Il Decalogo della casa (del prete). Omelia nella Messa Crismale

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Di seguito pubblichiamo il testo integrale dell’omelia che il vescovo Franco Giulio ha tenuto questa mattina, durante la Messa Crismale che vede riunirsi in cattedrale tutto il presbiterio per la consacrazione degli oli santi e il rinnovo delle promesse sacerdotali. Nella celebrazione sono stati ricordati i sacerdoti scomparsi nell’ultimo anno e sono stati anche presentati i seminaristi ammessi agli ordini sacri: Gregorio Clementi, di 22 anni originario di Pettenasco e Lorenzo Godio, 21 anni, di Santa Cristina di Borgomanero.

 

Il Decalogo della casa (del prete)

Omelia nella Messa Crismale

 

Sono ormai giunto ai due terzi delle UPM con la “visita fraterna” nelle case dei sacerdoti. Qualcuno mi ha chiesto perché sto facendo ora questa visita: è stata un’intuizione che mi è venuta dal Signore. Riservandomi alla fine della visita qualche considerazione più argomentata, mi soffermo adesso solo su alcune impressioni ancora iniziali. Ho pensato di vestire queste impressioni con la forma di un “decalogo della casa” del prete. La casa del sacerdote è il momento domestico, è il sasso, di evangelica memoria, su cui posare il capo per riprendersi e ripartire per la missione. Le “dieci parole” che voglio suggerirvi sono pensieri di incoraggiamento: dette così sono imperativi, che però suppongono l’indicativo del dono di grazia. Non c’è decalogo senza promessa e alleanza.


Il Decalogo della casa (del prete)
Omelia nella Messa Crismale
06-04-2023
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1. Io sono il Signore tuo Dio, la casa come luogo di ristoro per la missione. Visitando le case ho avvertito in modo chiaro che la vostra accoglienza ospitale voleva mostrare il luogo in cui il lavoro pastorale viene sognato, amato, verificato. Sovente vicino alla vostra chiesa o all’oratorio, la casa è apparsa lo spazio dove guardare a giusta distanza, talvolta in modo preoccupato, talaltra in modo partecipe, il lavoro dell’annuncio del Vangelo oggi. Due questioni sono ritornate tra le pieghe delle parole dette e sussurrate: il difficile ritorno, dopo il Covid, alla vita cristiana nella comunità ecclesiale, la fatica della pastorale giovanile e vocazionale. Eppure sulle vostre scrivanie, sui vostri tavoli, ho visto l’impegno e la passione che non smette di dire il primato di Dio nella vita dell’uomo e di annunciare come Gesù l’ha vissuto e l’ha trasmesso. Le case erano accessibili e a soglia bassa, perché nessuno potesse pensare che il Vangelo richieda di più di quel che Gesù ha domandato a chi l’ha incontrato sulle vie della Galilea. Questa mi pare una cosa luminosa del prete diocesano: non annuncia il Vangelo per gli eletti, non seleziona i suoi ascoltatori, ma lo porge a chi è peccatore, bisognoso, malato, smarrito e disperso. Ho visto le porte delle vostre case sempre aperte. L’annuncio del primato di Dio deve essere disarmato e disarmante senza condizioni. Dobbiamo essere orgogliosi di essere preti diocesani, proprio nella fragilità di un ministero esposto sovente ad essere frainteso: se la parrocchia è la forma dell’annuncio cristiano rivolto a tutti, il suo pastore annuncia il Vangelo mirandolo su ciascuno, senza condizioni. È come il lievito che si perde nella pasta, è come il sale che si scioglie nel cibo, perché solo così fa crescere e dona sapore.

2. Non nominare il nome di Dio invano, la casa come stile di vita e di ministero. Visitando le case ho notato la differenza degli stili e degli ambienti, che erano lo specchio delle persone e il riflesso della loro immagine di prete. Nello stile dell’abitazione e dell’arredamento per così dire si trova impresso come ciascuno di noi agisce pastoralmente. O almeno così mi è parso di poter leggere passando tra i diversi locali della casa. Il ruolo del prete diocesano, quando è sentito ancora significativo, è sempre più sottoposto alla domanda sullo specifico del suo ministero: quello che faccio appartiene all’essere prete? Negli ultimi decenni si è manifestata la polarizzazione tra prete animatore sociale e prete mediatore del sacro. È una polarizzazione, in certa misura anche generazionale, che estremizza una dialettica, la quale invece dovrebbe mantenere la tensione virtuosa tra i due poli, perché appartiene alla missione del prete dire e donare la differenza cristiana (identità) dentro l’universale umano (rilevanza). Questa è la passione del prete, nel senso che è una cosa che “patisce”, cioè che lo “tocca” e talvolta lo “ferisce”, che lo “deprime” e spesso lo “delude”. Ci si sente prete nonostante quello che si fa nel quotidiano, perché si perde molto tempo non a “fare il prete”, ma a “rispondere al ruolo”. Alcuni corrono il rischio di soccombere a ciò che è richiesto, di cedere alle attese per cui ci si sente apprezzati (oggi spesso funzioni di “animatore sociale”), altri rifiutano sdegnosamente le richieste di essere il prete “crocerossa” dei mali sociali (“non faccio il babysitter”), per presentarsi, nei gesti e nell’abito, come mediatore del sacro, per marcare la propria identità, magari travestendola della purezza del Vangelo. Da un lato, il prete che enfatizza il legame di solidarietà “con i fratelli”, dall’altro il prete che si rappresenta come “uomo di Dio”. Quando vi sono le contrapposizioni bisogna stare attenti a “non nominare il nome di Dio invano”. Bisogna umilmente riconoscere che il nostro ideale di prete è sempre mescolato con le nostre inclinazioni personali, con le nostre paure e nostri gusti, talvolta persino con le nostre paturnie, ed è sempre pericoloso manipolare il nome di Dio per giustificare i nostri affetti e le nostre piccole manie.

3. Ricordati di santificare la festa (il sabato), la casa che conduce alla chiesa. Vistando le vostre case ho incontrato il “quotidiano” del prete che presenta una caratteristica singolare: non è strutturato, come per tutti i laici, da un lavoro in cui si organizza lo scorrere dei giorni feriali, ma ha il suo perno nella domenica, oggi allargata al sabato, in cui si concentra la settimana del prete e il ritmo del suo tempo interiore. Con un paradosso si potrebbe dire che il suo tempo feriale è impostato sulla centralità della festa. Tuttavia, questa concentrazione festiva del ministero del prete non può negare la relativa autonomia del suo tempo feriale. Allora, il quotidiano del prete può diventare la passione (attiva) del prete, cioè sprigionare la volontà di “appassionarsi” a una forma del ministero capace di dire e donare il Vangelo ad altri nella lingua degli altri. La figura pratica del prete deve liberare l’energia per una “passione” in cui il ministero assume l’umanità della gente (talvolta oggi fragile e indifferente) come il terreno (sempre disponibile, quand’anche dormiente) per seminarvi il Vangelo. Potremmo dire che l’umanità della gente è il tempo feriale, mentre il seme del Vangelo introduce nella festa del Signore. È forse per questo che i gesti prodigiosi di Gesù accadono per la maggior parte nel giorno di sabato: in essi la ferialità dell’umano viene trasfigurata nella festa del cristiano. In modo tale però che l’umano feriale sia fecondato dal seme evangelico e la festa cristiana non sia un orto sacro, ma lo splendore dell’umanità redenta nel tempo. Ho partecipato con gioia alla vostra premura di rendere presente l’Eucaristia domenicale in ogni luogo, anche se nei prossimi anni dovremo fare – come si dice da tempo – meno messe e più messa.

4.Onora il padre e la madre, la casa nell’intreccio dei legami familiari. Un tempo si diceva che il prete diocesano, per differenza a quello religioso, è un sacerdote “secolare”. Egli cioè abita nel sæculum, perché vive nel mondo, anche se non è del mondo. Il prete impara dalle vocazioni e dalle condizioni di vita mondane (ad es. la famiglia, la professione, il volontariato) che non c’è dedizione al Signore se non attraverso la cura della vita concreta delle persone (del coniuge, dei figli, del lavoro). Solo così può trasmettere agli altri che la forma di vita nel mondo è capace di aprirsi a una modalità evangelica, che non abbandoni la terra per guardare al cielo, ma viva le cose della terra con lo stile di vita di Gesù. Il prete diocesano dovrebbe essere l’icona viva di questo imparare dagli altri. La gente ci sente suoi fratelli se non ci mettiamo sopra di loro credendoci migliori, ma neppure se cerchiamo di mimetizzarci con loro, senza essere fratelli maggiori nella fede. Lo stile di vita del prete, il modo con cui arreda e vive nella casa, è il banco di prova della sua trasparenza cristiana, perché non sia uno che predica il Vangelo senza vivere del Vangelo. Per questo ho visto con piacere che molte case hanno un centro di gravità riservato senza perdere il carattere accogliente della casa. Bisogna evitare ogni forma di confusione tra casa e strada, ma anche ogni rigida separazione. Ora tale aspetto relazionale del prete può e deve essere vissuto nella “casa accogliente”, cioè in uno spazio dove crescono legami buoni, ma che non diventino relazioni chiuse (il “cerchio magico”). La casa accogliente deve essere transitabile dal ricco e dal povero, dall’amico e dallo sconosciuto, dal parente e dal lontano, senza che nessuno possa sentirsi estraneo. Ma il passaggio nella casa del prete non può dimenticare che è la casa del pastore, dove tutti debbono chiedere permesso, anche se entrano senza pagare pegno. La stessa presenza e la cura dei familiari del prete (genitori, fratelli, zii) nella sua casa non può diventare un inciampo, ma i parenti devono sapere che, se vi abitano più o meno stabilmente, non è la loro casa, ma una casa aperta, superiore ai legami di sangue, pur senza negarli. La casa del prete è accogliente quando è l’esperimento in piccolo della chiesa aperta sulla strada e di coloro che dalla strada cercano legami buoni. Casa accogliente perché è varco aperto verso la comunità credente; casa con un centro intimo in cui ci si rigenera per partire sulle strade del mondo.

5. Non ucciderai, la casa come spazio generativo. La casa del prete è il luogo di approdo di molte domande e richieste. Anche durante la mia visita spesso il parroco e il vicario parrocchiale sono stati raggiunti da persone che avanzavano un bisogno. Proprio il luogo dell’intimità della vita del sacerdote è sovente visitato e praticato come sorgente di vita. Nella casa parrocchiale o nella dimora del coadiutore si collocano molti dialoghi e percorsi delle persone in cerca di bisogno, senso, consiglio, domanda di aiuto educativo o di richiesta di lavoro. La casa del prete è stata tradizionalmente la grande fucina di storie di vita. Il comandamento di non uccidere è riletto da Gesù come un compito generatore di vita (Mt 5,21-26). Lo spazio per eccellenza in cui Gesù dona comunione e perdono è proprio la casa (cfr. lo splendido episodio di Lc 7,36-50, con tutti i riti di ingresso nella casa). Gesù non disprezza chi lo cerca per il proprio bisogno, ma entra nella sua richiesta per farlo passare dalla fede che tocca alla fede come sorgente di vita. La gente cerca Gesù perché ha fame, ha sete, vuole essere guarita come il cieco, lo storpio, il lebbroso, la donna che ha un flusso inarrestabile di sangue, chiede di essere perdonata come l’adultera, o rivuole la figlia morente come Giairo, o come la vedova rimasta senza il figlio, o come Marta e Maria che hanno perso l’amato fratello. E il Signore abita la loro sofferenza, assume il loro bisogno, guarisce le loro ferite, lenisce le loro infermità. È scioccante che non lo faccia con tutti. Egli però coinvolge fin dall’inizio (Mc 3,13-14) i suoi discepoli ad andare a predicare e a guarire per allargare la sua missione, non solo quando lui non ci sarà più. Non è forse un segno il fatto che le case di molti parroci e di tanti preti siano state luoghi generativi di progetti e di iniziative che hanno disegnato il volto luminoso del cristianesimo sociale (oratori, assicurazioni, banche rurali, confraternite, ospedali, ecc.)? Se non torniamo di nuovo a questo movimento che fa la spola, anzi che sta in croce, tra Vangelo e umanità, tra seme e terreno, tra uomo di Dio e fratello con i fratelli, tra identità e fecondità, tra lievito e pasta, tra sale e sapore, tra luce e tenebre, come si potrà vivere il quotidiano a partire dalla casa e la casa che diventa luogo generativo? Una casa fredda e desolata o troppo lussuosa e inospitale non può essere un terreno fecondo per trasmettere attorno a sé vita nuova.

6. Non commetterai adulterio, la casa luogo degli affetti. Naturalmente la visita che sto facendo alle case dei sacerdoti non li incontra nella loro pratica della casa come rete di relazioni e di affetti. Eppure molti segni sono rivelatori di tale clima. Tre ambienti in particolare sono decisivi: lo studio, la cucina e la camera. Oggi, infatti, la vita del prete è un’esistenza spesso soggetta alla fatica, alla dispersione, alla molteplicità di impegni, di incontri, di appuntamenti, di richieste, di servizi. Il sacerdote corre il grande rischio di diventare un “funzionario di Dio”. Credo che appartenga alla spiritualità del prete diocesano anche lo stile concreto di vita: la cura di sé, l’amicizia con i confratelli e con i laici, la formazione intellettuale, lo studio, il riposo fisico, la capacità di ascolto, la gioia di ricevere anche dagli altri (confratelli, laici, famiglie) il dono dell’amicizia, della prossimità, della fiducia, della valorizzazione, della gioia. Questo reticolo affettivo di esperienze ha bisogno di un luogo di sedi­mentazione, di uno spazio di interiorità, nel quale sentire l’eco del vissuto quotidiano, che si distende tra memoria e oblio. La casa ha da essere uno “spazio intimo”, in cui il flusso della vita di ogni giorno perde il suo carattere inarrestabile e si pacifica nell’interio­rità della coscienza, distendendosi in radure verdi e soleggiate. Lo studio, la cucina e la camera sono i tre luoghi della “casa intima”: lo studio per coltivare una conoscenza credente e orante; la cucina per nutrirsi con la compagnia di familiari e conoscenti; la camera per trovare un ristoro riposante e un riposo tonificante. V’è una circolarità armonica tra questi spazi umani, così che se uno di questi mancasse o si riducesse, è facile immaginare che anche gli altri due si scompenserebbero. La casa del prete può essere il punto di partenza di feconde relazioni e di un ministero persuasivo solo se ha un centro intimo che sta nel cuore del triangolo virtuoso di studio, cucina e camera. È facile la controprova: se la casa del prete è un deserto arido o una sorta di non-luogo, prima o poi presenterà il conto nella vita stessa del prete. Certe crisi affettive, alcuni legami malsani, persino gli abusi sessuali, non hanno la loro radice in una pratica della casa e della vita senza legami buoni e intensi? Qui vi faccio un invito pressante: andiamo anche noi a visitare le case dei nostri confratelli, prendiamo con noi un cesto per mangiare e presentiamoci con un amico per sedere alla mensa comune!

7. Non ruberai, la casa e la nostra relazione con i beni. A occhio nudo la visita alle case parrocchiali non può non osservare, anche se con uno sguardo benevolo, i segni vistosi del rapporto che il prete ha con i beni e con i soldi. In esso si proietta molto del suo sentire e del suo volere. Visitando i sacerdoti ho ascoltato il loro lamento circa l’amministrazione dei beni della parrocchia e la cura delle strutture della comunità che sta diventando un ingombro insopportabile nella vita del parroco e dei preti. La rappresentanza legale, il rapporto faticoso con i beni culturali, le nuove leggi amministrative, energetiche, ambientali e fiscali stanno portando via tempo prezioso all’esercizio del ministero. Molti mi hanno parlato di questo impaccio ed è giunto il tempo di proporre un rimedio radicale. Un tempo l’amministrazione dei beni della parrocchia era riconosciuta come un attributo della diligenza del parroco. Tant’è vero che costruire era diventata una vera tentazione per il parroco o il vicario parrocchiale impegnato in oratorio: l’effetto di compensazione delle opere parrocchiali, gratificava il prete per aver fatto almeno qualcosa, se non era riuscito troppo a salvare le anime. Si comprende però l’imbarazzo della situazione attuale: da un lato, l’attesa della gente è quella che il parroco mantenga con cura il patrimonio della parrocchia, un’aspettativa legata anche al fatto che il parroco è a tempo pieno; dall’altro lato, ciò che era stato il fiore all’occhiello dell’operosità del parroco o del prete, si sta rivelando oggi una trappola. Siamo nella penosa situazione di dover gestire un patrimonio sconsideratamente accresciuto con la logica del “tutti devono avere tutto”. Ora nell’ottica delle UPM, dobbiamo operare una dolorosa e doverosa scelta di dimagrimento. La gente non ci perdona il nostro rapporto malsano con i beni. La gestione solitaria dei beni è una forma di potere improprio, la capacità di coinvolgere nella loro amministrazione rivela un cuore libero e generoso. Il comandamento del Signore ci invita ad un rapporto trasparente con i beni, sia per le cose e i beni personali, sia per l’amministrazione ecclesiale. Sul primo tema, raccomando la rigorosa separazione di beni personali e beni della parrocchia, senza commistioni di denaro o di conti, da gestire con la massima trasparenza. A questa chiarezza appartiene la necessità di non doversi intestare eredità di alcun tipo (la gente non distingue tra il ruolo e la persona) e il dovere morale di fare testamento. Sul secondo tema, si può già cominciare dal basso, favorendo scelte comuni per le parrocchie piccole o i servizi alle comunità e alle persone. Ci si può mettere insieme tra parrocchie viciniori e pensare a una conduzione amministrativa comune, pur mantenendo distinti i conti delle comunità. Ne va della libertà e della gioia del nostro ministero: comportamenti meno che limpidi sono spesso oggetto di commenti malevoli dei fedeli e sono dirompenti nella fiducia dall’opinione pubblica.

8. Non dire falsa testimonianza, la casa e la sincerità della parola. La visita ai sacerdoti nelle proprie case ha visto un dialogo sincero e vero: ve ne sono veramente grato. È stato un bel momento di scambio con una parola senza ruoli e senza veli. Ho cercato in ogni modo di lasciarvi esprimere il più possibile. Ho ascoltato il racconto del vostro impegno e delle vostre preoccupazioni, dei vostri ideali e dei vostri successi e anche della vostra fatica nel ministero. Ho cercato di rincuorarvi e incoraggiarvi. Questa felice esperienza può diventare un forte stimolo a puntare su un linguaggio “edificante” per ciò che riguarda le nostre conversazioni a tavola e i nostri incontri pastorali. Se sui secondi sperimento sempre durante i nostri incontri una passione cordiale e uno scambio costruttivo, che sente con fastidio chi ha un approccio lamentoso e negativo che spegne l’entusiasmo; sulle nostre conversazioni a mensa o nei rapporti personali mi giunge talvolta l’eco di pettegolezzi inutili, di giudizi impietosi che possono anche ferire persone e inaridire le amicizie. È la Messa crismale del Giovedì santo: il nostro gesto supremo di comunione attorno all’Eucaristia di Gesù e agli oli santi dei sacramenti non può essere turbato e viziato dalla parola falsa, dalla comunicazione reticente e dalla lingua deprimente nei confronti dei confratelli e delle persone che ci sono affidate. Signore donaci di fare pasqua nel linguaggio, perché dalla sua corruzione nasce ogni distorsione o ferita della fraternità presbiterale!

9. Non desiderare la donna d’altri, la casa e il desiderio concupiscente. Colpisce molto il fatto che le ultime due proibizioni del decalogo non si riferiscano a un atto morale, ma a un atteggiamento umano, che riguarda il desiderio possessivo (non concupiscens) sia della donna d’altri, sia delle cose degli altri. Il duplice comandamento finale mette in guarda dal sottovalutare la figura possessiva del desiderio («Se uno guarda una donna col desiderio di possederla…», dice Gesù, Mt 5,28) sia riguardo all’ambito degli affetti, sia per quanto concerne la sfera delle cose. La storia degli affetti e la roba degli altri sono lo spazio sbarrato e inaccessibile, perché anche solo desiderandoli in modo concupiscente si invade la loro intimità. Stupisce la mancanza della citazione del potere, come invasione e possesso della libertà dell’altro. In realtà il Decalogo ha già parlato di questo quando nel primo comandamento, che pone al centro il primato di Dio, e quindi la fede in lui, si vieta di costruire gli idoli che sono la forma con cui si tenta di stravolgere il rapporto con Dio a nostro favore, di solito a danno degli altri. Il nono comandamento quindi ci sprona non tanto al controllo degli affetti, ma alla cura profonda del godimento vorace e possessivo come forma del desiderio. Visitando la vostra casa, talvolta il nostro dialogo è andato naturalmente sullo spettacolo triste e tragico degli abusi che hanno ferito profondamente negli ultimi tempi la vita della chiesa e la storia di tante famiglie, un fenomeno peraltro trasversale a tutte le figure e le relazioni che hanno un compito educativo, duraturo nel tempo. Ci preoccupa pastoralmente la figura del desiderio possessivo che colpisce soprattutto le donne e i bambini. La casa del prete è quindi un richiamo alla pulizia e alla sobrietà degli affetti, alla verità circa le proprie inclinazioni sessuali, alla vigilanza su tutti gli strumenti (internet, siti, social) che alimentano il lato narcisistico e trasgressivo del proprio ego. Mi sembra opportuno richiamare una particolare vigilanza sull’uso dei social. A questo proposito pongo una semplice domanda: chi li guarda, può considerare le immagini e le parole postate un mezzo comunicativo degno di un prete, oppure esse scimmiottano la comunicazione petulante e aggressiva di tanti leoni da tastiera?

10. Non desiderare la roba d’altri, la casa e il desiderio benevolente.  Da ultimo, il comandamento intima il divieto di desiderare in modo possessivo la roba d’altri. In realtà la versione esodica del comandamento fonde insieme le due proibizioni: «Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo» (Es 20,17). L’analisi del desiderio onnipotente in una società dominata dai consumi è oggi decisiva, soprattutto per affrancarci dall’illusione del valore salvifico del possesso: le giovani generazioni ne subiscono il fascino e immaginano che la vita felice sia un’esistenza fondata sull’avere. La linea di confine che divide il superfluo dal necessario si è innalzata velocemente dal dopoguerra ad oggi. Possedere ci fa sentire forti e potenti e tutto ciò si vede anche nella casa, nel vestito, nell’auto, negli effetti personali e… persino nei paramenti posseduti da ciascuno di noi. Come il prete abita la casa, così anche pratica la vita delle persone. Se la generazione più avanti negli anni ha potuto confondere la povertà e l’essenzialità talvolta con stili di vita trasandati e al limite del minimo di dignità umana, la generazione più giovane ha qualche volta ecceduto in senso contrario, con un’abitazione e dotazioni personali (vestiti, auto, tecnologia, viaggi). Non bisogna confondere povertà dell’abitazione con una casa che è diventata un tugurio senza pulizia e cura, non bisogna scambiare la sobria bellezza di una casa con il lusso esotico che è il riflesso di una bulimia della stravaganza e del possesso. Alla fine il criterio di discernimento è semplice: chi visita la nostra casa può trovarsi a disagio perché è un ambiente inospitale e degradato oppure perché è troppo ricercato e lussuoso? La casa è la condizione pratica con cui il prete vive la spiritualità del suo ministero pastorale, perché il modo di vivere la casa rivela l’umanità del prete. Senza umanità il pastore corre il rischio di diventare funzionario di Dio, senza pastoralità il prete può ridursi ad essere un impiegato a ore. Dobbiamo lasciarci educare da un desiderio benevolente, cioè da una forma del rapporto con i beni della vita che sia dignitoso per sé e capace di carità per gli altri. Il nostro rapporto con i beni è sotto la lente di ingrandimento della gente: da come abitiamo e vestiamo, da cosa acquistiamo e possediamo, da come facciamo i viaggi e le vacanze, essi intuiscono e vedono nella nostra postura su cosa è poggiata la nostra vita, di che cosa viviamo. In una parola vedono il carattere del nostro desiderio e la qualità della nostra speranza!

 

+Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara