tutta la Passione. In questo anno è proposto il racconto più antico della Passione, tratto dal Vangelo di Marco. È il racconto più breve e fu scritto, dopo la resurrezione di Gesù, probabilmente per visitare i luoghi della passione e fare memoria degli eventi che erano accaduti intorno alla Pasqua.
Il racconto di Marco è molto vivace. Quest’anno per vivere la Pasqua ci faremo accompagnare da un personaggio speciale. Oggi introdurremo solo la sua figura e poi ne seguiremo la presenza lungo i racconti delle celebrazioni del Giovedì Santo e del Venerdì Santo, per terminare con la grande veglia del Sabato Santo e il giorno di Pasqua. Il personaggio è Pietro e fa quasi da controfigura di Gesù!
Nel racconto dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme, Pietro non è citato in modo esplicito, ma egli era certamente presente tra la folla e seguiva i ragazzi che stendevano i mantelli e agitavano i ramoscelli d’ulivo e di palma. Lo vediamo saltare da una parte all’altra del corteo trionfale. Possiamo persino immaginare Pietro la sera di quella giornata, soddisfatto di aver visto il Maestro accolto come un re, come il Messia che viene in mezzo al suo popolo. Forse l’apostolo accarezzava l’idea che finalmente Gesù avrebbe istituito il regno di Dio in mezzo agli uomini. È probabile che Pietro fin dall’inizio avesse coltivato dentro il suo cuore questo segreto desiderio.
La sera di quel giorno Pietro è al culmine dell’entusiasmo. A Betania, dove i discepoli sono rientrati con Gesù, Pietro ricorda gli episodi della vita pubblica del Maestro, nei quali egli ha giocato il ruolo di chi sostiene Gesù, forse perché seguiva l’illusione che Egli fosse il Messia che viene con braccio forte e disteso, per portare salvezza al suo popolo, liberandolo dall’oppressione dei Romani.
- Il primo episodio che gli viene alla mente risale al momento della chiamata dei discepoli (cfr. Mt 10,2; Mc 3,44; Lc 6,13). Il primo era stato lui col fratello Andrea. Alla chiamata di Gesù, essi hanno risposto subito con trasporto, come ci riferisce Marco. L’evangelista narra che la risposta di Pietro fu subitanea, perché lo descrive come una persona entusiasta, noi oggi diremmo un “primario”, che si sente dalla parte giusta, un po’ sbruffone e persino spavaldo. Infatti, pochi giorni dopo troviamo Pietro alla “giornata inaugurale” di Cafarnao (cfr. Mt 8; Mc 1; Lc 4), quando Gesù, dopo aver guarito il paralitico nella Sinagoga, viene condotto dall’apostolo pochi metri più avanti a casa sua, dove si trova la suocera malata e per la quale chiede un intervento di guarigione. Ancora oggi in Palestina è possibile scorgere, tra gli scavi archeologici effettuati da padre Corbo, la Sinagoga del II secolo dopo Cristo, che mostra alle fondamenta i resti di un precedente edificio. Davanti alla Sinagoga è venuto alla luce il villaggio dei pescatori, fra cui si scorge, in mezzo alle diverse insulae, la casa identificata come quella di Pietro, per via di un graffito sulla prima chiesa giudeocristiana, costruita proprio su quel sito. Il Vangelo ci dice che Gesù guarisce la suocera dalla febbre e la fa rialzare (in greco “risorgere”). È comprensibile che Pietro possa essere rimasto esaltato da questi avvenimenti che gli mostravano il potere del Messia…
- Il secondo episodio si riferisce alla pesca miracolosa (Lc 5,4-9). Pietro è stato fuori in barca tutta la notte con i suoi compagni e non ha pescato nulla. Al rientro il mattino, trova Gesù sulla spiaggia che gli dà ordine di riprendere il largo, uscire di nuovo e gettare le reti per la pesca. Pietro che era del mestiere sapeva che non si pesca di mattina, ma durante la notte. Eppure, proprio perché riconosce a Gesù la sua autorità messianica, riprende il largo e, gettando la rete dal fianco destro della barca, pesca una gran quantità di pesci, a tal punto d’aver bisogno degli altri compagni con le loro barche per non affondare! In questi primi due episodi l’intervento prodigioso di Gesù rende Pietro un trascinatore, un capo naturale e, come si diceva, un po’ spavaldo. Possiamo immaginare che abbia coltivato dentro di sé l’illusione di poter essere il primo tra i discepoli del Messia.
- Il terzo episodio, molto importante, accade sul mare di Cesarea (cfr. Mt 16,13-20) – alla sera dell’ingresso con le palme Pietro ha rievocato certamente anche questo momento – quando il primo apostolo di fronte alla domanda di Gesù circa la sua identità risponde a nome di tutti: «Tu sei il Cristo [Messia], il figlio del Dio vivente» (Mt 16,16). Da tale risposta, Pietro sembra colui che veramente ha capito chi è Gesù. Tuttavia, Gesù gli chiarisce subito che l’immagine che egli s’è fatto del Messia non corrisponde a quella giusta. Addirittura, è famoso il rimprovero che Pietro si sente rivolgere dal Maestro: «“Vade retro Satana” – “Sta dietro a me, Satana”» (cfr. Mt 16,23). Pietro deve seguire Gesù un passo indietro. Viceversa, sarebbe come colui che vuole superare Gesù, anzi come chi tenta (satana) Gesù per il suo stile messianico. È una immagine molto suggestiva, nella quale Gesù con mano tenera e con molta comprensione dice a Pietro di guardarsi dalla tentazione di attendersi un’immagine di Dio e del suo Messia, come chi è a nostro servizio, chi fa miracoli e risolve a bacchetta le situazioni, in una parola si attende un “dio miracolistico”. È la tentazione di molti di noi ancor oggi, compresi vescovi e preti! Soprattutto quando si devono affrontare situazioni difficili o dolorose con la nostra preghiera vorremmo piegare a nostro servizio la volontà di Dio.
- E, infine, l’ultimo episodio che l’apostolo Pietro, quella “sera di gloria”, dopo il grande successo della manifestazione di popolarità avvenuta a Gerusalemme, ha rievocato ancora una volta. È l’evento della Trasfigurazione, quando un giorno Gesù portò con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e si trasfigurò davanti a loro (cfr. Mc 9,2-8). Solo nel vangelo di Marco c’è una bellissima precisazione: «le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche» (Mc 9,3). Pietro su quel monte comprende che Gesù è destinato a risorgere, ma dovrà attraversare il momento della Passione. Nell’evento della Trasfigurazione, travolto da quella manifestazione di gloria (teofania), l’apostolo non sa cosa dire, e perciò aggiunge: «Rabbì è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia» (Mc 9,5). Pietro vorrebbe fermare quel momento, vorrebbe dimorare sotto la tenda del Signore che abita in mezzo a noi, vorrebbe godere la compagnia del Signore della vita. La voce dal cielo (il Padre) rivela la sua identità di Figlio e di Servo sofferente. Subito dopo, però, Gesù dice che è necessario scendere dal monte, che bisogna andare tra la gente nella città degli uomini, per percorrere il cammino della Passione.
Anche per la nostra Chiesa diocesana è stata una settimana drammatica, a causa di diverse tragedie: fra queste una giovane che si è tolta la vita, un altro giovane deceduto improvvisamente. Ancora ieri pomeriggio i genitori di un giovane che aveva partecipato alla Veglia delle Palme sono morti in un incidente stradale. E purtroppo in Valsesia una giovane madre si è tolta la vita dopo aver partorito il suo primo bambino. Pietro deve imparare anch’egli a passare attraverso la sofferenza perché un’immagine della vita solo falsamente ottimistica non è vera, ci taglierebbe fuori dal dolore di molti, non ci aiuterebbe a elaborare la fatica e la sofferenza. Nei testi che ascolteremo in questa settimana, Pietro sarà chiamato a passare attraverso questa esperienza. Gesù glielo annuncerà e lo profetizzerà con una frase drammatica dopo l’ultima cena:
«Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi. Gesù disse loro: “Tutti rimarrete scandalizzati, perché sta scritto: ‘Percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse?’ Ma, dopo che sarò risorto, vi precederò in Galilea”. Pietro gli disse: “Anche se tutti si scandalizzeranno, io no!”» (Mc 14,26-28).
Immaginiamo come si sarà sentito Pietro che ascolta questo racconto dopo la resurrezione di Gesù. Nel vangelo di Marco leggiamo proprio così. La maggior parte dei commentatori afferma che l’evangelista era il segretario di Pietro ed è proprio attraverso queste pagine in cui ci vengono presentate con grande verità le “figuracce” del primo degli apostoli!
Gesù alla fine gli profetizza:
«In verità io ti dico: proprio tu, oggi, questa notte, prima che due volte il gallo canti, tre volte mi rinnegherai» (Mc 14,30).
Ascolteremo nelle altre celebrazioni della Settimana santa la continuazione dei drammatici eventi che seguono.
NON MI LAVERAI I PIEDI IN ETERNO
Cattedrale di Novara
Giovedì Santo, 28 marzo 2024
Dopo l’ingresso trionfale di Gesù in Gerusalemme, avevamo lasciato Pietro immaginandolo pieno di entusiasmo per quanto era avvenuto, mentre lo raccontava agli altri discepoli. E abbiamo evocato i momenti significativi della sua esperienza personale con Gesù: la prima chiamata, la pesca prodigiosa, la confessione di fede nel Messia e, infine, la trasfigurazione sul monte. Sono tutti episodi nei quali Pietro eccelle e si mostra discepolo sicuro ed entusiasta, salvo il secondo nel quale si narra di una notte di pesca andata a vuoto e che, solo con l’intervento di Gesù, sulla sua parola che invita a prendere il largo, la pesca risulta infine abbondante e prodigiosa!
Sono passati pochi giorni e Pietro ora è presente con gli altri discepoli nel Cenacolo. L’evangelista Giovanni non descrive l’ultima cena, anche se c’è un breve riferimento all’inizio al fatto che i discepoli erano a tavola con Gesù. Il brano, che è appena stato proclamato nella liturgia della Parola, si apre in modo solenne, facendo da portale di ingresso alla seconda parte del Vangelo, il Libro dell’ora, il Libro del “Grande segno”, la passione, morte e glorificazione di Gesù. Esso proclama:
«Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13,1).
Per quest’ultima espressione, il testo greco “li amò fino alla fine”, usa un termine – εἰς τέλος/eis télos – con una duplice valenza per cui si può tradurre anche: “li amò fino al fine”, per indicare il vertice, il punto culminante, il più alto della sua missione. Gesù ci ha amato con un amore tanto grande al di là del quale non si può andare! Anche in questo caso Pietro, e anche noi probabilmente, ci aspetteremmo una grande manifestazione di gloria, che avrebbe meravigliato tutti. Invece Gesù alzandosi da tavola si cinge un grembiule – e il rito questa sera prevede che venga ripetuto tale gesto che compirò tra poco con dodici bambini qui presenti – e lava i piedi ai suoi discepoli. Il lavare i piedi magari dopo un lungo viaggio, come danno testimonianza altri brani biblici, era nell’antichità un gesto, insieme ad altri come l’asciugare i piedi e il profumare il capo, segno di accoglienza e ospitalità. Così come prima di andare a tavola vi erano rituali di accostamento alla mensa. Tuttavia, in questo caso, anziché essere i discepoli che si mettono a lavare i piedi a Gesù e l’un l’altro, avviene il contrario: è Gesù in persona che compie tale gesto. Dice il testo:
«Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto» (Gv 13,5).
A noi basterebbe questo gesto emblematico di Gesù ma, poiché abbiamo detto che in questa Pasqua vogliamo seguire le orme di Pietro, ecco che qui lo ritroviamo al centro della scena.
«Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: “Signore, tu lavi i piedi a me?”. Rispose Gesù: “Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo”. Gli disse Pietro: “Tu non mi laverai i piedi in eterno!”» (Gv 13,6-8).
L’obiezione di Pietro assomiglia a certi rifiuti assoluti e capricciosi che a volte ascoltiamo dai nostri ragazzi o adolescenti: “questa cosa non la farò mai!”
«Gli rispose Gesù: “Se non ti laverò, non avrai parte con me”. Gli disse Simon Pietro: “Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!”» (Gv 13,8-9).
Pietro reagisce in modo quasi infantile o adolescenziale, perché non è in grado di comprendere fino in fondo ciò che Gesù sta compiendo. Infatti, prima si nega al gesto di Gesù e poi vorrebbe farsi lavare totalmente. E allora ecco il messaggio di Gesù:
«Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro» (Gv 13,10).
Per accostarsi alla mensa, dopo un lungo viaggio alla fine del cammino, come noi al termine del percorso quaresimale, è sufficiente compiere il gesto di purificazione che facevano tutti gli antichi. Ogni religione ha rituali, gesti di abluzione (l’acquasantiera all’ingresso delle chiese, ne è un ricordo) e quindi riti di purificazione. Alcuni santuari hanno i sagrati o le piazze antistanti con al centro la fontana per purificarsi o abbeverarsi. Il testo rimarca, infatti:
«Soggiunse Gesù: “Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti”» (Gv 13,10).
Pietro comprende che per appartenere al gruppo dei discepoli, non solo deve farsi lavare i piedi, ma deve aderire totalmente alla volontà del Signore. Egli compie un passo importante ulteriore. All’inizio si sottrae e poi si fa coinvolgere totalmente, passa dal niente al tutto. Così siamo spesso anche noi. In tal senso Pietro è una figura molto attuale e moderna. Se egli non partecipa appieno al gesto compiuto da Gesù che lo introduce alla Grande Cena, non appartiene alla cerchia dei discepoli. Forse Giovanni non racconta l’ultima Cena perché secondo alcune ipotesi degli studiosi il testo veniva proclamato mentre stavano celebrando la cena; oppure perché Giovanni seguiva un altro calendario liturgico… le ipotesi sono diverse. Ecco però la conclusione del brano:
«Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: “Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri» (Gv 13,11-14).
Il messaggio di Gesù è immediato e limpido. Lui che è il Maestro e il Signore si fa servo perché noi che siamo i servi e i figli dobbiamo imparare da Lui. Gesù ci insegna che dovremmo aiutarci, venirci incontro, farci prossimo, curarci gli uni degli altri, e invita i ragazzi e i bambini qui presenti persino a collaborare e condividere il gioco e le cose della vita. Non dobbiamo vivere il gesto di Gesù come un atteggiamento dovuto, ma come una disposizione che nasce dal cuore.
«Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,15).
Il testo del Vangelo proposto in questa liturgia purtroppo si interrompe a questo punto, ma il discorso di Gesù continua e il testo riporta una delle due beatitudini presenti in Giovanni, l’altra è pronunciata in occasione dell’incontro di Tommaso con il Risorto (cfr. Gv 20,29). Sono due beatitudini molto significative e belle:
«Sapendo queste cose, siete beati se le mettete in pratica» (Gv 13,17).
La beatitudine riguarda la pratica cristiana: occorre fare il gesto della prossimità, della vicinanza, dell’aiuto, di una parola confortante, con il tempo dedicato andando a trovare qualcuno perché, nel nostro tempo, è risaputo che la malattia più grave è la solitudine… Dice Gesù: “Se farete questo, sarete beati!”. Infatti, molti dicono che quando si fanno atti di carità è più ciò che si riceve di quello che si dà, come emerge spesso dalle testimonianze dei gruppi parrocchiali di solidarietà e carità! Ma questo si può dire perché è vero che, soprattutto donando, riceviamo molto di più. Ciò dovrebbe avvenire tra marito e moglie, tra figli e genitori, tra amici e tra religiosi e religiose, anche se è difficile e impegnativo. Anche la vita comune dei religiosi e dei preti non è una facile impresa! Infatti, è molto più facile amare quelli del terzo mondo che chi ci sta d’appresso, i vicini della porta accanto.
Il dono che vi offro questa sera è legato ancora una volta alla figura di Pietro ed è espresso dalla beatitudine che è un programma di vita: sapendo queste cose, siete beati se le mettete in pratica!
LA DEBOLEZZA DI PIETRO
Cattedrale di Novara
Venerdì Santo, 29 marzo 2024
Il personaggio di Pietro ci sta accompagnando nel cammino verso la Pasqua, passando per il grande “esodo”, come lo definisce Luca (Lc 9,31). Chissà se l’evangelista aveva presenti i due testi (Is 52,13 – 53,12; Eb 4,14-16; 5,7-9) che abbiamo ascoltato prima del racconto della Passione?
La prima lettura è il quarto dei carmi del Deuteroisaia. Nella seconda parte del libro di Isaia vi sono quattro testi poetici che hanno a tema un personaggio dell’Antico Testamento, che viene definito il Servo di Jahvè, il Servo del Signore. Sono testi molto studiati per ricercare l’identità del protagonista, se sia un personaggio singolo o addirittura una sorta di persona comunitaria. Tuttavia, i quattro carmi che si riferiscono al Servo sofferente, non si trovano di seguito nel libro di Isaia dal cap. 42 al cap. 53-54, ma sono inseriti all’interno degli altri annunci del profeta postesilico.
Dobbiamo pensare che Pietro conoscesse questi componimenti poetici, perché sono i testi che più hanno impressionato la spiritualità del popolo ebraico. Quando, circa due secoli prima di Cristo, si dovette tradurre in greco l’Antico Testamento – la traduzione è detta la LXX, la Settanta – a motivo del fatto che molti ebrei ormai vivevano ad Alessandria d’Egitto e non conoscevano più l’ebraico, il libro di Isaia in particolare fu tradotto tentando di facilitare la drammaticità di quanto vi era narrato. Ne è testimonianza il fatto che si è cercato di mitigare un po’ i toni soprattutto del quarto carme, perché risultava difficile pensare che il Servo di Jahvè potesse aver subìto una sorte così traumatica. Dobbiamo, dunque, supporre che Pietro avesse già ascoltato questi testi e che fosse in qualche modo preparato ad entrare in scena nella passione.
Nella Domenica delle Palme abbiamo incontrato Pietro, alla sera dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme, baldanzoso e trascinatore, mentre rievocava a sé e agli altri discepoli gli episodi dell’incontro con il Messia, di cui era stato testimone durante la vita pubblica di Gesù. Di nuovo ieri, nel Giovedì santo, lo abbiamo sorpreso nell’intimità del Cenacolo, mentre Gesù lava i piedi a lui e agli altri discepoli. Oggi finalmente è presente nel giardino del Getsemani.
- C’è una bellissima corrispondenza nella prima parte del racconto della Passione tra il momento della cattura di Gesù, ancora nel buio della notte, e il tradimento di Pietro, nel cortile del Sommo sacerdote. Giovanni in modo suggestivo e simbolico dice che era una notte senza luce, perché i figli delle tenebre vennero con spade e bastoni e con le lanterne. Eppure, c’era la luna piena, perché nel calendario la Pasqua, allora come oggi, è fissata a partire dalle fasi lunari (il primo plenilunio di primavera). Giovanni, però, insiste sul potere dei “figli delle tenebre” che vengono portando le lanterne, hanno bisogno di luce artificiale per arrestare Gesù, che è la luce del mondo.
Nella prima scena è narrato l’arresto di Gesù. L’evangelista lo introduce attraverso un impressionante dialogo tra Gesù e la masnada degli uomini armati:
«“Chi cercate?”. Gli risposero: “Gesù, il Nazareno”. Disse loro Gesù: “Sono io!”» (Gv 18, 4b-5a)
L’espressione “Sono io” ricorre tre volte nel testo, due in discorso diretto e una terza nella narrazione. Eccola: «Appena disse loro “Sono io”, indietreggiarono e caddero a terra» (Gv 18,6). Di fronte alla minaccia Gesù non si sottrae, anzi si preoccupa di coloro che gli sono affidati. Infatti, alla seconda volta che lo interrogano, dice:
«Gesù replicò: “Vi ho detto: sono io. Se dunque cercate me, lasciate che questi se ne vadano”»
e il testo commenta:
«perché si compisse la parola che egli aveva detto: “Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato”». (Gv, 18,9)
Anche di fronte al mistero del tradimento di Giuda, dobbiamo tenere cara alla nostra mente la parola di Gesù che attesta: “non ho perduto nessuno di quelli che mi sono stati affidati”. Giovanni in effetti non parla della fine ingloriosa di Giuda.
Il testo dunque riporta tre volte l’affermazione: “Sono io”. Pietro avrà udito certamente questa affermazione di Gesù, perché era presente e perché subito dopo si dice che prese la spada per colpire Malco, il servo del Sommo sacerdote.
È molto plastica la scena come la dipinge Gaudenzio Ferrari in una delle ventuno scene della Parete Gaudenziana di Varallo, riprodotta qui in Duomo. E uno dei due notturni. Ingrandendolo si potrebbe notare il gioco delle mani dei soldati che sono come manette che afferrano Gesù. Sul lato sinistro vediamo Pietro che, dipinto con una tecnica sorprendente, quasi tridimensionale, sembra uscire dal quadro, mentre taglia l’orecchio del servo Malco. Pietro era dunque cosciente perché aveva visto che Gesù non si era sottratto alla cattura, anzi aveva voluto salvare i suoi discepoli.
- Subito dopo è narrata la seconda scena: il rinnegamento di Pietro. È una scena a sandwich: all’inizio Pietro è introdotto nel cortile del Sommo sacerdote dal discepolo amato; poi segue il momento in cui si dice che Pietro fa comunella, scaldandosi con i servi e le guardie, mentre Gesù è interrogato nel Sinedrio; infine, Pietro è raffigurato intorno al fuoco, mentre nega per due volte di appartenere ai discepoli di Gesù. Anche in questo caso la negazione: “Non lo sono” compare due volte in discorso diretto e una volta in discorso indiretto.
«E la giovane portinaia disse a Pietro: “Non sei anche tu uno dei discepoli di quest’uomo?”. Egli rispose: “Non lo sono”» (Gv, 18,17).
Nei Sinottici è precisato che i discepoli si potevano riconoscere perché parlavano un dialetto galilaico. Pietro che aveva seguito Gesù con spavalderia ed entusiasmo, nega ora di conoscere Gesù e di far parte dei suoi discepoli. E poi una seconda volta direttamente e la terza volta in modo indiretto Pietro nega la sua appartenenza ai discepoli:
«Intanto Simon Pietro stava lì a scaldarsi. Gli dissero: “Non sei anche tu uno dei suoi discepoli?”. Egli lo negò e disse: “Non lo sono”. Ma uno dei servi del sommo sacerdote, parente di quello a cui Pietro aveva tagliato l’orecchio, disse: “Non ti ho forse visto con lui nel giardino?”. Pietro negò di nuovo, e subito un gallo cantò» (Gv 18,25-27).
Per tutti i presenti, dal vescovo ai presbiteri e ai laici, viene il momento nel quale facciamo fatica a seguire Gesù nonostante abbiamo davanti il suo esempio eroico. Gesù si qualifica tre volte con il suo: “Sono io”, mentre per tre volte Pietro rinnega con il suo: “Non lo sono”. C’è una perfetta corrispondenza tra il coraggio di Gesù e la debolezza di Pietro.
Nei vangeli Sinottici si precisa che Gesù esce dal pretorio, vede Pietro che aveva già sentito il canto del gallo e lo guarda con tenero amore. E si aggiunge: «Pietro uscì fuori e pianse amaramente» (Lc 22,62). Anche noi dobbiamo piangere su di noi tutte le volte che non siamo stati fedeli al Signore e alle cose importanti della vita. Ognuno di noi si guardi dentro, davanti alla croce di Gesù, quando tra poco verremo in processione ad adorare la Croce. Cosa faremo allora? Come si fa a piangere su noi, sui nostri peccati, sulle nostre malizie e cattiverie, sulle nostre solitudini, sul momento in cui non abbiamo dato una risposta? Come si fa ad accogliere veramente Gesù?
- Alla fine del racconto della Passione, quando Gesù viene deposto dalla croce, nel vangelo si usa un verbo che in italiano è difficile da rendere nel pieno significato dell’originale greco:
«Dopo questi fatti Giuseppe di Arimatea, che era discepolo di Gesù, ma di nascosto, per timore dei Giudei, chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù. Pilato lo concesse. Allora egli andò e prese il corpo di Gesù. Vi andò anche Nicodèmo – quello che in precedenza era andato da lui di notte – e portò circa trenta chili di una mistura di mirra e di àloe» (Gv 19,38-39).
Ecco entrano in scena due personaggi che agiscono di nascosto e di notte…
«Essi presero allora il corpo di Gesù (ἔλαβον οὖν τὸ σῶμα τοῦ Ἰησοῦ – élabon oùn tò sōma toù Iesoù) e lo avvolsero con teli, insieme ad aromi, come usano fare i Giudei per preparare la sepoltura» (Gv 19,40).
L’azione dei due è presentata con una quantità enorme di unguenti (32 kg circa), perché Giovanni la presenta come una sepoltura regale. Il verbo “presero” (λαμβάνω – lambànō), utilizzato per dire l’accoglienza del corpo morto di Gesù, si trova già all’inizio del Vangelo di Giovanni:
«Venne tra i suoi, ma i suoi non l’hanno accolto – καὶ οἱ ἴδιοι αὐτὸν οὐ παρέλαβον – kai oi ìdioi autòn ou parélaben) – a quanti però che l’hanno accolto (ὅσοι δὲ ἔλαβον αὐτόν – òsoi dé élabon autòn) ha dato il potere di diventare figli Dio» (Gv 1,11-12).
Il verbo usato nel prologo corrisponde a quello usato in questo caso per descrivere il gesto di Giuseppe di Arimatea e di Nicodemo – ἔλαβον οὖν τὸ σῶμα τοῦ Ἰησοῦ – –: è il verbo che significa “accogliere”, ricevere nello spazio della propria vita. Giuseppe e Nicodemo, il primo che si accosta a Gesù di nascosto, il secondo che era andato da Lui di notte, diventano i primi discepoli dell’attrazione di Gesù dalla croce: «Io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32). Il magnetismo di Gesù è quello della croce, non l’attrazione esaltante della domenica delle Palme. È sotto la croce che si diventa discepoli di Gesù.
Il verbo “accogliere” è lo stesso usato al momento della presenza di Maria insieme a Giovanni, presso la croce, quando Gesù dice al discepolo amato: “Ecco tua madre!” e alla madre “Ecco tu figlio”» (Gv 19,26-27). L’evangelista commenta: «E da quell’ora il discepolo l’accolse (ἔλαβεν – élaben) con sé (εἰς τὰ ἴδια – eis tà ídia: nello spazio intimo)» (Gv 19,27). A coloro che diventano suoi discepoli Gesù dalla croce dà la possibilità di accoglierlo nello spazio della propria esistenza.
Il Signore ci conceda di non essere come Pietro, ma di imparare ad accogliere Gesù come Nicodemo e Giuseppe di Arimatea, anche se talvolta siamo discepoli un po’ nascosti o notturni.
LA NOTTE PIÙ BUIA
Cattedrale di Novara
Veglia pasquale, 30 marzo 2024
Quella notte Pietro non aveva chiuso occhio. Dopo che il Signore e Maestro era morto sulla croce, il senso di colpa e il pianto sconsolato l’avevano tormentato e lui non riusciva a darsi pace per il fatto di averlo tradito ben tre volte! Quando Gesù era uscito dal pretorio aveva incrociato gli occhi di Pietro, che s’era sentito perdonato dallo sguardo di Gesù. Aveva pianto amaramente! Quel pianto si era prolungato per tutta la notte e il giorno seguente. Erano passati come in un film, nel suo cuore e nella sua mente, i grandi momenti della vita nei quali egli aveva cercato di seguire le orme del Maestro.
Il primo incontro era avvenuto a Cafarnao, sul lago, quando Pietro aveva ricevuto la chiamata e prontamente, come era del suo carattere impetuoso e irruente, l’aveva accolta e aveva seguito Gesù. Ne aveva poi riconosciuto il braccio potente, quando aveva guarito la suocera e lì si era esaltato perché aveva intuito di aver incontrato un guaritore potente. E, ancora, aveva fatto la prima esperienza di fragilità e di povertà, quando essendo uscito in mare tutta la notte e non avendo pescato nulla, aveva dovuto ritornare al largo al mattino seguente sulla parola di Gesù. Era rimasto scioccato, lui che era del mestiere, di aver raccolto una grande quantità di pesci!
E poi, in quella notte di venerdì, aveva continuato a piangere calde lacrime, quando si era ricordato della domanda che Gesù gli aveva rivolto sulla sua identità: «Tu chi dici che io sia?». Aveva risposto con trasporto: «Tu sei il Messia, il Figlio del Dio vivente!». S’era persino inorgoglito, quando aveva sentito rispondere da Gesù: «Tu sei Pietro, e su questa pietra – che sei tu – edificherò la mia Chiesa!». Ma Gesù era stato chiaro fin da subito, aggiungendo che sarebbe andato incontro al sacrificio della vita. Pietro lo aveva preso da parte e, obiettando, gli aveva fatto le sue rimostranze di fronte a una simile prospettiva. Anzi, aveva protestato, affermando che lui stesso non lo avrebbe permesso. Ma Gesù gli aveva detto: «Vade retro Satana – Stai un passo indietro, perché sennò diventi come il satana, che mi tenta…».
E ancora ricordava, in quella notte insonne, quando Gesù, insieme a Giacomo e Giovanni, li aveva portati su un monte alto e avevano assistito alla sua trasfigurazione, allorché Gesù era apparso in candide vesti. Quelle vesti che nessun lavandaio avrebbe potuto rendere più candide! Allora, Gesù aveva in certo modo anticipato il destino glorioso della risurrezione. E, come abbiamo ascoltato nella Domenica delle Palme, quel giorno si sarà sentito esaltato per la manifestazione di popolarità che era stata tributata a Gesù, quando era stato accolto come un re di pace.
E, poi, il giovedì dopo la cena pasquale, aveva assistito a una scena sconvolgente: Gesù che si era chinato a lavargli i piedi. Lui però aveva opposto il suo rifiuto al gesto di umiliazione del Maestro, protestando che sarebbe stato lui a dover lavare i piedi al suo Signore! Ma Gesù aveva chiarito: «Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri».
E, infine, nella notte delle tenebre, di fronte a coloro che gli venivano incontro con spade bastoni, Gesù aveva chiesto per tre volte: «Chi cercate?», mentre Pietro per tre volte aveva negato di conoscere Gesù, svendendo la sua identità: «Non lo conosco, non sono un suo discepolo!». Ma le guardie e la servetta lo avevano riconosciuto, perché non si esprimeva con la lingua e l’accento di Gerusalemme, ma con l’inflessione dialettale della Galilea!
Quella notte Pietro non si dava pace, non riusciva ad addormentarsi! E il giorno seguente, il sabato, Pietro scompare dalla scena. Nessuna pagina evangelica apre uno squarcio sul luogo dove sia stato l’apostolo. Nelle letture della Veglia pasquale non si parla di Pietro, se non per un accenno del Vangelo a un futuro promesso, nel quale il Risorto dice alle donne di andare a dire ai discepoli e a Pietro, che Egli si mostrerà a loro in Galilea.
Ho cercato di indovinare ancora una volta i pensieri che affollavano la mente di Pietro. In quel sabato egli forse avrà cercato di andare al sepolcro per trattare con le guardie e prendere il corpo di Gesù, ma il luogo era troppo vigilato e non si poteva fare nulla. E, poi, il masso era troppo grande tanto che al mattino seguente anche le donne si chiederanno: «chi ci rotolerà via la grossa pietra dal sepolcro?». A questo punto ho pensato che non potessi continuare a inseguire gli incubi di Pietro…
Mi è venuto in soccorso il ricordo di aver a suo tempo lungamente meditato la Prima Lettera di Pietro. Mi sono detto: è possibile che nella sua lettera l’apostolo non abbia fissato il guadagno dell’esperienza tragica di quella notte? Ho scorso in fretta la lettera, che mi è stata compagna di viaggio al tempo del Convegno di Verona (2006). Forse il senso di quella notte travagliata trova la sua concentrazione simbolica più alta in un brano dello scritto petrino:
«Stringendovi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo» (1Pt 2,4-5).
Pietro di seguito svolgerà lungamente il tema, ma tutto inizia dai versetti che ho appena letto. Cosa comprese Pietro, lui che era stato onorato da Gesù stesso come la “pietra” su cui doveva essere fondata la Chiesa? La profezia di Gesù non ha neppure la necessità di distinguere il gioco di parole pietra/Pietro, perché nell’affermazione di Gesù è chiaro il riferimento alla affidabilità e alla solidità della pietra. Il gioco dei termini in aramaico è univoco, perché è come se Gesù avesse detto: «tu sei [come] sasso, e su questo sasso che sei tu, edificherò la mia Chiesa». Pietro aveva compreso, forse proprio nella notte amara del tradimento perdonato, che egli poteva essere la roccia, su cui i suoi fratelli dovevano costruire la Chiesa del futuro, solo se rimaneva per sempre avvinghiato alla pietra viva che è Gesù.
«Stringendovi a lui, pietra viva…» (1Pt 2,4).
Non avete mai osservato le pietre di questa cattedrale? Non avete mai ammirato le pietre della cupola di san Gaudenzio? Le pietre sono materiale amorfo, duro, rigido, eppure Pietro non esita ad usare questa espressione che non si trova in tutta la letteratura: “pietre vive” (λίθοι ζῶντες – lìthoi zōntes)! Nel senso che ogni pietra che è stata usata per costruire l’edificio slanciato della cupola antonelliana deve occupare il suo posto giusto. Se voi toglieste una pietra da uno dei possenti pilastri che si slanciano verso l’alto, tutto comincerebbe ad incrinarsi. Non dobbiamo pensare, tuttavia, di essere pietre che bastano da sole a costruire, dobbiamo seguire quanto dice la lettera:
«rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio…» (1Pt 2,4).
Gesù è la pietra viva, anzi è la pietra angolare. Segue poi una frase incidentale: «rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio». Pietro aveva vagato una notte e un giorno pensando a quel Gesù che lui aveva seguito, sognandolo come il Messia che veniva con mano forte e braccio disteso, ma invece era morto condannato a un patibolo infame (“rigettata dagli uomini”). Il discepolo ha finalmente capito come Gesù sia la pietra scelta e preziosa. In che cosa consiste però la pietra preziosa davanti a Dio? Sta proprio nel gesto che Pietro non voleva vedere: Gesù che offre se stesso, che dona la sua vita per noi.
I nostri giovani, come quelli che sono qui lodevolmente questa sera, hanno mai pensato ai sacrifici che i loro genitori hanno compiuto e compiono per farli crescere e farli arrivare al punto in cui sono ora? E che continueranno ancora a fare, magari fino all’età di trent’anni? Sono certo che potranno scoprirlo quando, a loro volta diventati genitori, ricorderanno i sacrifici del papà e della mamma. Probabilmente anche tutti noi abbiamo scoperto il dono della vita attraverso la donazione di chi si è sacrificato per noi!
Pietro, dunque, ha visto che Gesù è la pietra viva, perché è rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio. Poi continua dicendo:
«Anche voi come pietre vive venite impiegati…» (1Pt 2,5).
L’originale è bellissimo: «καὶ αὐτοὶ ὡς λίθοι ζῶντες οἰκοδομεῖσθε – kai autòi ōs lìthoi zōntes oikodomeīsthe»: sarebbe più opportuno tradurre: siete “modellati”, “sagomati”, “edificati” l’uno nell’altro. Il verbo si riferisce alla “costruzione della casa” (οἰκοδομέω – oikodomeō), per cui una pietra farà da pilastro, l’altra pietra da decoro, l’altra ancora si slancerà come un arco, la pietra successiva s’innalzerà come guglia, e, infine, l’ultima potrà fare da stipite del portone… Le pietre, da materiale amorfo e rigido, sembrano lasciarsi plasmare, essere sagomate ed edificate, ciascuna con la propria funzione, come pietre vive! Anche noi qui dobbiamo lasciaci lavorare come pietre vive.
È questa la vera Pasqua di risurrezione! È la Pasqua che ci chiede di tornare non più ad essere individui, isolati, perché ciascuno pensa per sé, bada solo alla propria piccola vita, fatica ad uscire di casa. Noi, purtroppo, siamo diventati una società di individui. Al contrario le pietre vive sono quelle che si lasciano plasmare ed edificare insieme, perché insieme si slanciano verso l’alto. La nostra Cattedrale, con la sua navata alta 33 metri, ce ne dà un’immagine emozionante. Fu progettata dal genio di Antonelli, il quale avrebbe smontato e ricostruito tutto, pur di realizzare un progetto grandioso, persino demolendo anche il bel chiostro medievale della Canonica!
Il testo biblico poi ci dice la finalità di questo edificio magnificente:
«Anche voi siete edificati (sagomati, incastrati, intrecciati) come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio per mezzo di Gesù Cristo” (1Pt 2,5).
L’apostolo parla di un “edificio spirituale” (οἶκος πνευματικὸς – oìkos pneumatikòs). L’edificio nel quale stiamo celebrando è detto anche “chiesa” – in particolare duomo, dal latino domus, intendendo casa della comunità. Ma noi chiamiamo “chiesa” l’edificio di mura, mentre si parla di edificio cementato dallo Spirito (πνευματικὸς – pneumatikòs), cioè di una chiesa fatta di persone vive perché spirituali. La chiesa di mura prende il nome dal fatto che in essa si raduna la chiesa di persone. Infatti, lo stesso termine “chiesa” significa “popolo convocato”, dal verbo greco καλέω – kaléo che ha il valore di “chiamare”, “convocare insieme”, convergere in un unico punto. Abbiamo bisogno di non stare soli nelle nostre case, di non richiuderci nell’ “appartamento”, in uno spazio appartato e separato, ma di uscire e convergere tutti insieme, costruendo un edificio spirituale di pietre vive!
Come si vive e cosa si fa nell’edificio spirituale? Si realizza un sacerdozio santo, si sta insieme, non solo perché ci si sente bene, ma per vivere come il “santo popolo sacerdotale” (εἰς ἱεράτευμα ἅγιον – eis ieráteuma ágion). Questa è la finalità della chiesa: vivere la vita quotidiana come offerta gradita Dio. Noi vescovi e presbiteri, che viviamo il cosiddetto sacerdozio “ministeriale”, siamo a servizio del sacerdozio “universale” o “battesimale”, il sacerdozio regale dei fedeli, che appartiene a tutti! La lettera di Pietro è citata ben tredici volte nei testi del Concilio Vaticano II, per la sua importanza fondamentale. In quella notte Pietro comprese che egli doveva essere la pietra che fa lievitare la costruzione santa dove si impara a vivere un sacerdozio santo. Continua in modo coerente il testo:
«così dà offrire sacrifici spirituali graditi a Dio (ἀνενέγκαι πνευματικὰς θυσίας εὐπροσδέκτους θεῷ – anenégkai pneumatikàs thusìas euprosdèktous)» (1Pt 2,5).
Cosa sono i sacrifici spirituali? Sono quelli che ogni credente offre attraverso le azioni e le situazioni della vita, là dove ci troviamo e come cerchiamo di vivere nel lavoro, nello studio, nella famiglia, nell’impegno nel mondo. Il sacrificio spirituale significa la vita quotidiana vissuta nell’amore e nella carità dello Spirito Santo. Perché lo Spirito dell’agape è la forza che anima la nostra esistenza. Ancora: la vita quotidiana va vissuta non semplicemente facendola “funzionare”, ma facendola “esistere” come una vita piena di fiducia, di gioia, rendendola pietra viva che costruisce il corpo della Chiesa. Lo ha scritto in un libro bellissimo l’autore dell’“epoca delle passioni tristi”: M. Benasayag, Funzionare o esistere, Vita & Pensiero, Milano 2019.
Pietro in quella notte, passata senza chiudere occhio, è sceso nell’abisso del suo tradimento, per risorgere rinnovato, meditando sulle realtà contenute in questo testo. Egli ha capito che, quando Gesù gli aveva detto: «Tu sei Pietro, e su questa pietra, che sei tu, edificherò la mia chiesa», non l’aveva innalzato, o esaltato, ma l’aveva messo a servizio delle persone, perché edificassero nella loro vita quotidiana un edificio spirituale, un sacerdozio santo, un sacrificio gradito a Dio.
Gesù risorto appare dapprima alle donne, non agli apostoli. Siamo certi, tuttavia, che la seconda apparizione fu concessa a Pietro. C’è infatti un testo, scritto più tardi, intorno agli anni ‘80 -’90 dopo Cristo che però tiene incastonata la sua “perla preziosissima” che risale a quarant’anni prima, forse proprio subito dopo questa notte. L’evangelista Luca scrive che i discepoli di Emmaus, tornati a Gerusalemme «trovarono riuniti gli Undici – poiché Giuda Iscariota non c’era più, perché l’aveva tradito e s’era tolto la vita, mentre Pietro l’aveva rinnegato, ma poi si era pentito – e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: “Davvero il Signore è risorto, ed è apparso a Simone!”».
In questo kerygma antichissimo, l’apostolo non viene chiamato Pietro, ma viene ripreso il suo nome originale, quello della prima ora, quello di Cafarnao, del lago, di Cesarea e del monte della Trasfigurazione. In questo versetto antichissimo, che la comunità come diamante prezioso ha trasmesso sino alla fine e che l’evangelista Luca ha incastonato nel racconto più bello di tutto il Vangelo, l’episodio dei discepoli di Emmaus, si dice che il mattino, dopo la notte più buia, il primo apostolo era arrivato ad incontrare il Signore risorto! Gesù si mostra a Simone come il Crocifisso risorto, nelle cui piaghe tocca con mano l’agàpe che rinnova la vita. Solo a questo punto Simone può diventare veramente Pietro.
LA SPERANZA CHE È IN NOI
Cattedrale di Novara
Pasqua di Resurrezione, 31 marzo 2024
In questo anno abbiamo vissuto la Settimana Santa accompagnati dall’apostolo Pietro, seguendolo in tutti i suoi passi fino al Vangelo di questa mattina che abbiamo appena ascoltato. Nella Domenica delle Palme, abbiamo immaginato Pietro mentre ricorda tutti gli altri incontri con Gesù lungo il suo ministero, prima di entrare nella Settimana Santa; giovedì sera, abbiamo evocato la lavanda dei piedi a cui Pietro voleva sottrarsi; venerdì abbiamo ricordato il triplice rinnegamento di Pietro con il perdono di Gesù; e, infine, ieri sera, non avendo nessun testo biblico su Pietro a cui si potesse riferire il silenzio totale del sabato Santo, abbiamo commentato un breve versetto tratto dalla Prima lettera di Pietro (1Pt 2,4-5), in cui è riassunta l’esperienza drammatica di quella notte insonne dopo che il Signore era morto in croce.
Da ultimo in questa mattina, nell’“ultima puntata” ci viene presentato il bell’episodio che abbiamo ascoltato nel Vangelo, molto amato da tutta la tradizione e da molti commentatori. Innanzitutto, dal grande sant’Agostino, il quale annota che Pietro e il discepolo che Gesù amava corrono insieme al sepolcro, ma l’amore arriva prima, poi sopraggiunge Pietro, un po’ affaticato. A proposito del discepolo che Gesù amava si è soliti identificarlo con l’apostolo Giovanni, ma l’evangelista non rivela mai il suo nome. Forse vuole che ciascuno di noi si identifichi in quel discepolo amato da Gesù. Infatti, il testo non dice “il discepolo che ama Gesù”, ma il “discepolo amato da Gesù”! Nella corsa al sepolcro arriva prima l’amore, come dice Sant’Agostino, e poi a passi affannati vi giunge anche Pietro che vede il sepolcro vuoto. Dice il testo:
«Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte» (Gv 20,4-7).
L’evangelista è minuzioso nel descrivere tutti i segni, perché probabilmente dopo la risurrezione circolava già la falsa notizia – una fake-news del tempo! – che il corpo di Gesù fosse stato trafugato. Dunque, l’evangelo con un tratto apologetico, difensivo, sottolinea invece che tutto era a posto, in un ordine che esclude ogni sottrazione del corpo.
Di fronte a questa scena potremmo identificare con due immagini le tipologie di persone che sono qui presenti oggi. Da una parte, Giovanni, il discepolo amato, il giovane che con entusiasmo corre di più e che vede anche meglio di noi, che siamo più anziani e attempati. Arrivando per primo al sepolcro il discepolo amato col cuore ardente comprende subito che è accaduto qualcosa di straordinario. Dall’altra parte, abbiamo Pietro che col passo appesantito arriva dopo: egli incarna la nostra generazione più anziana, che ha il peso degli anni, della fatica, ma nondimeno ha la ricchezza dell’esperienza, e quindi procede con più prudenza, vuol vedere bene le cose, come appunto fa Simone. Pietro rappresenta chi riveste compiti educativi, di responsabilità, che non può più e non vuole più credere solo per l’entusiasmo. Sono belle queste due figure, per identificarci anche noi nel giorno di Pasqua!
Volendo dunque completare il nostro percorso con Pietro ci chiediamo: cosa avrà pensato il primo apostolo in quel momento così unico e sconvolgente?! Il testo del Vangelo non ce lo dice, se non attraverso tale confronto, che rimanda probabilmente anche al confronto tra la tradizione giovannea, che si era sviluppata più a Efeso, e quella petrina, che si era sviluppata di più a Roma. Nessuna prevale sull’altra, anche se non manca un accenno di concorrenza.
Abbiamo però due testi che ci aiutano a intuire quale sarà stato il pensiero di Pietro, cosa avrà imparato in quella visita al sepolcro. L’esperienza del sepolcro vuoto, con le bende e la sindone ripiegati, non sono una prova, ma è un segno che ci rimanda alla vita nuova del Risorto.
- Il primo testo a cui mi riferisco e da cui cerchiamo di comprendere cosa avrà imparato Pietro è la Prima Lettura di oggi, giorno di Pasqua, tratta dal libro degli Atti degli Apostoli. In tale opera sono contenuti due grandi discorsi, entrambi messi in bocca a Pietro: il primo si trova al capitolo 2, ed è rivolto prevalentemente ai Giudei; il secondo si trova al capitolo 10 ed è rivolto prevalentemente ai pagani. Sono due discorsi nei quali troviamo il cuore dell’annuncio della fede cristiana. Quello che abbiamo ascoltato stamattina è il discorso rivolto ai pagani, più esattamente si tratta degli ellenisti, di quei proseliti presenti a Gerusalemme che non provenivano dalla cultura giudaica. Ecco il testo:
«Voi sapete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, cominciando dalla Galilea – Luca fa una sorta di riassunto del Vangelo – dopo il battesimo predicato da Giovanni; cioè come Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazareth, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui. E noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme. Essi lo uccisero appendendolo a una croce, – mentre nel primo discorso Pietro aveva detto ai giudei presenti: “voi” l’avete ucciso…” – ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che si manifestasse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi” (At 10,37-41)
La prima cosa che Pietro ha imparato è racchiusa nell’avversativa: “ma”. Gesù passa in mezzo a noi, come molti di noi passiamo in mezzo alla vita, cerchiamo di beneficiare le persone, cioè fare del bene, eppure gli uomini mettono a morte il giusto e lo uccidono. Il testo dice: «Essi lo uccisero appendendolo a una croce» come ci ha detto l’antico canto latino della sequenza «hanno ucciso l’autore della vita». Colui che nella sua esistenza terrena ha trasmesso e incoraggiato la vita è stato appeso alla croce. Il “ma” è come una linea verticale che irrompe dall’alto e dice che Dio è capace di trasformare la morte in vita, se è una morte accolta per amore, anzi in una vita che non muore più! È questa allora la prima cosa che Pietro ha imparato, che è il cuore, il centro, il succo più profondo della Risurrezione
Detto in un modo semplice: proviamo ad immaginare ciò che abbiamo fatto nella nostra vita fino ad oggi!? È possibile che tutto ciò che noi abbiamo fatto di bene, persino il male che abbiamo sconfitto, le cose difficili che abbiamo dovuto superare, le conquiste che abbiamo fatto (la costruzione di una casa, i progressi nel lavoro, gli affetti a cui siamo stati fedeli, la difficile crescita dei figli, il tempo attraverso il quale siamo passati), è possibile che tutto vada a finire nel nulla!? In tutte le culture umane questo è la domanda centrale che sorge dal cuore dell’uomo: la vita dell’uomo e della donna, la mia esistenza singolare è destinata ad essere solo una fugace apparizione? Tutto precipita nel nulla? Per tale motivo la Pasqua è la festa delle feste!
Alcuni affermano che ci disperdiamo nell’universo, e alla fine della loro vita lo fanno anche con il rito paganeggiante della dispersione delle ceneri. La questione radicale è la seguente. Dobbiamo rispondere con certezza a questa domanda: la mia vita singolare, personale, quella di ciascuno di noi con i nostri volti e nomi, sparisce nel nulla?! La fatica e la gioia, le sofferenze e la speranza che abbiamo patito, agito e vissuto, sono destinate a sparire nel nulla o a rimanere viventi presso Dio?! Tutto le altre questioni sono secondarie, passano in secondo ordine. Il “ma” di Pietro «…ma Dio lo ha resuscitato…» contiene questa certezza! È il vero augurio pasquale che vi rivolgo, in questa occasione che potrebbe essere anche l’ultima Pasqua che vivo qui a Novara con voi!
Il vescovo oggi vi dice che tutto ciò che di bello, di buono, di amabile, di santo, di vivo, di incoraggiante abbiamo fatto, non è destinato a precipitare nel nulla! Dovremmo poterlo dire in modo personale per ciascuno: Tutto è destinato a rimanere! Anzi è destinato a permanere alla destra di Dio! Questa è la fede nella Risurrezione!
- Per usare allora un linguaggio che entri anche nella nostra vita, ricorro all’altro testo di Pietro. È la Prima lettera di Pietro – è uno scritto che forse leggiamo poco e secondo la maggioranza degli esegeti è un’opera autentica – a differenza della seconda di Pietro che è invece pseudoepigrafica, cioè scritta da un discepolo che si colloca nella scia di Pietro. Mentre nella veglia pasquale ho commentato un versetto del cap. 2 della stessa lettera, ora mi riferisco a un brano del cap. 3, con cui intendo accompagnare il tratto di vita che abbiamo ancora da percorrere, per i più giovani ed entusiasti sino a noi adulti che abbiamo un passo un po’ più rallentato e ha affannato. Oggi ascoltiamo questa parola pensando a ciò che ci sta intorno e comprendiamo quanto sia attuale.
«E chi potrà farvi del male, se sarete ferventi nel bene? Se poi doveste soffrire per la giustizia, beati voi! Non sgomentatevi per paura di loro e non turbatevi, ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3,13-15).
«Sempre pronti a rendere ragione della speranza che è in voi!». Ciò si deve vedere anche dalle cose più piccole. Quando un figlio sposato ha un problema familiare e subito vuole gettare la spugna, i genitori si mettono in agitazione. Ma la risposta più bella non sarà quella di dirgli che non va bene agire così, forse bisognerà anche dirlo, ma è soprattutto quella di raccontare come i due genitori sono riusciti a rimanere uniti e felici, anche quando si sono superate le difficoltà, le fatiche e le tragedie della vita. È questa la cosa che rincuora veramente il figlio giovane che, alle prime difficoltà, passa dalla luna di miele alla luna la luna d’aceto. «Sempre pronti a rendere ragione della speranza che è in voi!» È giustamente famoso questo passo della Lettera di Pietro! Il seguito è ancora una volta sorprendente:
«Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché, nel momento stesso in cui si parla male di voi, rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo» (1Pt 3,16).
L’apostolo così entusiasta, generoso, talvolta persino spavaldo e sbruffone, come l’abbiamo incontrato questa settimana, Pietro che ha tradito tre volte Gesù, ci dice le cose che veramente contano. La testimonianza più profonda che ciascuno porta con sé, la novità di vita che portiamo dentro di noi, può essere fatta con dolcezza e rispetto, con retta coscienza, sapendo che prima di dire le ragioni che abbiamo nella nostra mente, dobbiamo mostrare i gesti che vengono dal cuore.
Chi ha qualche anno in più, sia per la vita personale, sia per la vita familiare, e anche per la vita sociale e persino politica, ha potuto vedere tante situazioni che sono cambiate, anche dopo anni di successo o notorietà. Talora alcuni personaggi televisivi o personalità pubbliche parlano come se fossero immutabili ed eterne. Al contrario le vicende della storia sono cambiate terribilmente e più in fretta di quanto si poteva pensare. Basti ricordare agli ultimi vent’anni del Novecento.
La gioia di questa Pasqua 2024 sia la gioia che coltiviamo dentro di noi e che testimoniamo con dolcezza e rispetto e con retta coscienza! Auguri di buona Pasqua!