Pubblichiamo di seguito il testo integrale dell’omelia che il vescovo Franco Giulio ha pronunciato lo scorso sabato 15 ottobre alle ordinazioni diaconali di don Lorenzo Armano, don Samuele Bracca e don Luigi Donati [Qui la fotogallery e il racconto della celebrazione].
I tre volti della vocazione
Omelia per le ordinazioni diaconali 2022
Prologo
Carissimi Lorenzo, Samuele e Luigi,
carissimi genitori e parenti,
care comunità di Alagna Valsesia, di Casalvolone e di Calice in Domodossola
rivolgo a tutti voi un saluto particolare.
Celebriamo quest’oggi il rito di ordinazione diaconale di questi tre giovani che si sono a lungo preparati e che compiono questo primo passaggio, entrando nel ministero ordinato. Le tre letture che essi hanno scelto per la Liturgia della Parola, prese rispettivamente dal profeta Geremia (Ger 1,1.4-10), dagli Atti degli Apostoli (At 6,1-7) e dal Vangelo di Luca (Lc 1,26-38), esprimono tre volti della vocazione: il primo aspetto è la vocazione profetica, come la illustra il profeta Geremia; il secondo aspetto, tratto dal vangelo, è appunto la vocazione evangelica; il terzo aspetto come emerge dal libro degli Atti degli Apostoli, è la vocazione ecclesiale. I primi due aspetti si riferiscono a tutti noi qui radunati, compreso il bel gruppo di giovani che sono presenti e che ho potuto salutare, mentre il terzo aspetto si riferisce a ciascuno pro parte sua, secondo la chiamata che ha ricevuto e che sta vivendo.
- La vocazione profetica
Il primo volto della vocazione è quello profetico. Abbiamo ascoltato il bel testo dell’inizio del libro di Geremia, un profeta giovane, recalcitrante, che non risponde volentieri alla sua chiamata. E, tuttavia, proprio in questa risposta contrastata, drammatica, sono contenuti alcuni elementi molto significativi e che raccolgo brevemente.
“Mi fu rivolta questa parola del Signore:
«Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto,
prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato;
ti ho stabilito profeta delle nazioni»”. (Ger 1, 4-5)
L’esperienza di essere chiamati parte dal seno materno: considerando la propria origine, ciascuno di noi deve poter dire ciò che esprime il salmo: “Sei tu che hai formato i miei reni e mi hai tessuto del grembo di mia madre” (Sal 139/138,13). È interessante rilevare come tutti ricordino piuttosto il testo negativo, che però rappresenta l’altra faccia della medaglia: “Ecco, nella colpa io sono nato, nel peccato mi ha concepito mia madre” (Sal 51/50,7). Il testo che oggi è stato proclamato mette in evidenza l’aspetto positivo. L’esperienza profetica ci dice che la chiamata alla vita e della vita ci precede. E precede non solo la nostra coscienza, ma addirittura il nostro venire alla luce, il nostro venire nel mondo. Noi veniamo alla vita, perché siamo chiamati. Certamente ci chiamano alla vita i genitori, ma i genitori non sono chiamati creatori della vita, sono piuttosto coloro che generano o che pro-creano, vale a dire che creano in nome di un altro e per un altro.
Questo aspetto ci viene ricordato dai figli adolescenti, quando rivendicano la loro autonomia. E a volte diviene quasi un alibi per formatori, genitori ed insegnanti, nel decidere di lasciarli andare, perché trovino la propria strada. Eppure spesso si tratta solo di non rimandare le scelte importanti per il futuro. Se ad esempio uno, perché tutti fanno così, va in discoteca e rientra a casa tutte le domeniche alle cinque del mattino, cosa costruirà per il suo futuro negli anni a venire? Non c’è niente di male in sé ad andare in discoteca – perché la domanda insidiosa è sempre: “cosa c’è di male?” -, ma ti chiedo: “Cosa stai costruendo di bene, per la tua storia, per la tua famiglia, per il tuo cuore, per i tuoi sentimenti, per la tua esistenza?”
Il profeta, invece, si sente chiamato fin dal grembo materno. È una vocazione radicale che va fino nel profondo e che chiede di interpretare sotto questa luce tutta la vita. La vita vale in quanto è risposta ad una chiamata, è risposta ad una vocazione. Ciò accade se uno non tira a campare giorno per giorno, ma sente dentro di sé la forza e la potenza di qualcuno che chiama e di una mèta a cui si è chiamati. Anzi, rispondendo a questa chiamata, non si è “uno, nessuno, centomila” secondo l’espressione del grande drammaturgo siciliano di inizio ’900, Luigi Pirandello, ma ognuno diventa se stesso con il proprio nome singolare. Ci sono, infatti, due cose che noi non ci siamo dati: il volto e il nome; essi sono il sigillo della nostra chiamata e della nostra identità.
“Risposi: «Ahimè, Signore Dio!
Ecco, io non so parlare, perché sono giovane»” (Ger 1,6).
La nostra risposta, come per Geremia, corre il rischio di tirarsi indietro, di rimandare, di non fare oggi ciò che si può fare domani o dopodomani, ma in questo modo oggi siamo al punto che uno a trenta/trentacinque anni sta ancora cercando cosa deve fare nella vita! È persino antieconomico, perché gran parte della durata di un’esistenza viene impiegata, se non sciupata, a chiedersi cosa si deve fare per diventar grandi! Pensiamo che san Carlo Borromeo moriva a quarantasei anni, e ancor prima san Tommaso d’Aquino a quarantotto anni: a dodici anni erano già adulti! Qualcuno dei presenti, un po’ avanti negli anni, a tredici anni era già grande, avendo cominciato a lavorare prestissimo. Era già grande, e non si giustificava perché era giovane, ma si dava da fare!
“Ma il Signore mi disse: «Non dire: «Sono giovane»” (Ger 1,7a).
Ogni giorno è buono per rispondere alla chiamata della vita e alla vita come una chiamata.
“«Tu andrai da tutti coloro a cui ti manderò
e dirai tutto quello che io ti ordinerò»” (Ger 1,7b).
Se voi diaconi oggi siete qui, è perché ad un certo punto della vostra vita avete risposto a questa voce. Si dice che è una voce, perché appunto chiama. Capita che quando vi chiamano a dare una testimonianza sulla vocazione, la prima cosa che viene chiesta, soprattutto da parte dei bambini a catechismo, è in qual modo si è sentita la chiamata di quella voce. Ma quella voce si ascolta ogni giorno, perché poi in un giorno particolare si sente come un appello impellente. Ed è solo rispondendo alle molte chiamate di ogni giorno che tu ascolti “la” chiamata!
“Il Signore stese la mano
e mi toccò la bocca,
e il Signore mi disse:
«Ecco, io metto le mie parole sulla tua bocca»” (Ger 1,9).
Noi non sapremmo cosa dire, anzi siamo spesso balbettanti, non sappiamo come leggere il nostro tempo… Il profeta nella sua essenza non è un “indovino”, che prevede il futuro, ma è invece colui sa leggere il presente, richiama anzi al passato, alla fedeltà all’alleanza, alla fedeltà alla fede antica dei padri. Ed è proprio per questo che sa prevedere il futuro. Ecco: questa è la vocazione profetica! Tutti voi qui presenti siete dei chiamati ad essere profeti. Per ognuno di noi si potrebbero fare esempi concreti per comprendere bene questo.
- La vocazione evangelica
Il secondo aspetto della vocazione è richiamato dal brano di vangelo e anche questo riguarda tutti. È l’aspetto evangelico della vocazione: si riferisce al vangelo dell’Annunciazione che abbiamo letto e ascoltato tante volte. Sottolineo solo due espressioni per dire l’aspetto evangelico della vocazione.
“Entrando da lei, disse: «Rallégrati, piena di grazia: il Signore è con te»”. (Lc 1,28)
Riguardo alla prima espressione dobbiamo ammettere di aver smarrito il senso della Sua presenza in mezzo a noi. Spesso secondo il nostro modo di sentire, la vita, la vocazione, l’impegno, il lavoro, le cose rappresentano solo quello che dobbiamo fare noi con le nostre energie. Tuttavia, la prima disposizione che ci chiede la nostra vocazione è il chiaro riferimento a Dio. A Lui presente in mezzo a noi! Se non si ha questa certezza, non si va da nessuna parte.
La Sua presenza, il Suo accompagnamento, la Sua vigilanza, la Sua prossimità sono il roveto ardente, il motore della nostra vocazione! Se noi che abbiamo qualche anno in più perdessimo questo centro, tutto ci verrebbe a noia. Il nostro sguardo si riempirebbe di accidia, il nostro gesto diventerebbe insignificante. Temo che questo sia il punto più fragile per tutti noi. Lo è per chi sta ancora cercando la sua strada, per chi è sposato, per chi è anziano, perché se noi diamo per presupposta la Sua presenza, essa scompare, dal momento che non si ha più la consapevolezza della certezza della presenza del Signore nella nostra vita. Egli sta al centro: il Signore centra nel senso che sta al centro, o meglio ci entra stando al centro, non alla periferia, non quando c’è bisogno di aiuto o quando il matrimonio o ogni altra vocazione non funziona… Sì, il Signore ci entra solo stando al centro! Tale è il cuore della vocazione evangelica! Ed è per questo che Maria alla fine si può esprimere dicendo:
«Ecco la serva del Signore: avvenga per me – accada – secondo la tua parola». (Lc 1,38)
Questa è la seconda espressione: noi possiamo essere solamente testimoni della sua presenza. Come Maria, ogni vocazione veramente evangelica, non può trasmettere se non quello che ha ricevuto. Ma se ciò che riceviamo è la presenza vitale del Signore al centro della nostra vita, allora la sua Parola trapela sempre dal nostro intimo, e noi siamo testimoni di un roveto ardente, che non cessa mai di bruciare, perché è un fuoco inestinguibile. La vocazione non è testimonianza di un evento del passato, ma sgorga continuamente come sorgente inesauribile.
- La vocazione ecclesiale
Il terzo e ultimo aspetto dalla vocazione è quello ecclesiale, e ci è suggerito dalla pagina degli Atti degli Apostoli. Qui dobbiamo diventare più concreti, perché l’episodio contenuto nel sesto capitolo degli Atti fa da cerniera – rappresenta un primo step! – e ci fa compiere un passo in avanti, presentandoci un bisogno della comunità delle origini, che ha creato un momento di grave crisi. Ascoltiamo:
“In quei giorni, aumentando il numero dei discepoli, quelli di lingua greca mormorarono contro quelli di lingua ebraica perché, nell’assistenza quotidiana, venivano trascurate le loro vedove”. (At 6,1)
La comunità primitiva non era composta solo da giudei, ma era una comunità mista, perché vi erano anche i greci, proseliti convertiti al giudaismo. Il testo mette in evidenza l’insorgere della crisi a causa dell’aumento degli appartenenti alla comunità e del trattamento di favore di cui godevano le vedove di una parte più dell’altra (tutto il mondo è paese!).
“Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: «Non è giusto che noi lasciamo da parte la parola di Dio per servire alle mense. Dunque, fratelli, cercate fra voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di sapienza, ai quali affideremo questo incarico»”. (At 1,2-3)
Il terzo aspetto della vocazione è quello per cui la Chiesa dev’essere capace di leggere i passaggi, le crisi, i passi in avanti e le frenate, nella sua storia, cercando di porvi rimedio, facendo nascere dentro la comunità nuove figure, nuove presenze, nuovi ministeri. È ciò che accade alla nascita di un bambino: per quel nuovo nato, tutti devono fare un po’ di spazio, perché a sua volta egli possa trovare il suo spazio. È la stessa situazione nella quale ci troviamo: i presbiteri stanno diminuendo, ma è difficile creare nuovi spazi ai nuovi che dovrebbero venire.
Tutto ciò mi fa sorgere però un’obiezione: noi guardiamo realmente in faccia alla realtà?! Saremmo disposti a dare e fare nelle nostra comunità lo spazio per una presenza più variegata?! Se c’è bisogno di una nuova presenza, ci sarà da offrire uno spazio in più a chi viene comunque per servire. Uno solo – anche il parroco più carismatico – non può fare tutto da solo! Oggi siamo in questa condizione. La realtà è la seguente: dal mio arrivo a Novara, dieci anni or sono, ho celebrato 108 funerali di presbiteri contro trenta nuove ordinazioni. Il saldo è fortemente negativo. Abbiamo bisogno quindi, di nuove figure: di catechisti, di lettori, di operatori della carità, di gente che porti l’Eucarestia in casa, poi di gente che vada in missione. Il terzo aspetto della vocazione insomma riguarda le singole vocazioni: chi è giovane, chi è sposato, chi è rimasto solo, chi è anziano…
Il tema del volontariato sta diventando sempre più palpabile, ma anche più problematico. Purtroppo la legge del cosiddetto Terzo Settore intende mettere tutto in ordine, anche se alla fine si perderà la gratuità! Sarà tutto così prevedibile e ordinato, per cui, anche se è certamente necessaria la chiarezza, se non riusciremo a mantenere un po’ di spirito di gratuità – diceva già a suo tempo il Cardinale Martini – è difficile che chi fa le cose, pure giustamente stipendiato, lo faccia con un cuore libero, gratuito e appassionato.
Epilogo
Sono dunque questi tre gli aspetti della vocazione: come ho precisato nella presentazione, due riguardano tutti e il terzo riguarda ancora tutti, ma ciascuno pro parte sua. Auguro a voi tre che accedete al diaconato (dal greco diakonia/διακονίᾳ e dal verbo διακονέιν/servire), il primo grado del sacramento dell’ordine, di comprendere, come ho già detto in tante altre ordinazioni diaconali che diventare diaconi e presbiteri ed eventualmente vescovi, non significa che, da preti e da vescovi, si smette di essere diaconi, cioè servitori. Anzi uno è prete, uno è vescovo, se continua ad essere diacono e a sua volta diventa vescovo se continua ad essere presbitero. Vi auguro di cuore tutto quanto abbiamo meditato!
+Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara