Il convito frainteso e il sacrificio tradito. Omelia nella Messa Crismale

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Pubblichiamo di seguito l’omelia del vescovo Franco Giulio alla messa crismale celebrata questa mattina, giovedì 14 aprile, in cattedrale.

Il convito frainteso e il sacrificio tradito

Omelia nella Messa crismale 2022

Nel corso di quest’anno mi è capitato di imbattermi, leggendo la tesi di dottorato di don Marco Barontini, nel Prefazio della Missa in Coena Domini del Missale Vetus dell’XI secolo, che si trova presso la Biblioteca Capitolare di S. Maria in Novara. È un testimone prezioso che ci illustra come la tradizione sia molto varia e multiforme, con eucologie di sorprendente bellezza. Ho tenuto in disparte il testo, che avete tra le mani, proprio per questa occasione speciale.


Il convito frainteso e il sacrificio tradito
Omelia nella Messa crismale 2022
14-04-2022
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Il testo poetico, veramente musicale e bello, è intessuto su un movimento giocato tra due coppie di termini: la prima riguarda il contrasto tra Gesù e Giuda e la seconda illustra la circolarità tra convito e sacrificio. Fra queste due coppie di dramatis personae e di dramatis actiones, si colloca la nostra (dei discepoli) partecipazione al Mysterium Paschae: dove ci mettiamo col nostro cuore tra Gesù e Giuda e come viviamo il santo mistero celebrando un convito che è sacrificio e un’offerta sacra che ha la forma del convito?

1. Tra Gesù e Giuda: il Salvatore e il traditore

Perché bisogna scegliere tra Gesù e Giuda? Perché questa contrapposizione tipologica tra il Salvatore e il traditore? Non siamo noi meno tragici di Giuda che tradisce, non assomigliamo piuttosto ai discepoli addormentati che si sono lasciati andare lungo la cena, mangiando e bevendo un po’ troppo, e che hanno abbandonato il maestro dandosela a gambe? Non siamo noi come Pietro, Giacomo e Giovanni, presenti alla guarigione di un paralitico, alla trasfigurazione, e che – almeno due di loro – volevano sedere alla destra e alla sinistra, e il terzo che non ha voluto lasciarsi lavare i piedi, a cui è bastata una servetta per defilarsi nel cortile del Sommo Sacerdote? Non siamo noi come il giovane nudo, che segue da lontano, mosso da curiosità, ma, quando identificato tra i suoi, se ne fugge lasciando tra le mani degli sgherri il lenzuolo e scappando come mamma l’ha fatto? O non siamo noi come le donne che piangono sulla via della croce, prezzolate a commiserare la sorte dei condannati a morte, e che restano sino alla fine a guardare lo “spettacolo della croce” (Lc 23,48)? Perché la liturgia ama inscenare un contrasto così marcato tra Gesù e Giuda?

Il testo si apre con quel bellissimo accusativo Quem… increpantem (che apre e chiude il primo verso), coordinato con il Christum Dominum Nostrum dell’usuale incipit del Prefazio, che racchiude la composizione di luogo e di tempo (in hac nocte inter sacras epulas). Gesù sta al centro della Santa Cena col suo rimprovero che smaschera il cuore dell’uomo, di quel tenebroso Giuda che può annidarsi dentro ciascuno di noi. Anche se noi oggi forse siamo più minacciati dall’ottundimento che dal tradimento, dal compromesso che dal rifiuto, e da tutte le forme tentacolari con cui il compromesso si rappresenta: la reticenza, la maldicenza, la noia, il tirare a campare, lo stare nella zona d’ombra che ci consente di non decidere. Oggi noi siamo più il giovane nudo che il traditore Giuda, siamo più Giovanni che ne approfitta della conoscenza del Sommo Sacerdote che Pietro che rinnega, siamo più i discepoli addormentati che le “Marie” sotto la croce, siamo più le donne che si lacerano i vestiti che la Vergine Madre che sta impietrita davanti al Figlio crocifisso, straziata nel suo dolore!

Eppure il testo liturgico scava nei meandri del tradimento di Giuda, disegnandone i sentimenti: egli non può sopportare lo sguardo e il rimprovero (ferre non potuit) che lo tocca nel profondo e lo rende consapevole del suo peccato. Il mistero di Giuda ha affascinato tanta letteratura del Novecento, perché supponeva che egli non avesse piena coscienza del suo gesto, ma dovesse giocare la parte del cattivo. La liturgia gli restituisce la piena consapevolezza (mens sibi conscia traditoris) forse con un intento antipredesti­nazionista. Anzi, ne spiega con tre tratti sorprendenti la ragione: ha abbandonato la compagnia degli apostoli (apostolorum relicto consortio), ha barattato il prezzo del sangue dell’innocente (sanguinis praetium a iudaeis accepit), ha preferito perdere la Vita in pienezza per il proprio piccolo tornaconto (vitam perderet quam distraxit). Un discepolo isolato che insegue la sua idea di “regno di Dio”, un apostolo opportunista per il proprio meschino interesse, un inviato che ha smarrito il senso del Vangelo che deve portare…

L’apparizione dello sguardo che rimprovera e smaschera è inscenata nelle strofe seguenti con le due bellissime metafore delle mani che donano contrapposte alle mani che tradiscono, e della commensalità con l’amico che è in procinto di consegnare Gesù. Il testo si apre con una frase fulminante: caenavit igitur hodie proditor mortem suam, il traditore ha mangiato la propria morte! Questo mangiare, che invece di scambiare vita trasmette morte, è orchestrato su due bellissimi registri: il gesto delle mani lorde di sangue mentre ricevono il pane della vita (cruentis manibus panem de manu salvatoris accepit); la comunione di mensa a cui Giuda partecipa con l’animo ostile mentre Gesù ne patisce la presenza (patitur… cum hoste novissimum participare convivium). Il tutto aggravato dall’accenno forse apologetico del cibo consacrato (sacrati cibi conlatio) che riversa sul capo del traditore la pena maggiore del sacrilegio.

E, tuttavia, questa prima parte del Prefazio, dove si gioca lo scontro delle dramatis personae, svetta sulla pienezza dell’amore universale, sul senso pasquale dell’ultima cena che anticipa il sacrificio della croce. Gesù lascia al mondo (mundo relinqueret) un esempio di perfetta innocenza (exemplum innocentiae), portando a compimento la redenzione dei tutti (passionem suam pro saeculi redemptione suppleret).

Sostiamo un momento a contemplare: siamo noi testimoni di questo? Le nostre mani donano questo esempio? I nostri gesti trasmettono tutto ciò? Le nostre scelte siedono alla mensa che fa partecipare? I nostri giorni sono pieni di questa parola, sono attraversati dalla stessa passione, oppure come Giuda abbiamo la nostra idea del Messia, vogliamo stare al centro della scena, siamo discepoli in carriera, abbiamo la sindrome del più bello del reame, non sopportiamo di condividere la commensalità del lavoro pastorale insieme. Quanta retorica abbiamo fatto sulla vita comune, sul mangiare e pregare insieme, ma quanto poco si vede prossimità, condivisione degli spazi, degli strumenti, delle fatiche, delle gioie, degli slanci, delle ferite, in una parola di quell’exemplum innocentiae che è il cuore del prete felice!

2. Tra convito e sacrificio: il mite e l’empio

Il secondo asse del Prefazio svolge le dramatis actiones e rappresenta al vivo la circolarità di convito e sacrificio, di comunione e offerta. Su questo sfondo continuano a passare in trasparenza le diverse azioni del dramma salvifico, spirituali prima di essere pastorali, di chi vive e celebra come pastore della comunità e di chi vive e celebra come mediatore del sacrificio. Sono due tipi di azioni spirituali e pastorali, sovente contrapposte nello stucchevole dibattito di questi ultimi anni, che contrappone prete assistente sociale e prete mediatore del sacro.

La “grande tradizione” della Chiesa non contrappone convito e sacrificio, anzi li mette in stupenda circolarità. Il Prefazio, che è dell’ultimo quarto dell’XI secolo, è una sintesi perfetta della teologia del primo millennio, perché il copista prende dai Gelasiani dell’VIII secolo, con alcune varianti già attestate anche in altri sacramentari. La tradizione testuale viene prima delle controverse eucaristiche altomedievali. Il testo rappresenta un testimone prezioso dell’in­treccio tra convito e sacrificio: mette a confronto il mite (Figlio di) Dio (mitis Deus) e l’empio Giuda (inmitem Iudam), anzi afferma che il clemente (pius) nutre il crudele commensale (crudelem convivam): egli è cibo che alimenta colui che trama contro il sangue del Maestro (quia de magistri sanguine cogita[ve]rat): l’alimento è il cibo della santa cena, il sacrificio è l’atto che sparge il sangue del Signore, ma che in realtà impiglia col suo laccio  il traditore (qui merito laqueo suo periturus erat).

Il convito è la comunione al sacrificio, l’offerta sacra è la riconciliazione della mensa fraintesa. Gesù offre il pane santo a chi lo riceve come prezzo del suo tradimento, perché, mentre fraintende il convito, tradisce il sacrificio. Ma il sacrificio di Gesù (non ogni sacrificio) non viene meno, perché risana e riconcilia dal di dentro anche il rifiuto di Gesù come pane di vita: O Dominum per omnia patientem; o magnum inter suas epulas mitem! Notate l’intreccio, che solo la più alta poesia riesce a dire, tra il Dominum patientem e il magnum mitem, nella sua santa cena (inter sua epulas).

Restano indimenticabili le mani di Gesù nell’Ultima cena di Leonardo: l’una che intinge il boccone per darlo a Giuda, l’altra che resta aperta ad attendere la risposta del traditore (e di tutti noi). Nel nostro testo tutto ciò è rappresentato dalla parte di Giuda: egli porta alla bocca il cibo di Cristo (cibum eius Iudas in ore ferebat), mentre la stessa bocca chiama a raccolta le schiere dei persecutori (quibus eum traderet persecutores advocabat). Dalle mani alla bocca: le mani del convito, la bocca del sacrificio. Dal cibo della comunione al sacrificio del traditore.

Solo perché ci si siede al convito, non ricevendo però il cibo della vita come alimento di morte, allora avviene che il sacrificio del mite agnello non è solo il sangue versato dal traditore in combutta coi persecutori, ma diventa la vita offerta per i molti, cioè per le moltitudini. Il convito diventa sacrificio e l’offerta sacra si dona nella commensalità dei credenti. Una volta per tutte senza poter essere più separati.

Anzi l’ultima strofa del nostro prefazio ne indica la ragione ultima: il Figlio di Dio (Filius tuus) e il Signore nostro (Dominus noster) si dona come dolce offerta (pia hostia), non agendo, ma offrendo (immolari) se stesso a te per noi (se tibi pro nobis). “A te per noi” – mirabile formula! – per sciogliere in Lui tutto il peccato del mondo, bruciando con l’amore il cuore del traditore, sanando con il cibo della vita il gusto mortifero del convito quando diventa la maschera di se stesso. Questo avviene nella croce di Gesù e accade nella Chiesa nella misura in cui essa lascia rendere presente l’unico sacrificio nei molti conviti e nelle assemblee eucaristiche.

Guai a quella Chiesa che divide convito e sacrificio, peggio ancora che contrappone commensalità orante e offerta della vittima sacra. Guai a quei preti (e quei laici) che contrappongono la propria identità di ministri della comunione e di mediatori del sacrificio: i primi senza gli altri si troveranno ad essere animatori sociali, gli altri senza i primi diventeranno funzionari del sacro. Il prete è riconosciuto quando è uomo di Dio. La formula può essere tanto virtuosa, quanto pericolosa: è di Dio, se resta un uomo aperto al mistero santo della Sua Pasqua; è uomo, scelto tra molti fratelli, se si brucia di fronte al roveto ardente del corpo dato e del sangue versato.

Lasciatemelo dire: ho l’età per non lasciarmi imbrogliare da chi mi dice che ha fatto tanto per i poveri, ma ha perso non solo la ragione per cui l’ha fatto, bensì anche la linfa vitale che gliel’ha fatto compiere senza ostentazione e non per sentirsi bravo; ho l’età per non lasciami incantare da chi mi parla di spiritualità e di sacro, ma fatica a stare vicino al proprio confratello, a camminare insieme con lui, a condividere gioie e dolori nel servizio al Vangelo. Non abbiate paura: per il tempo che mi rimane di stare qui tra voi, chiedo al Signore che mi mantenga sempre lo sguardo limpido e il cuore libero per non dividere carità e santità, per non contrapporre prossimità e preghiera, per non barattare il proprio bisogno di riconoscimento con il servizio agli altri, o il proprio desiderio di identità con la difesa di cose sacre spacciate per custodia della santità. Quaranta anni di meditazione e di insegnamento, di riflessione e conoscenza delle persone, mi hanno istillato il disincanto di fronte a molti saccenti dell’ultima ora (che talora diventano anche prepotenti). Ne sono grato al Signore!


PREFAZIO DELLA MISSA IN COENA DOMINI DEL MISSALE VETUS
DELLA BIBLIOTECA CAPITOLARE DI S. MARIA NOVARA

(Secolo XI – Cod. LIV)
I grassetti si riferiscono alla lettura teologica fatta nell’omelia

 

V[ere] D [ignum et …]. Per Christum Dominum nostrum. È veramente cosa buona e giusta […] per Cristo Signore nostro.

a. Gesù e Giuda: il Salvatore e il traditore

1. Quem in hac nocte inter sacras epulas increpantem,

2. mens sibi conscia traditoris ferre non potuit,

3. sed apostolorum relicto consortio,

4. sanguinis praetium a iudaeis accepit

5. ut vitam perderet quam distraxit.

Il [Suo] rimprovero in questa notte durante la santa cena,

il traditore, ben consapevole, non poté sopportare

ma, abbandonata la compagnia degli Apostoli,

ricevette dai Giudei il prezzo del sangue

per privarsi della vita che aveva venduto.

b. Mani che donano e mani che consegnano (il pane)

6. Caenavit igitur hodie proditor mortem suam,

7. et cruentis manibus panem de manu salvatoris exiturus accepit.

8. Ut saginatum cibo maior poena constringeret.

 

9. Quem nec sacrati cibi conlatio(a), ab scelere revocaret.

Oggi, dunque, il traditore ha mangiato la propria morte

e con mani lorde di sangue, in procinto d’andarsene, ricevette il pane dalla mano del Salvatore,

tanto che, sazio di quel cibo, una pena più grande si riversò su di lui,

e neppure l’offerta del pane consacrato poté distoglierlo dall’empietà.

c. A mensa con l’amico infingardo (la passione)

10. Patitur itaque dominus noster Iesus Christus Filius tuus,

11. cum hoste novissimum participare convivium,

a quo se noverat continuo esse tradendum,

12. ut exemplum innocentiae mundo relinqueret.

13. Et passionem suam pro saeculi redemptione suppleret.

E così, il Signore Nostro Gesù Cristo, Figlio tuo, sopporta

di condividere la sua ultima cena insieme al proprio nemico,

dal quale ben sapeva che di lì a poco doveva esser tradito

per lasciare al mondo un esempio di perfetta innocenza

e portare a compimento la propria passione per la redenzione del mondo.

d. Il mite e l’empio: un cibo che nutre e un destino che fa perire

14. Pascit igitur mitis Deus inmitem(b) Iudam

15. et sustinet pius crudelem convivam.

16. Qui merito laqueo suo periturus erat,

17. quia de magistri sanguine cogita[ve]rat.

Dunque, il mite [figlio di] Dio nutre l’empio Giuda

e il clemente dà sostentamento al crudele commensale.

Il quale giustamente era destinato a morire col suo laccio

poiché aveva tramato contro il sangue del proprio Maestro.

e. Dalle mani alla bocca: il cibo della comunione

18. O Dominum per omnia patientem,

19. o magnum(c) inter suas epulas mitem.

20. Cibum eius Iudas in ore ferebat,

21. et quibus eum traderet persecutores(d) advocabat.

O Signore che tutto sopporti,

O Signore indulgente durante il convito!

Giuda portava alla bocca il cibo di Cristo,

e convocava i persecutori ai quali lo stava consegnando.

f. Vittima e offerta: il sacrificio della redenzione

22. Sed Filius tuus Dominus noster tamquam pia hostia

23. et immolari se tibi pro nobis patienter permisit,

24. et peccatum quod mundus commiserat relaxavit.

Ma, il Figlio tuo e Signore Nostro, come dolce vittima,

con pazienza acconsentì d’essere offerto a te per noi

e ha sciolto il peccato che il mondo aveva commesso.

Le principali varianti presenti nella tradizione testuale, escluse piccole varianti di forma latina, sono: (a) sacrati cibi conlatio ha come variante diversa sub praemia pietas oppure suprema (superna) pietas: la versione del nostro Missale Vetus (MV) allude al tema più recente del sacrilegio, che forse non era presente nella versione più antica; (b) il gioco di parole mitis Deus inmitem Iudam è lectio difficilior rispetto a barbarum che sembra lectio facilior, preferibile dunque la versione del MV; (c) rispetto a magnum riferito a mitem è certo da preferire agnum mitem: il probabile errore ha però generato una famiglia testuale da cui dipende il nostro MV,  che perciò va tenuto;  (d) la versione testuale ad lanianda membra eius carnifices sembra più arcaica, ma è corretta nella tradizione testuale quibus eum traderet persecutores, più biblica, attestata nel MV.

Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara