Pubblichiamo di seguito l’omelia del vescovo Franco Giulio in occasione del pellegrinaggio dei soci pensionati della Coldiretti di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta al Santuario della Sacra Costa di Cannobio, lo scorso 8 giugno 2022.
Il seminatore uscì a seminare
Giornata della Coldiretti per gli agricoltori pensionati
Rinnovo il mio saluto cordiale a voi che avete voluto vivere questa giornata nella nostra diocesi di Novara e in particolare qui nella splendida cornice di Cannobio. È l’ultimo dei borghi di questo territorio a ridosso del confine svizzero. È una città caratteristica non solo per l’incantevole lungolago, ma per la circostanza singolare di cui ricorre esattamente quest’anno il quinto centenario dell’evento miracoloso, avvenuto appunto nel 1522. Proprio in riva al lago ammirerete il Santuario, che sorge dov’era una normalissima casa, in cui avvenne l’evento prodigioso, nella quale si conserva un’icona molto piccola – 27 per 30 cm – che riproduce il Cristo morto che emerge dal sepolcro tra la beata Vergine Maria e l’apostolo Giovanni, attorniati da tutti i simboli della Passione. Per una serie di giorni, come è bene documentato, l’icona emise sangue a più riprese. Nella nostra diocesi non è l’unico caso di sanguinamento miracoloso.
Il seminatore uscì a seminare
Giornata della Coldiretti per gli agricoltori pensionati
08-06-2022
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La vigilia della festa, che ricorre l’8 gennaio, si svolge una processione, forse tra le più suggestive del Nord Italia, perché tutta la città spegne le proprie luci artificiali, per illuminarsi con circa diecimila ceri rossi. Da qui il nome di “processione dei luminèri”, distribuiti lungo le strade di tutta la città, che si riflettono anche nelle acque del lago. In processione viene portato il reliquiario della sacra Costa, che precedentemente viene calato dall’alto della cupola della Chiesa collegiata, con un meccanismo simile a quello della Nivola del Duomo di Milano. Poi si percorrono le diverse vie e i vicoli del paese fino al lungolago dove avviene la benedizione del Lago. La reliquia viene quindi portata nel santuario della Pietà e lì vi rimane per un giorno intero. L’indomani con un’altra processione vien ricondotta alla Chiesa parrocchiale.
Qui si celebra secondo il rito ambrosiano poiché questo territorio, Cannobio e tutta la valle che ne prende il nome, appartenne alla diocesi di Milano e proprio San Carlo promosse il culto e lo sviluppo del Santuario. Queste comunità non hanno mai voluto essere omologate al rito romano in uso nel resto della diocesi di Novara, a tal punto che in sagrestia è conservato un quadro, su cui sta scritto paradossalmente “O ambrosiani, o luterani”: piuttosto di assumere il rito romano, sarebbero diventati luterani!
Il fatto che le popolazioni della Valle Cannobina in passato, naturalmente più numerose di oggi, non potessero con facilità scendere a Cannobio a motivo della neve e delle strade anguste ha conservato la tradizione di ripetere i riti e la processione attorno alla reliquia, nella domenica di Pentecoste. E, infatti, domenica scorsa, solennità di Pentecoste, ho presieduto la Messa, alla quale partecipa molta gente che proviene anche dalla vicina Svizzera e dalla Germania, anche se non ha il fascino e la suggestione della processione invernale, perché tutto avviene quando il sole è ancora alto. È bello allora che oggi possiate anche voi beneficiare della grazia della visita a questi luoghi, le cui particolarità vi verranno illustrate dal rettore del Santuario.
Ora vorrei dirvi una parola di ringraziamento, perché mi sento coinvolto anche a motivo della mia origine: la mia famiglia materna era contadina, mentre mio padre, ma questo non cambia molto, produceva e vendeva zoccoli e calzature. Mi sono fatto l’idea che potreste fare vostro questo slogan: “I contadini non vanno mai in pensione!”. I vostri volti mi dicono che siete ancora in attività e diventa superfluo parlare della stagione del riposo e del pensionamento! Ci sarebbe certo la possibilità di parlare del fatto che a un certo punto sia opportuno passare il testimone alle nuove generazioni e, seppure sembra ci sia un ritorno alla terra anche da parte dei giovani, manca forse lo stesso slancio ed entusiasmo che voi ancora manifestate.
Oltre al ringraziamento vi dico anche una parola di incoraggiamento e lo faccio attraverso i testi della Parola di Dio che abbiamo ascoltato. Sono brani che amo molto, in particolare la famosa parabola del seminatore, e a cui ho ispirato anche la lettera pastorale di quest’anno. È la parabola più famosa di Gesù. La Sacra Scrittura è piena di metafore agricole e pastorali e il modo stesso con cui si indica l’attività della Chiesa è chiamata azione “pastorale”. Gesù è stato un attentissimo osservatore soprattutto del mondo agricolo. Con il suo linguaggio è stato capace di penetrare e leggere i fatti della vita. Attraverso l’analogia del mondo agricolo ha raccontato cos’è il Regno di Dio, il quale significa la vicinanza, la prossimità, l’amore, la tenerezza di Dio dentro la nostra vita. Il suo grande codice è stato esattamente quello agricolo.
Il seminatore uscì a seminare…
La parabola inizia così:
“Ascoltate. Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava…” (Mc 4, 3-4a)
Il racconto parla di tre tipi di seme che cadono su tre tipi di terreno differente e che hanno un risultato e un esito contrastato. Di fronte a questo brano mi sono informato su come era l’agricoltura del tempo di Gesù. Non si arava prima della semina, innanzitutto perché non c’era l’aratro come lo intendiamo noi. L’aratro con il versoio, quella sorta di pala ricurva che ha la forza di rivoltare la zolla di terra e che permette di aumentare la superficie di terreno per la seminagione, non compare fino al decimo secolo. Non c’era presso i Romani, né presso i Germani. L’inverno scorso leggendo alcuni studi sul Medioevo mi sono imbattuto in questa notizia che mi ha veramente impressionato: l’aratro con il versoio è molto tardo. La sua scoperta ha prefigurato quello slancio dell’agricoltura che avverrà nell’XI secolo – dopo l’inquietudine generata dal mito dell’anno mille – e che si espresse prima di tutto con un forte incremento delle nascite, a cui seguì un grande sviluppo del commercio e dell’economia nell’undicesimo e dodicesimo secolo. Questo, nonostante che ancor oggi, sia in rubriche televisive che d’opinione, sia invalso l’uso di dire “medievale” una cosa retrograda, mentre la realtà dei fatti dimostra che quei secoli conobbero un vero e proprio “rinascimento” (XII e XIII secolo). Ne sono un esempio la costruzione delle cattedrali gotiche che suppongono una società opulenta, ricca, perché se fosse stato il contrario, anche i manufatti della vita sociale sarebbero stati poveri.
La parabola di Gesù, invece, si riferisce a un modo di seminare, per cui prima si seminava e poi si sommuoveva e si erpicava il terreno (in Palestina esistono terreni molto vari è assai differenziati)
“Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; e subito germogliò perché il terreno non era profondo, 6ma quando spuntò il sole, fu bruciata e, non avendo radici, seccò”. (Mc 4, 4-6)
Ora voi cercate di ascoltare la parabola come la racconta Gesù, senza commenti o interpretazioni, peraltro già presenti nei vangeli, che mettono soprattutto l’accento sui vari tipi di terreno. Da parte sua Gesù innanzitutto pone l’attenzione sul seminatore e sul seme: un seminatore sprecone, o meglio generoso, che non guarda il tipo di terreno per decidere come seminare, ma intende seminare con abbondanza, con generosità. E ciò ci fa comprendere perché questo gesto del seminatore diventa per Gesù metafora dell’amore di Dio, della sua vicinanza, della sua prossimità. Dio non guarda il tipo di terreno, proprio perché a volte il terreno è capace di dare di più di quel che noi siamo capaci di aspettarci, di attendere. Questi sono i tre tipi di terreno dove il risultato è molto diversificato.
C’è poi il quarto tipo di terreno – è raro che i predicatori commentino quest’ultimo passaggio – che contiene una nota misteriosa:
“Altre parti caddero sul terreno buono e diedero frutto: spuntarono, crebbero e resero il trenta, il sessanta, il cento per uno” (Mc 4,8).
Il buon seminatore conosce bene questa differente fecondità dei terreni. Lo comprendo anche io che abito a Novara e mentre viaggio vedo tutti i terreni curatissimi con i quali oggi con la lama a laser si ottengono esiti molto promettenti. Eppure anche in questo caso il risultato è difforme. Gesù racconta di come il terreno buono e il seme buono producano ove il trenta, ove il sessanta ove il cento per uno. Perché questo esito diverso con seme e terreno buono? Perché questo rende voi protagonisti! È protagonista la vostra fatica, la vostra creatività, la vostra capacità di intuizione, la vostra attesa, la vostra pazienza, che è la pazienza del contadino.
Un libro di un mio caro amico, docente di Sacra Scrittura, ha proprio questo titolo “La pazienza del contadino” (Bruno Maggioni, La pazienza del contadino. Note di cristianesimo per questo tempo, Milano, Vita e Pensiero, 1996). È la pazienza di chi impara dalla vita – “pazienza” deriva dal verbo greco παθέιν/patheìn dal quale a sua volta deriva l’aggettivo paziente e il nostro verbo patire –: essa ci indica che per il contadino, e così anche per noi, la vita non è quella che si sogna ma che si impara. Ascoltate cosa dice la Lettera agli Ebrei a proposito di Gesù:
“Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì” (Eb 5,8)
Ecco allora il primo “grazie” e così il primo incoraggiamento. Continuate a trasmettere questa preziosa intuizione che ci fa comprendere che la vita si impara da ciò che ci viene incontro, dalla realtà che resiste sotto le nostre mani, dal tempo in cui dobbiamo attendere, che sia brutto o bello, anche quando è tre mesi che non piove! Insegnate che la vita si impara prevalentemente così. Tra le molte cose che insegnate alle nuove generazioni questa è la più importante: la realtà non è dentro la nostra testa, ma è fuori, e noi dobbiamo accoglierla per trasformarla, lavorandola creativamente con tutti i mezzi moderni.
Invece il mondo che abbiamo fuori, all’intorno, non è proprio così! Provate a guardare un agglomerato urbano, ad esempio la realtà metropolitana di Milano: il mondo che si vede fuori dalla finestra non è bello, eppure lo abbiamo creato noi. Se invece penso alle colline come quelle del Monferrato, o anche le nostre colline del Farese, di Sizzano o di Ghemme, sembra di vedere un paradiso terrestre! Una volta provenendo da Mondovì sono sceso proprio sopra Barolo e mi si è presentato dinanzi uno spettacolo inimmaginabile… Avevo appena letto un racconto di Fenoglio, intitolato “La malora”, che narra di un giovane entrato in seminario, e che poi torna a casa, e riprende la sua condizione di contadino. Pensiamo a questo territorio nell’immediato dopoguerra, e ricordiamo a quale trasformazione abbiamo assistito dentro e fuori le nostre città e campagne. Questo è il nostro grazie e anche il nostro incoraggiamento. Trasmettete il senso della vita e della realtà come ciò che resiste sotto le mani, e proprio per questo consente di fare cose grandi, cose belle, cose durature, cose che restano.
L’eredità dei padri…
Il secondo messaggio ci è consegnato dalla prima lettura della Messa. Avete ascoltato lo strano messaggio che viene dalla Lettera ai Corinti (1 Cor 3, 4-9): san Paolo è a Efeso e riceve la notizia che i cristiani della comunità di Corinto erano in agitazione, perché si erano formati gruppi con alcuni capetti, alcuni leader diremmo noi oggi. San Paolo scrive:
“Quando uno dice: «Io sono di Paolo…»” (1 Cor 3,4a)
Si mette lui per primo, perché anche i suoi millantavano credito di essere amici di Paolo,
“e un altro: «Io sono di Apollo…»” (1 Cor 3, 4b)
in un altro luogo, Paolo dice che Apollo aveva un bell’eloquio,
“non vi dimostrate semplicemente uomini? Ma che cosa è mai Apollo? Che cosa è Paolo?” (1 Cor 3, 4c-5a)
E soggiunge:
“Servitori, attraverso i quali siete venuti alla fede, e ciascuno come il Signore gli ha concesso”. (1 Cor 3, 5b)
E per far comprendere bene il suo pensiero usa ancora la metafora agricola:
“Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma era Dio che faceva crescere”. (1 Cor 3,6)
Ecco il secondo motivo di incoraggiamento e di gratitudine che abbiamo nei confronti di voi che avete fatto una lunga carriera perché, come ho detto, “il contadino non va mai in pensione”. Certo ne riceve una, ma conosce bene la regola che per far crescere bene un’impresa di famiglia, il proprio campo, la sua proprietà e tutte le altre cose, non deve agire da solo, ma deve fare spazio anche ad altri, soprattutto ai figli.
Una parola possiamo dedicarla anche a coloro che sono realmente in pensione. Vi prego soltanto di una cosa sola: non risparmiate ai vostri figli le fatiche che hanno fatto diventare grandi voi! Fategli far fatica! Noi usiamo troppo spesso la frase: “Non voglio che mio figlio faccia come ho fatto io. Che vada a studiare alla Bocconi”. Se ne ha il desiderio sì, ma non dobbiamo farlo perché vogliamo emanciparlo dalla nostra situazione. E soprattutto vi invito a fare in modo che chi vi succede, chi verrà dopo di voi nel vostro lavoro, non sia messo nella condizione di ereditare regalandogli tutto, ma facendogli conquistare quello che voi avete fatto.
C’è una bellissima espressione che ricordo spesso e che è scritta dal punto di vista dei figli. È di un grande poeta tedesco, J. W. Goethe, che si esprime così: “Ciò che hai ereditato dai padri, riconquistalo se vuoi possederlo davvero!”. Potreste inciderla da qualche parte nei vostri campi e nelle vostre masserie! In questo modo desidero ricordiate questa bella giornata a Cannobio.
+Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara