Alle 9.34 di questa mattina, 31 dicembre, il Papa emerito Benedetto XVI è tornato alla casa del padre.
Questa sera il nostro vescovo Franco Giulio Brambilla celebrerà una messa di suffragio nella Basilica di San Gaudenzio a Novara alle ore 18.
L’invito del vescovo a tutte le comunità della diocesi è di unirsi idealmente in questo momento preghiera, celebrando questa sera e domani una messa e ricordandolo nelle preghiere dei fedeli.
Per ricordarne la figura di teologo e pastore, pubblichiamo di seguito un testo[*] di mons. Brambilla a commento del suo discorso al IV Convegno nazionale della Chiesa Italiana del 2006, «una delle pagine memorabili – commenta il nostro vescovo – del magistero di Papa Benedetto XVI».
Un “nuovo spazio di esistenza”
Il Discorso di Verona
“Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo”: questo era il tema del IV Convegno nazionale della Chiesa Italiana, tenuto a Verona dal 16 al 20 ottobre 2006. Il Convegno del primo decennio del terzo millennio si collocava nella scia della tradizionale sosta di metà cammino, che per tre decenni aveva contrassegnato le successive ondate della spinta propulsiva della Chiesa italiana dopo il Concilio: 1976 a Roma, 1985 a Loreto, 1995 a Palermo. La tematica di Verona portava con sé una duplice novità rispetto ai convegni precedenti: la destinazione escatologica e l’attenzione antropologica. La prima si esprimeva nella stessa formulazione del tema, con cui si era tentato di fare sintesi tra le due anime presenti nell’episcopato italiano dell’epoca: la partecipazione dei laici (testimoni) e il momento escatologico della fede cristiana (Gesù risorto, speranza del mondo). La seconda si era realizzata invece nella declinazione del tema: erano i cinque ambiti di Verona (vita affettiva, lavoro e festa, fragilità, tradizione, cittadinanza), con cui si cercava di spostare l’ago della bilancia dai tria munera ecclesiologici all’urgenza di una marcata attenzione antropologica nell’azione pastorale della Chiesa.
Testimoni: tradurre in italiano il Concilio
Su questo sfondo si è inserito il Discorso in Fiera, tenuto il mattino di giovedì 19 ottobre 2006 da Papa Benedetto XVI, che per un verso ha onorato il tema e per l’altro l’ha elevato da par suo a vette altissime. Anzitutto, il messaggio del Pontefice ha ripreso la tradizione dei grandi interventi dei predecessori ai Convegni precedenti. Con un discorso di alto profilo, che ha incantato i delegati per la forma persuasiva con cui è stato proposto, il Pontefice ha disegnato davanti agli occhi di tutti il grande quadro dei temi dell’inizio di pontificato, inserendoli nel contesto del Convegno e nel panorama dell’Italia. Il rapporto del Papa con l’Italia è singolare, perché egli è il vescovo di Roma: quasi all’inizio del pontificato era un’occasione importante per indicare la via con cui le Chiese d’Italia potevano inserirsi nel respiro del nuovo cammino della Chiesa universale, inaugurato l’anno precedente con la sua recente elezione.
Papa Ratzinger lo ha fatto sin dall’inizio del discorso, riconoscendo la singolarità dell’Italia sotto il profilo spirituale e culturale. Egli ha raccolto l’anima che sosteneva la preparazione e la celebrazione dei convegni ecclesiali, di cui si era giunti alla quarta edizione. «Questo IV Convegno nazionale è una nuova tappa del cammino di attuazione del Vaticano II, che la Chiesa italiana ha intrapreso fin dagli anni immediatamente successivi al grande Concilio: un cammino di comunione anzitutto con Dio Padre e con il suo Figlio Gesù Cristo nello Spirito Santo e quindi di comunione tra noi, nell’unità dell’unico Corpo di Cristo (cfr 1Gv 1, 3; 1Cor 12, 12-13); un cammino proteso all’evangelizzazione, per mantenere viva e salda la fede nel popolo italiano; una tenace testimonianza, dunque, di amore per l’Italia e di operosa sollecitudine per il bene dei suoi figli».
“Tradurre in italiano il Concilio” era la prospettiva che aveva animato la prima generazione dei vescovi che avevano partecipato all’assise ecumenica ed erano stati i protagonisti del primo ventennio postconciliare. Se dopo la svolta del Convegno di Loreto, da parte di alcuni osservatori, c’era stata l’impressione di un richiamo a serrare le fila e di una scelta preferenziale dei nuovi movimenti, a Verona, vent’anni dopo, era parso a molti che il tema della testimonianza potesse indicare prima ciò che unisce, di ciò che distingue, nel comune compito di evangelizzazione. I movimenti al giro di boa del Millennio sembravano desiderosi essi stessi di convergere nella comune missione testimoniale della Chiesa.
L’intervento di Papa Benedetto rappresenta di certo uno degli atti più importanti del suo Magistero, nel solco dei Pontefici precedenti, almeno certamente per l’Italia. Lo riconosce egli stesso esplicitamente all’inizio: «Questo cammino la Chiesa in Italia lo ha percorso in stretta e costante unione con il Successore di Pietro: mi è grato ricordare con voi i Servi di Dio Paolo VI, che volle il I Convegno nell’ormai lontano 1976, e Giovanni Paolo II, con i suoi fondamentali interventi – li ricordiamo tutti – ai Convegni di Loreto e di Palermo, che hanno rafforzato nella Chiesa italiana la fiducia di poter operare affinché la fede in Gesù Cristo continui ad offrire, anche agli uomini e alle donne del nostro tempo, il senso e l’orientamento dell’esistenza ed abbia così “un ruolo-guida e un’efficacia trainante” nel cammino della Nazione verso il suo futuro».
Tre sono gli assi strutturali di questo memorabile intervento: la centratura cristologica da cui deriva una nuova immagine dell’uomo; l’affermazione della “differenza” cristiana, come il grande “sì” che spiega i no detti di fronte alla mentalità mondana; la testimonianza cristiana declinata nei cinque ambiti di Verona.
Di Gesù risorto: la più grande “mutazione” e il “nuovo spazio di esistenza”
Il primo asse disegna la relazione tra risurrezione di Gesù e vita nuova dei credenti. È la pagina più bella e persuasiva di tutto il Discorso di Verona, una delle vette della Magistero del postconcilio. Dopo aver richiamato la «scelta assai felice [che] pone Gesù risorto al centro dell’attenzione del Convegno e di tutta la vita e la testimonianza della Chiesa in Italia», il Papa disegna le due coordinate del Convegno: la risurrezione di Cristo come trasformazione del mondo e la novità sorprendente della vita dei credenti innestata nella risurrezione. Questa pagina è paragonabile all’incipit della Deus caritas est, per il suo carattere di lingua intensamente teologica ed emotivamente spirituale. Proviamo a vedere i due aspetti dello svolgimento e la loro reciproca relazione.
La risurrezione di Gesù è declinata anzitutto nella forma di un linguaggio teologico incandescente ed è poi interpretata alla luce di un’ermeneutica dell’agape. Si succedono tradizione e attualizzazione in una circolarità sorprendente ed emozionante. Ascoltiamone l’Ansatz (approccio), si potrebbe dire, onorando la lingua del Pontefice: «La risurrezione di Cristo è un fatto avvenuto nella storia, di cui gli Apostoli sono stati testimoni e non certo creatori. Nello stesso tempo essa non è affatto un semplice ritorno alla nostra vita terrena; è invece la più grande “mutazione” mai accaduta, il “salto” decisivo verso una dimensione di vita profondamente nuova, l’ingresso in un ordine decisamente diverso, che riguarda anzitutto Gesù di Nazareth, ma con Lui anche noi, tutta la famiglia umana, la storia e l’intero universo: per questo la risurrezione di Cristo è il centro della predicazione e della testimonianza cristiana, dall’inizio e fino alla fine dei tempi». La “più grande mutazione” del cosmo, il “salto decisivo” che porta alla vita risorta, l’ordine nuovo della vita cristiana personale, familiare e civile, il centro della testimonianza cristiana che si irradia nel mondo: si tratta di un linguaggio teologico che in sette righe tiene insieme, con la potenza di una retorica asciutta e controllata, le dimensioni cristologiche, antropologiche, ecclesiologiche e cosmiche del kérygma pasquale. Sarebbe un testo da mandare a memoria.
Ma non basta! Proprio perché si tratta di una concettualizzazione inimmaginabile, il Papa teologo sente il bisogno di proporne un’ermeneutica sintetica, che faccia sentire l’esplosione delle componenti che entrano in questa sorta di fusione atomica: c’è un punto di incandescenza che è fornito dall’interpretazione agapica del mistero pasquale! Sentiamola: «la cifra di questo mistero è l’amore e soltanto nella logica dell’amore esso può essere accostato e in qualche modo compreso: Gesù Cristo risorge dai morti perché tutto il suo essere è perfetta e intima unione con Dio, che è l’amore davvero più forte della morte. Egli era una cosa sola con la Vita indistruttibile e pertanto poteva donare la propria vita lasciandosi uccidere, ma non poteva soccombere definitivamente alla morte: in concreto nell’Ultima Cena egli ha anticipato e accettato per amore la propria morte in croce, trasformandola così nel dono di sé, quel dono che ci dà la vita, ci libera e ci salva. La sua risurrezione è stata dunque come un’esplosione di luce, un’esplosione dell’amore che scioglie le catene del peccato e della morte. Essa ha inaugurato una nuova dimensione della vita e della realtà, dalla quale emerge un mondo nuovo, che penetra continuamente nel nostro mondo, lo trasforma e lo attira a sé». Solo il Lógos dell’agape mette in luce l’articolazione tra la realtà (era una cosa sola con la Vita indistruttibile e pertanto poteva donare la propria vita lasciandosi uccidere, ma non poteva soccombere definitivamente alla morte), l’anticipo rituale nel sacramento (nell’Ultima Cena egli ha anticipato e accettato per amore la propria morte in croce, trasformandola così nel dono di sé, quel dono che ci dà la vita, ci libera e ci salva), la trasfigurazione operata dall’agape (come un’esplosione di luce, un’esplosione dell’amore che scioglie le catene del peccato e della morte) e la sua irradiazione cosmica (una nuova dimensione della vita e della realtà, dalla quale emerge un mondo nuovo, che penetra continuamente nel nostro mondo, lo trasforma e lo attira a sé). Si noti la bellezza di questa concatenazione del Lógos pasquale, tenuto insieme dalla forza di agape! Potenza di una pagina dove realtà e interpretazione sono profondamente embricate. Ma non è ancora tutto.
L’eccedenza della vita del Risorto e della sua ermeneutica agapica allunga la sua energia con il magnetismo della vita risorta, una forza che però non ha tanto un’analogia con le forze gravitazionali di stampo naturalista, ma ha la concretezza storica del rapporto tra grazia dell’agape e gioco della libertà. Approdiamo al culmine di questa pagina del magistero di Papa Benedetto, per cui vale la pena di rileggerlo sempre da capo, al da là dalla sua contingenza storica. Eccolo in tutta la sua forza, prima riferita alla Chiesa testimoniale, ma poi subito indirizzata ai credenti. Prima la Chiesa che nasce dalla Pasqua, con un breve e folgorante accenno: «Tutto ciò avviene concretamente attraverso la vita e la testimonianza della Chiesa; anzi, la Chiesa stessa costituisce la primizia di questa trasformazione, che è opera di Dio e non nostra». Poi la novità è subito concentrata sul credente, descritto con i tratti di un io esemplare: «È ciò che rileva San Paolo nella Lettera ai Galati: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (2, 20). È stata cambiata così la mia identità essenziale, tramite il Battesimo, e io continuo ad esistere soltanto in questo cambiamento. Il mio proprio io mi viene tolto e viene inserito in un nuovo soggetto più grande, nel quale il mio io c’è di nuovo, ma trasformato, purificato, “aperto” mediante l’inserimento nell’altro, nel quale acquista il suo nuovo spazio di esistenza. Diventiamo così “uno in Cristo” (Gal 3, 28), un unico soggetto nuovo, e il nostro io viene liberato dal suo isolamento. “Io, ma non più io”: è questa la formula dell’esistenza cristiana fondata nel Battesimo, la formula della risurrezione dentro al tempo, la formula della “novità” cristiana chiamata a trasformare il mondo. Qui sta la nostra gioia pasquale» (corsivo mio).
Mi piacerebbe che si potesse assaporare tutta la potenza linguistica e dialettica di questo testo incentrato sul nuovo spazio di esistenza dell’uomo. È un’immagine geniale che può essere considerata il cuore del discorso. Anzitutto, l’identità essenziale del credente continua ad esistere nel suo cambiamento. E, poi, segue la proposizione travolgente che è il nerbo della citazione: il mio proprio io mi viene tolto e viene inserito in un nuovo soggetto più grande, nel quale il mio io c’è di nuovo, ma trasformato, purificato, “aperto” mediante l’inserimento nell’altro, nel quale acquista il suo nuovo spazio di esistenza. È un io che viene tolto, inserito in un noi più grande, in cui ritorna ad esistere in modo trasformato, cioè aperto mediante l’innesto nell’altro, in relazione al quale guadagna “un nuovo spazio di esistenza”. Se può esserci un elemento non esplicito nella formulazione del testo è il gioco della/e libertà che viene descritto dialetticamente come un “io, ma non più io”, sulla base della grazia di agape che silenziosamente, ma realmente è operante: «Diventiamo così “uno in Cristo” (Gal 3, 28), un unico soggetto nuovo, e il nostro io viene liberato dal suo isolamento». Alla fine il racconto dell’esistenza cristiana svetta nel cantus firmus della vita risorta: «è questa la formula dell’esistenza cristiana fondata nel Battesimo, la formula della risurrezione dentro al tempo, la formula della “novità” cristiana chiamata a trasformare il mondo». Dite voi se è poco. Tuttavia, poiché questo è l’éschaton della vita credente, il Papa teologo conclude quasi cantando: «Qui sta la nostra gioia pasquale»!
Mi sono permesso di chiosare, anzi quasi di far assaporare il testo del Papa, perché si vede chiaramente che la relazione tra risurrezione di Gesù e novità della vita cristiana si attua in una circolarità in cui dono dell’agape trinitaria, dedizione cristologica e libertà degli uomini stabiliscono tra loro la danza circolare dell’amore. Ognuno al “suo” posto, perché ciascuno trovi il “proprio” posto: il Padre che è l’eccedenza dell’agape, il Figlio che è la dedizione senza confini e gli uomini che diventano cristiani nell’espropriazione credente del proprio io, con cui entrano nel noi ecclesiale. Una triplice “consegna” che è possibile solo nella circolarità amante dello Spirito, quello Santo!
Speranza: il grande “si” della fede
Il secondo asse del Discorso di Verona si dispiega scendendo dal panorama mozzafiato della vetta trinitaria, dell’evento pasquale e della drammatica delle libertà, e illumina la valle del paese Italia. Il riferimento alla specificità del suo territorio dice con verità stupefacente le due facce di un’unica medaglia: «terreno profondamente bisognoso e al contempo molto favorevole per tale testimonianza». Da un lato, il Papa osserva che anche l’Italia condivide con la cultura occidentale l’atteggiamento di autosufficienza che sta generando un nuovo costume di vita, contrassegnato da una ragione strumentale e calcolante, e dall’assolutizzazione della libertà individuale come sorgente dei valori etici. Dio viene espunto dall’orizzonte della vita pubblica, ma questo si ritorce in un deperimento del senso e in una privatezza della coscienza della quale patisce l’uomo stesso, ridotto a un semplice prodotto della natura. Così la rivendicazione moderna dell’autonomia del soggetto e della libertà perde la spinta propulsiva che l’aveva mossa: «Si ha così un autentico capovolgimento del punto di partenza di questa cultura, che era una rivendicazione della centralità dell’uomo e della sua libertà».
D’altro lato, il Papa tedesco parla della specificità dell’Italia come di «un terreno ancora favorevole per la testimonianza cristiana», elencandone con grande accuratezza i tratti: presenza capillare alla vita della gente; tradizioni cristiane radicate e rinnovate nello sforzo di evangelizzazione per le famiglie e i giovani; reazione delle coscienze di fronte a un’etica individualistica; possibilità di dialogo con segmenti della cultura che percepiscono l’insufficienza di una visione strumentale della ragione, ecc. Questo suscita un appassionato appello del Papa a «cogliere questa grande opportunità», a non essere rinunciatari, perché questo rappresenta «un grande servizio non solo a questa Nazione, ma anche all’Europa e al mondo». È, per così dire, delineata una vocazione dell’Italia ad essere un ponte tra le radici ebraico-cristiane dell’Occidente e la linfa del pensiero greco, che ha trovato nei grandi padri della Chiesa indivisa, nel medioevo latino e nel rinascimento italiano, il grembo di gestazione della cultura occidentale. La sua collocazione geografica, quasi ponte proteso da Gerusalemme e da Atene verso Roma, trova un nuovo punto di sintesi.
Su questo sfondo, tratteggiato con accenti diversi ma convergenti, si innesta il grande compito della testimonianza cristiana: il tema chiave del Convegno di Verona. Il Pontefice, riprendendo un motivo centrale del suo magistero, mostra la fede come il grande sì all’uomo, perché è il sì di Dio in Gesù. È il tema della identità e della differenza cristiana, che non è mai solo una differenza “da”, ma è una differenza “per”. Pertanto deve «emergere il grande “sì” che Dio in Gesù Cristo ha detto all’uomo e alla sua vita». Con puntuale eleganza questo tema è stato ripetuto e svolto nell’omelia del pomeriggio di quel giorno allo stadio di Verona, con cui il Papa ha persino fatto “l’esegesi dei genitivi” contenuti nel motto del Convegno. Testimoni di Gesù risorto: il primo genitivo indica che il testimone «appartiene a Lui, e proprio in quanto tale può rendergli valida testimonianza, può parlare di Lui, può farLo conoscere, condurre a Lui, trasmettere la sua presenza». Speranza del mondo: il secondo genitivo «non indica affatto appartenenza, perché Cristo non è del mondo, come pure i cristiani non devono essere del mondo. La speranza, che è Cristo, è nel mondo, è per il mondo, ma lo è proprio perché Cristo è di Dio» (Omelia allo stadio di Verona).
Il motivo di fondo di una testimonianza evangelizzante, capace di dire il grande “sì” della fede, di far palpitare il centro del cristianesimo, è poi svolto da papa Benedetto con una sorta di dittico, che ha molto impressionato per la forza del disegno e la chiarezza dell’esposizione. Viene introdotto dalla citazione capitale dell’enciclica Deus caritas est (n. 1), la quale afferma che «all’inizio dell’essere cristiano – e il Papa aggiunge per l’occasione: e quindi all’origine della nostra testimonianza di credenti – non c’è una decisione etica o una grande idea, ma l’incontro con la persona di Gesù Cristo, “che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva”». È questo il motivo di fondo del Pontificato, che è svolto sia nella direzione del confronto con la forma moderna della ragione, sia nella linea del bisogno dell’uomo di amare e di essere amato, per aprirlo a incontrare il volto agapico di Dio.
Di qui il grande compito per l’annuncio e la teologia di tenere uniti tali due aspetti, perché il grande sì della fede possa dire e comunicare la novità sconvolgente della rivelazione biblica. L’Enciclica Deus caritas est e il discorso di Regensburg appaiono i due assi dell’evangelizzazione, di modo che il vertice pasquale della divina rivelazione manifesti che «nella morte di croce si compie “quel volgersi di Dio contro se stesso nel quale Egli si dona per rialzare l’uomo e salvarlo – amore, questo, nella sua forma più radicale”, nel quale si manifesta che cosa significhi che “Dio è amore” (1Gv 4,8) e si comprende anche come debba definirsi l’amore autentico». Per comprendere «il “sì” estremo di Dio all’uomo, l’espressione suprema del suo amore e la scaturigine della vita piena e perfetta» occorre domandarsi se il mondo sia abitato da un Logos creatore, che è la grammatica con cui la vita cerca la sua pienezza. Ritorna qui insistente la preoccupazione del Papa a dilatare gli spazi della razionalità moderna, a dischiuderle prospettive di senso che superano la sua comprensione, ma soprattutto la sua prassi tecnica e strumentale. È un motivo di fondo della riflessione del Papa, già presente nel discorso sull’Europa tenuto il giorno prima della morte di Giovanni Paolo II, e ora ripreso davanti ai delegati: «diventa di nuovo possibile allargare gli spazi della nostra razionalità, riaprirla alle grandi questioni del vero e del bene, coniugare tra loro la teologia, la filosofia e le scienze…». Approvando in modo convinto il progetto culturale della Chiesa italiana, il Papa parla di «un’affascinante avventura nella quale merita spendersi», per ridare smalto spirituale e profondità culturale alla proposta dell’identità cristiana, al grande “sì” della fede!
Del mondo: i cinque ambiti
Infine, approdiamo al terzo asse del Discorso di Verona. Il Papa a questo punto articola tre temi abbastanza ricorrenti nel Magistero del tempo: l’educazione, la carità e la responsabilità politica dei cattolici. Erano luoghi in qualche modo attesi nel genere letterario dei discorsi al Convegno nazionale dei cattolici. Forse qui non è colta tutta la forza dirompente della scelta dei cinque ambiti, che è stata e continua ad essere il motivo di riconoscimento del Convegno di Verona. Mi sembra perciò utile riflettere sulla portata di questa scelta. L’istanza che la guidava era la seguente: occorre ripensare l’unità della pastorale, articolata nelle funzioni della Chiesa (Parola, Sacramento, Carità), incentrandola maggiormente sull’unità della persona, sulla rilevanza educativa e formativa che queste funzioni possono avere.
Non si trattava, allora come oggi, di sostituire al criterio ecclesiologico la rilevanza antropologica nel disegnare l’unità e l’articolazione della missione della Chiesa, quanto invece di mostrare che la pastorale in prospettiva missionaria deve sapere in ogni caso condurre l’uomo all’incontro con la speranza viva del Risorto. Diversa è, infatti, la funzione del criterio ecclesiologico e della rilevanza antropologica: lo schema dei tria munera dice l’unità della missione della Chiesa negli elementi che la costituiscono come dono dall’alto, ne dice l’eccedenza irriducibile a ogni umanesimo; il rilievo antropologico dell’azione pastorale della chiesa, destinato all’unità della persona e alla figura buona della vita che vuole suscitare, dice l’insonne compito dell’agire missionario della Chiesa di condurre gli uomini all’incontro vivo e ardente con il Risorto. Saper mostrare la qualità antropologica dei gesti della Chiesa è oggi un’urgenza non solo dettata dal momento culturale moderno e post, ma è un’istanza imprescindibile per dire che il Vangelo è per l’uomo e per la pienezza della vita personale.
Occorrerà immaginare che cosa significhi questo per lo stile pastorale dei ministri del vangelo: essi devono saper dire e comunicare, attraverso ogni loro gesto pastorale, quella sapienza evangelica che è creatrice di umanità nuova, di speranza viva, di crescita della persona. Bisognerà ridare scioltezza a quei settori della vita pastorale e alla loro organizzazione pratica, rimescolando i compartimenti in cui si sono sovente cristallizzati, le azioni che spesso non intercettano quelle degli altri settori, i programmi che hanno un forte carattere autoreferenziale. Soprattutto bisogna mostrare in modo chiaro che si tratta di pensare e vivere una pastorale per l’uomo e con l’uomo, perché egli sappia di nuovo accedere alla speranza della vita risorta. La pastorale della chiesa – soprattutto quella che vuole ripensarsi in prospettiva missionaria e sta qui la “conversione pastorale” di cui si parla – è tutta protesa a dar forma cristiana alla vita quotidiana. Sì perché la vita cristiana ha senza dubbio una “forma”, spirituale ed ecclesiale, e perciò “cristica”.
Questo resta il primo e l’ultimo criterio del servizio pastorale: “dar forma” alla vita degli uomini e delle donne, perché assumano i contorni di Gesù. Come dice Papa Benedetto nell’Epilogo del discorso. «Ritorniamo così al punto da cui siamo partiti: decisivo è il nostro essere uniti a Lui, e quindi tra noi, lo stare con Lui per poter andare nel suo nome (cfr Mc 3, 13-15)». Questa può essere solo un’operazione spirituale, pensata e vissuta nello Spirito, che è capace di coniugare la vita attuale e la sequela di Cristo, la storia presente e la pasqua del Risorto, l’epoca contemporanea e la singolarità assoluta del Signore. Per questo il Discorso di Verona rimane una delle pagini memorabili del magistero di Papa Benedetto XVI.
+Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara
[*] «Un “nuovo spazio di esistenza”. Il Discorso di Verona», in R. Cutaia – M. Albergante (a cura di), Joseph Ratzinger. Il mite custode della fede. Tra verità e carità, La fontana di Siloe, Torino 2022, 9-22.