Nell’ottavo centenario dalla sua “invenzione”, è dedicato al primo presepe – fatto allestire da San Francesco a Greccio – il messaggio di auguri per il Natale 2023 del vescovo Franco Giulio a tutta la diocesi. Lo pubblichiamo di seguito, insieme al testo dell’intervento durante la Veglia per la Giornata Mondiale della Gioventù in diocesi dello scorso 25 novembre – Capaci di Speranza -, con un augurio speciale che ha voluto rivolgere proprio ai ragazzi.
Il presepe di san Francesco
ottocento anni fa a Greccio (1223-2023)
«C’era in quella contrada un uomo di nome Giovanni, di buona fama e di vita anche migliore, ed era molto caro al beato Francesco perché, pur essendo nobile e molto onorato nella sua regione, stimava più la nobiltà dello spirito che quella della carne. Circa due settimane prima della festa della Natività, il beato Francesco, come spesso faceva, lo chiamò a sé e gli disse: “Se vuoi che celebriamo a Greccio il Natale di Gesù, precedimi e prepara quanto ti dico: vorrei fare memoria del bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza della cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asino”. Appena l’ebbe ascoltato, il fedele e pio amico se ne andò sollecito ad approntare nel luogo designato tutto l’occorrente, secondo il disegno esposto dal Santo» (Tommaso da Celano, Vita Prima, n. 84).
Risale esattamente a ottocento anni fa il presepe di san Francesco. È un presepe “vivente”, secondo il racconto del primo biografo del Santo di Assisi, Tommaso da Celano. La scena della Natività era già stata rappresentata più volte. La più antica si trova nelle Catacombe di Priscilla, dipinta da un ignoto artista del III secolo. Nella tradizione bizantina la Natività di Gesù era raffigurata in una grotta, con la Vergine Maria distesa su un giaciglio, con Gesù bambino nella mangiatoia, mentre San Giuseppe era rappresentato all’esterno, in disparte. Giotto fu il primo pittore a ritrarre una Natività con sembianze naturali, nella Cappella degli Scrovegni a Padova.
Secondo il racconto di Tommaso da Celano, invece, il presepe “vivente” di Francesco non rappresenta tanto la scena della nascita, quanto l’Adorazione del Bimbo Divino. Vediamo perché? Egli fa disporre gli elementi della scena della nascita di Gesù (la greppia, il fieno, il bue e l’asino), ma non ci sono i protagonisti (Maria, Giuseppe, il Bambino e gli angeli). Egli vuole “vedere con gli occhi del corpo”, ma fa preparare una scena che mostri «i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato». Il “presepe” di Francesco è questione di sguardo! Si vede la povertà della greppia, la fragilità della paglia, la compagnia del bue e dell’asino, perché lo sguardo credente contempli il «mio Signore e mio Dio» (Gv 20,28). Si vede un infante nudo e fragile, ma si adora il Dio fatto bambino.
Continua il racconto di Tommaso da Celano: «E giunge il giorno della letizia, il tempo dell’esultanza! Per l’occasione sono qui convocati molti frati da varie parti; uomini e donne arrivano festanti dai casolari della regione, portando ciascuno secondo le sue possibilità, ceri e fiaccole per illuminare quella notte, nella quale s’accese splendida nel cielo la Stella che illuminò tutti i giorni e i tempi. Arriva alla fine Francesco: vede che tutto è predisposto secondo il suo desiderio, ed è raggiante di letizia. Ora si accomoda la greppia, vi si pone il fieno e si introducono il bue e l’asinello. In quella scena commovente risplende la semplicità evangelica, si loda la povertà, si raccomanda l’umiltà. Greccio è divenuto come una nuova Betlemme» (Tommaso da Celano, Vita Prima, 85).
La gioia e l’esultanza sono l’atmosfera del Presepe di san Francesco, in cui «s’accende splendida nel cielo la Stella che illumina tutti i giorni e i tempi». La stella illumina lo sguardo che vede nell’umiltà della greppia il Dio bambino: «Arriva alla fine Francesco: vede che tutto è predisposto secondo il suo desiderio, ed è raggiante di letizia». Il biografo commenta stupito la scena del primo presepe della storia che accoglie il Re del cielo. Egli non contempla con gli occhi del corpo il Bimbo di Betlemme, ma ne riconosce il paesaggio inconfondibile:
«In quella scena commovente risplende la semplicità evangelica, si loda la povertà, si raccomanda l’umiltà. Greccio è divenuto come una nuova Betlemme». Gli occhi di Francesco contemplano nella greppia vuota Maria, Giuseppe e Gesù bambino. Il Santo di Assisi non li vede, ma li intravede con l’emozione della meraviglia dei presenti: frati che provengono da tutte le parti, uomini e donne che arrivano festanti dai casolari, portando ceri e fiaccole per illuminare quella notte tersa di stupore.
Al termine del racconto sul presepe c’è però una sorpresa. Il presepe di Greccio non rimane vuoto come una greppia senza personaggi, ma Francesco rende visibile la Presenza per eccellenza, facendo celebrare l’Eucaristia. Il racconto di Tommaso da Celano termina, infatti, in modo inaspettato: «Questa notte è chiara come pieno giorno e dolce agli uomini e agli animali! La gente accorre e si allieta di un gaudio mai assaporato prima, davanti al nuovo mistero. La selva risuona di voci e le rupi imponenti echeggiano i cori festosi. I frati cantano scelte lodi al Signore, e la notte sembra tutta un sussulto di gioia. Il Santo è lì estatico di fronte al presepio, lo spirito vibrante di compunzione e di gaudio ineffabile. Poi il sacerdote celebra solennemente l’Eucaristia sul presepio e lui stesso assapora una consolazione mai gustata prima. Francesco si è rivestito dei paramenti diaconali perché era diacono, e canta con voce sonora il santo Vangelo: quella voce forte e dolce, limpida e sonora rapisce tutti in desideri di cielo. Poi parla al popolo e con parole dolcissime rievoca il neonato Re povero e la piccola città di Betlemme» (Tommaso da Celano, Vita Prima, 85-86).
Nessuno aveva mai osato tanto: nel volto del piccolo infante si rivela Dio che si fa bambino, ma un Dio così non può essere sequestrato, non può diventare ostaggio di dolci sentimenti e di storie melense, come nei nostri presepi moderni. Non si può “s-velare” completamente la gioia intima del “nuovo mistero”, ma va custodita sotto i veli del Dio che, «essendo ricco, si è fatto povero per noi, perché diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà» (2Cor 8,9). Sì, Dio ci arricchisce, ieri come oggi, con la sua povertà, sotto i veli del pane spezzato e del calice condiviso: è l’Eucaristia di Gesù che Francesco ha celebrato con i suoi frati e il popolo santo di Dio a Greccio nel Natale di ottocento anni fa.
Buon Natale 2023!
+ Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara
Ottavo centenario
del Presepe di Greccio
Capaci di Speranza
Veglia per la GMG diocesana
Questa sera inizio con un piccolo racconto che non so se sia conosciuto dalla vostra generazione, mentre era ben noto alla mia:
«Il santo vescovo Agostino si trovava un giorno a passeggiare lungo una spiaggia, meditando sul mistero della Trinità. Agostino allora vide un bambino che con un secchiello prendeva l’acqua del mare e la versava in una piccola buca. Il santo gli chiese cosa stesse facendo e il bambino rispose che voleva travasare tutto il mare in quella buca. Agostino disse: «Come puoi pensare di racchiudere il mare che è così grande, in una buca che è così piccola?! Il bambino a sorpresa rispose: «E tu, come puoi pensare di comprendere Dio che è infinito con la tua mente che è così limitata?!». Detto questo il bambino scomparve».
Questo apologo, che in realtà non è di sant’Agostino, ma proviene da un racconto medievale, gli fu attribuito perché collegato a una lettera apocrifa che sant’Agostino scrive al vescovo Cirillo nella quale si dice: «Agostino! Agostino che cosa cerchi? Pensi forse di mettere tutto il mare nella tua nave?» (Augustine, Augustine, quid quaeris? Putasne brevi immittere vasculo mare totum?). A partire da quest’espressione, il racconto medievale ha visualizzato il tentativo di Agostino di comprendere Dio nella scena di un bambino che compare e poi scompare. Sul mistero di Dio Trinità il dottore di Ippona ha scritto un lungo trattato intitolato De Trinitate – sulla Trinità –. È un testo imponente, composto di tanti libri che si conclude con una bellissima lode e preghiera. La comprensione piena del mistero di Dio può avvenire infatti solo nella preghiera di lode.
Il tema della Veglia di questa sera ha il titolo: “Capaci di speranza!”. Come facciamo anche noi a pensare, immaginare e sognare la speranza!? La speranza è inesauribile come la Trinità! Quanto sei capace di sperare, tu? Fino a quanto bisogna sperare? Che cosa sogni per il tuo futuro? Mi ha molto colpito, nel titolo della Veglia, la parola che introduce alla speranza, vale a dire “Capaci…”. Essa compare anche sui vostri distintivi, che alludono, ahimè, al luogo tristemente noto per una terribile strage della mafia. Stasera vi indicherò tre significati di questa espressione: “io sono capace”.
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Capaci di ricevere
Il primo significato dell’espressione “essere capace di…” non sta tanto nella spiegazione immediata, per cui essa significa che io sono in grado di fare qualcosa, come fare uno sport o qualche altra attività. “Essere capace” in prima battuta si riferisce al fatto che io sono capace in quanto posso ricevere. Indica cioè una disposizione passiva. Così come si dice, ad esempio, di un contenitore che “è capace”. Lo possiamo intuire in riferimento all’episodio di sant’Agostino, alla buca del bambino, che per contenere il mistero di Dio e il mistero della speranza deve estendersi, allargarsi, dilatarsi. All’inizio una buca fatta nella sabbia in riva al mare sembra “capace” di assorbire molta acqua, forse può raccogliere un primo e un secondo secchio, ma al terzo l’acqua già deborda. Il segreto sta proprio nel saper allargare la “capacità” di accogliere. Ciò vale per tutto e per tutti: si è capaci per come l’uno incontra l’altro, per come ci si accosta allo studio, per come si ascoltano i genitori, e, infine, per come si lascia che i genitori capiscano te. Anzitutto bisogna dilatare la nostra capacità!
A questo primo significato è legato la prima formula della lettura che abbiamo ascoltato «lieti nella speranza» (Rm 12,12). Chi osserva la nostra epoca, dice che facciamo fatica ad essere persone sciolte, liete, duttili, elastiche. Al contrario siamo rigidi, addirittura non molto accoglienti. Se fossimo come la famosa buca del bimbo di sant’Agostino, non ci entrerebbe una goccia in più, la nostra capacità di ricezione farebbe subito traboccare ciò che ci viene donato, trasmesso, richiesto! Un animo lieto rende più facile accogliere, è capace di ricevere molto di più. Occorre dilatare il nostro cuore, dilatare la nostra capacità di incontro, d’intesa, di ascolto, di prossimità, di gioia.
Non lasciatevi intristire da coloro che dicono che vi dovete preparare ad affrontare la vita armandovi di ogni difesa (l’elmetto, lo scudo, la corazza), perché il nostro mondo è ostile e minaccioso e l’ingresso nel mondo sarà duro. Ho visto che i ragazzi e i giovani che vogliono riuscire, se si immergono con scioltezza nel tempo attuale, vincono la partita. Anche per la semplice ragione che fisicamente siete ancora tonici, con le arterie che pulsano bene, e portate tante energie che non vanno sciupate. Ecco, dunque, il significato passivo dell’“essere capace”: devo dilatare la mia capacità di ricevere, senza accanirmi nel voler far entrare troppa acqua in una buca troppo piccola. La prima cosa da fare è dilatare il desiderio! Pensate che i medievali dicevano, forse proprio a partire da Agostino, che l’uomo è capax Dei, è capace di ricevere Dio. Questa recettività non indica una prestazione dell’uomo, ma la profondità del suo desiderio, definisce l’essere stesso dell’uomo e della donna di fronte al suo destino. L’uomo è “capace di Dio”!
La “spia verde” che dilata tale capacità è l’essere lieti, che non si riferisce tanto all’allegria spensierata, ma alla vera letizia, come quella che ha saputo vivere in pienezza san Francesco. In quest’anno tutti saremo invitati a fare il presepe, perché ricorrono gli ottocento anni dacché san Francesco “inventò” il presepe! Ma cosa fece preparare san Francesco al nobiluomo Giovanni per “allestire” il suo presepe a Greccio? Documentandomi come ho l’abitudine di fare, ho letto che Francesco fece chiamare il nobile Giovanni e gli ordinò di preparare la greppia, il fieno e il bue e l’asino. Il presepe vivente di Francesco, contrariamente a quanto potremmo pensare, non prevedeva né la presenza di Maria, né di Giuseppe, né del Bambino, né dei pastori e neppure degli Angeli. Ne parla dettagliatamente al n. 85 la Vita prima di Francesco d’Assisi, scritta di Tommaso da Celano, in cui si narra che il Santo in tal modo volle vedere con gli occhi del corpo cosa accade «a un bambino che viene al mondo quando intorno gli manca l’essenziale per la nascita»: la greppia, la paglia, il bue e l’asino. Francesco predispose soprattutto la capacità di accogliere e questo vale non solo a Natale.
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Capaci di agire
Il secondo significato dell’“essere capace di…” afferma: “sono in grado di…”, più semplicemente “io posso”. Io posso, cioè sono nella condizione di fare qualcosa: scalare una montagna, viaggiare, partire domattina per una meta, costruire, ecc. Per suscitare la speranza, dopo aver dilatato la nostra capacità di ricevere, dobbiamo metterci in gioco, dobbiamo dire e dirci: “io posso”. Addirittura, prima di capire, anzi proprio per conoscere, è molto importante buttarsi, mettersi in gioco, sfidare la realtà. La speranza è una dimensione che all’inizio va attesa passivamente, è ciò che ci viene incontro, ma questa attesa non è un tempo vuoto da ammazzare, bensì è un ad-ventus – il tempo dell’attesa – è un tempo da riempire di opere, dalla più semplice, alla più geniale – e voi giovani dove fidarvi della vostra genialità! – con l’intento e il proposito buono per cui potete dire «io posso fare questa cosa!».
Nella lettura che abbiamo ascoltato l’“io posso” va ritrovato nell’affermazione di san Paolo: «costanti nella tribolazione» (Rm 2,12a), cioè dobbiamo essere resistenti, non cedere alla prima difficoltà, non lasciarci intimorire. Voi potete e dovete dire “…io posso!”, perché dovete essere costanti nella tribolazione. Così è il cristiano: resistente nella tribolazione. È l’atteggiamento di colui che non sta lì ad aspettare, si mette realmente in gioco, nello studio, nel proprio dovere, ma anche nelle relazioni, nel fare qualcosa per gli altri, in oratorio, nella scuola, nel volontariato.
Proprio perché abbiamo dilatato la nostra capacità, il potere di agire diventa più forte. È molto importante che i ragazzi e le ragazze della speranza siano capaci di rischiare. Viviamo al contrario in una società che non rischia più, che è solo lì ad aspettare di sentire qualcosa, nel senso di provare qualche brivido o emozione, spesso solo superficiale. Invece se uno si butta avrà la soddisfazione di aver intrapreso un’opera. Piccola o grande, non importa. Non c’è soddisfazione più grande, di aver fatto un’opera di cui potersi compiacere: «Guarda, sono stato bravo!». Anche se questa consapevolezza va tenuta per sé, perché basta la soddisfazione personale. Come mia testimonianza personale posso ricordare che le esperienze più belle sono state quelle che non erano richieste, nell’insegnamento, nelle conferenze, nel buttarmi con i giovani, nella bellezza del sapere, ecc. Se uno non si butta, cosa potrà attendersi come ritorno?! Certo non un ritorno interessato, ma ciò che riceviamo dall’”io posso” è la costruzione della nostra identità! In conclusione, il secondo significato della parola “capace” è “avere il potere di…”, “io posso”.
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Capaci di raccontare
Il terzo significato che possiamo dare all’essere “capaci di speranza” è “io racconto”. È una sottolineatura a cui tengo molto, tanto che anche nel mio motto episcopale in latino richiamo proprio questo: Loquamur Dominum Jesum! – “Raccontiamo il Signore Gesù”. Il Signore Gesù non è un oggetto di cui raccontare come si parla di un tema, perché in latino vi sarebbe un complemento di argomento (de più l’ablativo). Invece il testo tratto da sant’Ambrogio usa l’accusativo: “parliamo, raccontiamo il Signore Gesù!”: non parliamo “del Signore Gesù”, ma “il Signore Gesù!”. Possiamo raccontare il Signore Gesù, solo se parliamo con Lui! Si può narrare il Signore, solo se con Lui avviene un incontro vivo, solo se è un’esperienza che ti tocca il cuore, come accade per te quando incontri il ragazzo o la ragazza della tua vita!
Dobbiamo dunque “essere capaci di raccontare” la nostra fede, le nostre gioie, le nostre fatiche. Una parola, una sofferenza, una gioia detta, non solo è già condivisa, ma è già messa davanti a noi, non ci travolge più, non ci mette in ansia, ma la guardiamo alla giusta distanza. Negli anni 2020, 2021 e 2022, durante la pandemia da Covid-19, ho insistito molto sul fatto di poter raccontare anche le fatiche di quel periodo, soprattutto da parte di quei ragazzi e ragazze che erano nelle fasi di passaggio tra la terza media e la prima superiore, o fra l’ultimo anno della scuola superiore e il primo anno di università o di lavoro! Chiusi in casa, alcuni hanno perso due anni cruciali! Ad esempio, chi è andato all’università per la prima volta nel 2022 non sa cosa significhi “fare la matricola”. E le matricole, che sono subentrate l’anno dopo, hanno sorpassato e travolto le precedenti.
Dobbiamo raccontare anche le nostre ansie, le nostre paure, i nostri sogni frustrati e le nostre attese vane. Non c’è speranza che non elabori le ansie e le paure. Ecco il terzo verbo che desumiamo dalla lettura: «perseveranti nella preghiera!» (Rm 12,12b). La preghiera è la forma più alta del racconto, perché non parla di Dio, ma parla con Dio. Un famoso autore italiano che va per la maggiore, psicanalista, nel suo libro sulla figura del padre, già nelle prime pagine ha scritto che a un certo punto, vedendo crescere i suoi figli, si è chiesto se dovesse insegnare loro a pregare. Egli da bambino aveva ricevuto questo dono da sua madre, ma poi da adulto e da professore aveva smesso di pregare. Ebbene a un certo punto ha compreso che doveva insegnare ai suoi figli a pregare, perché – come ha scritto – se uno non sa pregare, non è capace neppure di rispettare l’altro, non lo riconosce e preserva nella sua alterità. Dalla cronaca di questi giorni, dovremo dire che chi non rispetta le ragazze, le donne, non è attento alle fatiche degli altri e delle altre. Non è capace di tirar fuori dal suo cuore la preghiera che in qualche modo racconta la sua vita, la fa crescere, le dà ossigeno. La capacità di preghiera è l’ossigeno della vita. Solo così, dunque, si è capaci di perseveranza.
Il testo greco dice ὑπομένοντες/hupoménontes e significa stare sotto a portare la fatica della vita, allude a colui che è robusto e riesce a sostenere, con le sue spalle forti, chi gli sta accanto. Anche nel rapporto tra amici vi do questo consiglio: fatevi amici coloro che sono capaci, disponibili, pronti a portare voi, a sostenervi, con la loro spalla resistente. Cercate persone forti interiormente, belle e stimolanti. Magari non appare subit questa loro indole, perché sono riservate o un po’ intimiste, ma fatevi amici coloro che sono interiormente ricchi anche se non ostentano questa loro attitudine. Coloro che ostentano molto o troppo di sé, hanno qualcosa che non va, perché mettono tutto in mostra. Nelle vetrine della moda di Milano, negli anni in cui transitavo per quelle vie, ho sempre notato che era esposto un solo capo di abbigliamento o di preziosi, ma ben presentato e allestito in modo tale che ti invogliava ad entrare e vedere tutto il resto! Dovrete essere persone/vetrina, ma che hanno il pudore di non esporre tutto, di farsi cercare, essere desiderati, capaci di raccontarsi, di parlare per crescere insieme. Così sarete persone perseveranti, forti!
Capace di speranza significa, allora, “io ricevo”, dunque sono lieto; capace di speranza, significa “io posso”, dunque sono costante; capace di speranza significa “io racconto”, dunque sono perseverante. Il racconto del bambino di sant’Agostino è stato raffigurato in un dipinto di Filippo Lippi, nel quale però si vede che Sant’Agostino tira fuori l’acqua da un ruscello, non dal mare. Volete provare anche voi a prendere l’acqua dal mare per riempire il vostro io?!
Cari amici, la vostra speranza consisterà nel dilatare il vostro cuore, mettervi in gioco nell’agire buono e aprirvi al racconto nel dialogo, nell’attenzione, nella parola rivolta all’altro e, soprattutto, a quell’Altro che ha il volto di Gesù. Siamone certi: Lui è sempre pronto ad ascoltarci. Voi siete capaci qualche volta di rivolgervi al Signore, di pregare bene, come se fosse lì presente in carne ossa?! Sarà la sorpresa del Presepe di san Francesco, così come egli lo ha fatto preparare. Faccio solo un accenno al suo finale a sorpresa. A Natale invito voi stessi a leggere il racconto di Tommaso da Celano. Buon Natale, ottocento anni dopo il presepe di Greccio!!!