Lo scorso 31 gennaio, il vescovo Franco Giulio ha presieduto la celebrazione eucaristica per la solennità di San Giulio al monastero Mater Ecclesiae. Qui di seguito pubblichiamo il testo integrale della sua omelia, dedicata alla parabola dei talenti.
I talenti di Dio e l’opera dell’uomo
Solennità di San Giulio 2023
Saluto e introduzione
Carissime Sorelle,
cari amministratori, autorità civili e militari,
cari sacerdoti,
carissimi voi qui presenti,
torniamo a celebrare, con grande spolvero, la festa di san Giulio. Per questa occasione ho pensato di proporvi una riflessione sulla parabola che abbiamo appena ascoltato e che è legata a un mio antico ricordo, quando veniva proclamata (anche nel rito romano) nella messa dei santi “pontefici e confessori”, avendola io imparata in latino[1], ancor prima che lo studiassi a scuola. Il prevosto d’allora della mia parrocchia d’origine, a cui portavo la palmatoria[2], mi invitava a ripetere con lui quanto proclamava, perché prima o poi avrei imparato il senso di ciò che in quel momento non comprendevo. Così, infatti, tutti noi abbiamo imparato la lingua, perché prima s’impara e poi si capisce. Oggi purtroppo vogliamo prima far capire e poi imparare, ma i risultati tardano a venire.
I talenti di Dio e l’opera dell’uomo
Solennità di San Giulio 2023
31-01-2023
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Questo testo mandato a memoria in latino, dunque, mi è rimasto sempre caro, e mi ha anche sempre intrigato a motivo della durezza dimostrata da Gesù, mentre racconta questa parabola sconcertante, che assomiglia all’altra presente sempre nel vangelo di Matteo (Mt 20,1-16), nella quale si racconta che gli operai chiamati a lavorare nella vigna all’ultima ora, ricevono un salario uguale a quelli dalla prima ora. È sconcertante perché introduce un codice mercantile, anche se per noi oggi è meno sconvolgente perché non conosciamo più l’equivalenza del valore dei talenti.
Il “talento” è l’unità di misura monetaria più alta presente del mondo antico, come ad esempio il talento babilonese o il talento greco-romano. Dai calcoli che ho potuto fare, un talento equivarrebbe a circa venticinque/trentamila euro e quindi cinque talenti sfiorano il valore di centocinquantamila euro di oggi! In un’altra parabola (Mt 18,21-35), invece, i talenti sono diecimila, quelli che un tale doveva restituire al suo padrone e lo prega perché gli dilazioni la restituzione, mentre egli al contrario si dimostra inflessibile verso un suo collega di lavoro che gli doveva solo cento denari, pari a cento euro: la sproporzione è enorme! In questo caso si parlerebbe di tre milioni di euro (sei miliardi delle vecchie lire) contro un centinaio di euro.
Il padrone della parabola odierna distribuisce a ciascuno diversi talenti secondo la propria capacità. Vi proporrò tre approfondimenti sulla parabola: il primo riguarda l’immagine di Dio; il secondo, la qualità del tempo; e il terzo, l’opera dell’uomo; a cui aggiungerò una considerazione finale.
- L’immagine di Dio
Se noi passassimo una mano sul racconto, sentiremmo che c’è un punto in cui la parabola per così dire punge, là dove il racconto stesso sembra sfidare l’esperienza. Dagli esegeti viene chiamato la pointe critique de la parabole – la punta critica della parabola – cioè quel momento nel quale ci si aspetterebbe una conclusione, e invece, trasgredendo la logica, il racconto prende un’altra piega. Alla fine della parabola si dice che l’ultimo servo, a cui è stato dato un solo talento, mentre ci aspettiamo che lo faccia fruttare, al contrario lo nasconde. E per giustificare il suo operato, vi è una prima risposta inattesa di fronte al padrone:
“Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso”. (Mt 25, 24b)
Nella scusa del servo è presente anche un dato falso, una reticenza, perché in ogni caso egli almeno un talento l’ha ricevuto. E invece la distorsione dell’immagine del padrone della parabola è costruita in modo tale che venga un po’ deformata anche la realtà. Infatti continua il testo:
“Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”. (Mt 25,25)
Il servo distorce l’immagine del padrone. Che la parabola usi il rapporto Signore-servo, a noi può scandalizzare, ma nell’antichità, in cui i servi e gli schiavi erano presenti nella società in una percentuale pari a circa il 70%, l’utilizzo di questa immagine può essere comprensibile. In ogni caso il racconto fa esplodere dal di dentro questa cornice, perché dinanzi al servo che rinfaccia al padrone la sua durezza, questi sembra confermare la sua immagine deformata.
“Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro…” (Mt 25,26-27)
Ora è noto che l’immagine di un Dio che retribuisce ciò che noi facciamo (il Dio della retribuzione) sembra presente nell’Antico Testamento. Talvolta ci impressiona leggere alcuni passi in cui Dio premia e castiga in base alle nostre azioni. Non è un’immagine subito sbagliata dire, anche per noi italiani che siamo facili all’idea del condono, che le opere degli uomini e delle donne debbano in qualche modo essere retribuite in base al bene che fanno o al male che compiono. Tutto ciò esprime un’idea elementare di giustizia. Tale idea di giustizia però può essere maggiorata o meglio peggiorata, quando entra nel gioco del do ut des. E dal momento che la parabola si riferisce a Dio, è probabile che il motivo per cui Gesù racconta la parabola consista nell’intento di rovesciare questa immagine di Dio!
Gesù intende affermare che Dio non è così, non è solo uno che retribuisce secondo le tue azioni – naturalmente se uno agisce male, Dio non può non affermarlo! – ma come abbiamo già spiegato tante altre volte, Dio con la sua misericordia ci dice che l’uomo è più delle sue azioni. Questo è il rapporto tra giustizia e misericordia: la prima rivela il peso e le conseguenze delle azioni umane, la seconda dischiude all’uomo un oltre delle sue azioni, aprendo una finestra di speranza anche per le più negative. Noi talvolta abbiamo l’idea che la misericordia salti la giustizia, quasi che sia una misericordia che non rispetti la legge, che non segue la logica delle cose del mondo e la giustizia della vita, che insomma trascuri un elementare concetto di giustizia. Il padrone della parabola si rivolge al servo infingardo dicendo: “io ti giudico e ti tratto secondo la tua idea distorta, però il mio essere non è questo”. Ciò si vede dal seguito della parabola.
Allora possiamo affermare che il primo passo in avanti che Gesù ci fa compiere, forse il più bello che Gesù ci rende possibile è passare dal Dio della retribuzione al Dio della donazione. Dio è uno che dona! Ciò che noi possiamo fare, ciò abbiamo compiuto nella settimana attuale o in quella passata, lo facciamo perché abbiamo la salute, il lavoro, la serenità in famiglia, che sono i nostri talenti. È sufficiente pensare alla salute: se essa ci manca o è parziale, ci si rende subito conto che tutta la nostra supponenza o la pretesa di essere gente che cambia il mondo si scontra con un probabile fallimento. La parabola ci chiede di passare dal Dio della retribuzione al Dio della donazione.
- La qualità del tempo
Il secondo passo sta sullo sfondo della parabola e si può ricavare dalla prima riga del racconto. La parabola trova collocazione nel capitolo 25 del vangelo di Matteo: è preceduta dalla parabola delle dieci vergini (Mt 25, 1-13) che ha un forte impatto escatologico, perché richiama le realtà ultime, e dopo la nostra parabola segue una terza detta del “Giudizio universale” (Mt 25,31-46). Il capitolo 25 è così ordinatissimo ed è intessuto con tre parabole “colorate” da questo tema: cosa accade quando il Signore se ne va? Com’è il tempo che si apre in assenza del padrone, del Signore della vita? Il testo, infatti, racconta:
“Avverrà infatti come a un uomo che, partendo per un viaggio…” (Mt 25, 14a)
La parabola si apre con un riferimento che richiama una situazione vissuta con angoscia dai cristiani del primo secolo: Gesù se ne era andato e il suo ritorno sembrava tardare. San Luca nella parabola parallela del suo vangelo parla di mine (tr. attuale “monete d’oro”) che valgono un sessantesimo di talento. Anche nel suo vangelo la parabola prende avvio così:
“Un uomo di nobile famiglia partì per un paese lontano, per ricevere il titolo di re e poi ritornare…” (Lc 19,12)
Luca parla prevalentemente ai pagani e non ai giudei e il suo modo di esprimersi narra di questo nobile personaggio, che si mette in viaggio per diventare re e poi tornare. Tale stilema è ripreso anche nell’episodio dei discepoli di Emmaus (Lc 24, 13-35), nel quale il forestiero è Gesù che si accosta ai due discepoli che abbandonano Gerusalemme, li accompagna e li istruisce fintanto che sono in cammino. Una volta arrivati a Emmaus, i discepoli lo riconoscono nel gesto dello spezzare il pane. Tuttavia prima di entrare nella casa, il racconto sembra presentare una deviazione:
“Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano”. (Lc 24,28)
Gesù è invitato a rimanere «perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto» (Lc 24,29). L’immagine del “tramonto del giorno” rimanda al capitolo 7 della prima Lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi, nel quale in modo chiaro è detto:
“Questo vi dico, fratelli: il tempo si è fatto breve; passa infatti la figura di questo mondo!”. (1Cor 7, 29.31)
Troviamo qui accennato il tema della qualità del tempo, quello che intercorre tra la prima venuta di Gesù nella storia e il suo ritorno. Non è un tempo vuoto, ma un tempo da colmare, da riempire, anzi è la “pienezza del tempo” che riceviamo in dono. Non è un tempo per rilassarsi, o da vivere passivamente, con le mani in mano. È il motivo per il quale ancora san Paolo nella seconda Lettera ai Tessalonicesi afferma:
“Chi non vuole lavorare, neppure mangi”. (2Ts 3,10b)
Anche san Benedetto, il grande fondatore del monachesimo occidentale, scrive la sua regola fondata sul principio dell’“ora et labora”. Egli concepisce la vita monastica come forma radicale della vita cristiana, che non deve vivere alle spalle degli altri, ma intima ai monaci che preghino e lavorino! Se pensiamo all’arrivo delle monache qui all’isola, ormai cinquant’anni fa, sarà stato per loro un cruccio, una concreta preoccupazione, il fatto che per essere un’autentica comunità benedettina dovevano trovare il giusto spazio, sì per pregare, ma anche per il lavoro. Per questo la villa del vescovo è stata trasformata nel laboratorio del restauro. Sarebbe bello poter una volta visitare i laboratori delle monache, per avere l’idea concreta che la loro vita è fatta realmente di preghiera e di lavoro, ora et labora! Poi ci voleva la foresteria per l’ospite e lo straniero (cfr. RB 48 e 53). Queste sono le caratteristiche necessarie della vita monastica cenobitica. E così avvenne.
Pertanto, il tempo tra la prima venuta di Cristo, a Betlemme e Nazareth, e il tempo del suo ritorno non è un intervallo di tempo “da ammazzare”, non è un tempo morto, ma un tempo da riempire. Si potrebbe anche dire che Gesù si fa da parte e cambia di posto – è il mistero dell’Ascensione – perché ciascuno di noi trovi la sua parte da fare e il suo posto dove abitare. È un elemento fondamentale pure nella trasmissione della vita. Anche i genitori debbono sapersi fare da parte, perché il figlio trovi la sua parte da fare, devono stare in un altro posto perché il figlio scopra il suo. È uno schema che nella vita ritorna continuamente. Trovare, individuare il nostro posto significa trovare il nostro spazio di responsabilità, la capacità di rispondere alla richiesta del padrone che ci affida i talenti. Persino i primi due che erano stati capaci di raddoppiare i loro talenti non avevano capito che quel risultato era semplicemente la risposta a un dono che li precedeva, se consideriamo anche l’entità del dono e il suo risultato. È la qualità del tempo cristiano: è un tempo che ha cambiato l’Occidente. Prima il lavoro e il tempo del lavoro erano “prerogativa degli schiavi”; nel corso dei secoli successivi è diventata la modalità di tutti, ma è occorso certamente molto tempo e non è ancora superata del tutto la concezione che il lavoro, che accompagna la storia dell’umanità, attraverso i vari passaggi storici, dal Medioevo fino ad oggi, sia solo per alcune categorie umane (servi della gleba, persone di servizio, ecc.), oppure sia da considerarsi un’occupazione meno nobile del lavoro intellettuale e creativo.
Mi piace allora riassumere dicendo che Gesù è partito per un paese lontano, non per lasciarci soli, ma per farci trovare il nostro tempo, la nostra parte, il nostro posto. È il tempo della responsabilità, della capacità di rispondere, e di risponderne, vale a dire di coinvolgere noi stessi in questa risposta. È il tempo della testimonianza! In tutti gli ambienti di lavoro, così come in tutti gli altri luoghi che concorrono alla vita sociale, non abbiamo bisogno solo di gente che risponde, ma di gente che ne risponda! È la piccola particella – ne – che fa la differenza, e che dice la passione con cui l’uomo o la donna vive la sua realtà, non semplicemente “funzionando”, ma “mettendo in gioco” un po’ di sé, perché quello è il proprio posto, è lo spazio della propria responsabilità.
- L’opera dell’uomo
Il terzo e ultimo aspetto ci presenta la sottolineatura morale, parenetica, esortativa della parabola, che risulta la più immediata e di facile interpretazione, anche da parte nostra quando predichiamo con tono grave. Possiamo intitolarla: l’opera dell’uomo. Nel racconto, tutti e tre i servi danno la stessa risposta, anche se l’ultimo lo fa in modo capovolto:
“Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. (Mt 25, 20b)
“Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due”. (Mt 25, 22b)
Le prime due risposte sono uguali e ciò serve al racconto per creare “suspence”, e attirare l’attenzione sul terzo. Intanto per i due primi casi, l’operosità viene descritta come un talento. La parola talento che indica una moneta, un’unità di misura, è diventata per noi occidentali, a partire forse da questo testo, l’indicazione di un’inclinazione personale, come si dice di un tale quando “ha talento” per una particolare attività o arte. Un tempo, sia in latino che in greco, il termine non aveva questo significato, ma dalla moneta gradualmente è andato poi ad indicare l’inclinazione (per la musica, per ogni arte fino ad avere il talento per fare l’influencer!).
L’opera dell’uomo diventa un talento che fa fruttare i doni. Nella parabola la parola talento ricorre quattordici volte (7×2): esso va inteso sia come inclinazione che come realizzazione. Nella valutazione di Gesù: “Servo buono…” si indica la bontà dell’opera, “…e fedele” s’intende la bontà che dura. Al contrario “Servo malvagio e pigro (infingardo)…” indica la falsità e la pigrizia dell’ultimo servo.
Nel concilio di Trento è presente una bellissima espressione che pochi rammentano. Il capitolo XVI del decreto sulla Giustificazione (Sessione VI del 13 gennaio 1547) riguarda proprio i meriti. Tale tematica e l’interpretazione del merito ha creato la spaccatura tra cattolici e i protestanti contrapponendo la grazia di Dio e il merito dell’uomo. Il documento conciliare cita una frase che è ripresa da un’opera di sant’Agostino[3], e si trova nell’Indiculus de gratia Dei (DH 248), estremamente semplice ma di una forza dirompente: Dio ha voluto che fossero nostri meriti quelli che sono suoi doni[4]. Si potrebbe meglio dire che Dio ha “reso possibile” che suoi doni diventassero i nostri meriti. Non l’ha soltanto voluto, quasi che in un modo “ragionieristico” computasse i suoi doni come i nostri meriti, ma Dio effettivamente rende possibile che i suoi doni diventino nostri meriti, per cui non possiamo vantarli difronte a Lui, né possiamo gloriarci davanti agli altri, evocando magari il nostro impegno e la nostra bravura. Il merito che noi guadagniamo è radicato nel dono. Nello stesso capitolo vi è un’altra bella espressione che cita l’allegoria dei tralci e della vite. Solo se si è innestati in Cristo, in Lui daremo il buon frutto[5]. È il tralcio che fa l’uva, ma se non è innestato nella vite, non produce nulla. L’operosità dell’uomo è radicata nel dono di Dio. È la stessa cosa che accade nella vita in monastero: il “labora” trova radicamento nell’“ora”. Il lavoro che si radica nella preghiera diventa appassionante e bello, perché costruisce la comunione e fa crescere le relazioni. Questa intuizione si trova alla fine anche nel testo della parabola:
“… prendi parte alla gioia del tuo padrone”. (Mt 25, 21b)
Ecco la conclusione che scioglie il senso del racconto! Al termine della parabola il Signore non è più padrone, perché lo schema Signore-servo viene fatto saltare. E se noi siamo qui oggi e ci sentiamo un po’ come dei signori lo dobbiamo anche a questo testo. Ancora Hegel nella sua opera ha una trattazione sul rapporto Signore-servo. La parabola ci dice che, partecipando alla gioia del Signore, usciamo da una situazione di ricompensa ed entriamo in una dimensione di relazione. Noi uomini di chiesa, così come le monache, usiamo peraltro una definizione più corretta dicendo che “entriamo nella dimensione della reciprocità e della comunione”.
Così formulo il mio augurio per la festa di san Giulio di questo anno 2023!
+Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara
[1] Mt 25,14-15: “Sicut enim homo peregre proficiscens vocavit servos suos et tradidit illis bona sua.
Et uni dedit quinque talenta, alii autem duo, alii vero unum, unicuique secundum propriam virtutem, et profectus est”.
[2] Palmatòria [dallo spagn. palmatoria, der. di palma «palma»]. – Nell’antica liturgia cristiana, corto candeliere (detto anche bugia) tenuto nella palma della mano, o piattellino di metallo o di altra materia con un bocciolo al centro per infilarvi la candela e fornito di manico, in uso nelle funzioni pontificali; era solitamente portata da un accolito (cfr. Treccani).
[3] Sant’Agostino Lettera 148 al presbitero Sisto, c. 5, n. 19, CSEL 57,190s; PL 33,880.
[4] « …Cujus tanta est erga omnes homines bonitas, ut eorum velit esse merita, quæ sunt ipsius dona», Sessio VI, Caput 16, DH 1548.
[5] « Cum enim ille ipse Christus Jesus tamquam caput in membra et tamquam vitis in palmites», DH 1546.