L’indice puntato in alto. Omelia nella Domenica delle Palme

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Domenica 13 aprile, il vescovo Franco Giulio ha celebrato in cattedrale la messa nella Domenica delle Palme. Di seguito pubblichiamo, integrale, il testo della sua omelia.

 

L’indice puntato in alto

Nella Domenica delle Palme, in cui si celebra la Passione del Signore, quest’anno liturgico ci fa leggere il racconto della Passione secondo l’evangelista Luca. Il sommo poeta Dante definì san Luca “lo scriba e il cantore della misericordia di Dio” (scriba mansuetudinis Christi) ed è quanto abbiamo potuto ascoltare anche oggi dalle espressioni del Vangelo, tutte impregnate dal grande tema della misericordia di Dio!


L’INDICE PUNTATO IN ALTO
Omelia per la Domenica delle Palme 2025
13-04-2025 Download


Al termine del racconto v’è una strana annotazione che non ricorre negli altri Evangelisti. Si dice:

«Visto ciò che era accaduto, il centurione dava gloria a Dio dicendo: «Veramente quest’uomo era giusto». Così pure tutta la folla che era venuta a vedere questo spettacolo» (Lc 23, 47 -48a).

Sono parole che qui appaiono profetiche, dato che nella nostra cattedrale c’è più gente oggi di quanta probabilmente ne vedremo nel giorno di Pasqua, tanto più attirata dal desiderio di portarsi a casa un ramoscello d’ulivo, quasi fosse un gadget, speriamo con un ricordo benedetto di questo giorno!

Nella liturgia romana, tuttavia c’è un evidente contrasto. Innanzitutto, la festosità del corteo che accompagna Gesù al suo ingresso in Gerusalemme rappresentato dalla scena che è riprodotta nel riquadro (qui nello stendardo sul pulpito della cattedrale ), – nella foto in questa pagina ndr.- il cui autore è Gaudenzio Ferrari. L’originale si trova sulla Parete Gaudenziana (1513) nella chiesa della Madonna delle Grazie a Varallo, realizzata più di cinquecento anni fa …

Faccio notare un particolare a voi bambini e ragazzi che siete seduti qui davanti: guardate il numero delle zampe dell’asina su cui sta Gesù, ne conterete addirittura sei! Certamente può sembrare una stranezza, ma il pittore ha voluto farci intuire che dietro all’asina (cfr. Zc 9,9) cavalcata da Gesù c’è anche il suo piccolo, un altro asinello, un puledro…

Anche noi abbiamo ripetuto lo stesso gesto festoso all’inizio della nostra celebrazione, venendo dal battistero alla cattedrale, facendo festa e acclamando Gesù. Oggi sono presenti le famiglie di questi bambini, i genitori, i nonni e tutti gli altri a vedere questo spettacolo come ci ha detto appunto la Sacra Scrittura.

Un altro particolare del dipinto è rappresentato dalla mano destra di Gesù che si trova esattamente al centro della scena. La mano è collocata proprio sull’asse centrale della scena e con l’indice Gesù indica l’alto, quasi a suggerirci che Egli non è come gli altri re verso i quali di solito le folle agitano rami di palma e di ulivo, ma propriamente Gesù con quel segno intende dirci che egli non è un re di questo mondo. Il Signore indica l’alto, il cielo, perché è un re di un altro mondo.

Gesù stesso davanti a Pilato alla domanda sulla sua vera identità risponderà: «“Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù”. Allora Pilato gli disse: “Dunque tu sei re?”. Rispose Gesù: “Tu lo dici: io sono re”». (Gv 17, 36-37)

Ecco, dunque, il giorno delle Palme, la domenica prima di Pasqua, celebriamo il momento nel quale vediamo Gesù acclamato dalla folla. Questa memoria però ci indica che il suo corteo, il suo percorso in mezzo a noi, non deve essere considerato un corteo di esaltazione, seppure abbiamo acclamato come gli abitanti di Gerusalemme: «Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore!» (Lc 19,38a), ma Gesù viene indicandoci con il dito l’alto, cioè Dio. Gesù, come dice il grande teologo K. Barth, è il “Signore che si fa servo”. È quanto abbiamo udito proclamare nella seconda lettura (Fil 2,6-11): «Cristo Gesù pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo» (Fil 2,6-7a).

Dobbiamo considerare che anche noi, con tutti i nostri legami che qualche volta ci schiavizzano, e ci fanno essere un po’ servili, possiamo e dobbiamo diventare liberi. Dopo duemila anni, nessuno di noi avrebbe il coraggio di dire che non siamo liberi. Tuttavia, una tale libertà, diffusa nelle società occidentali, è prevalentemente una “libertà da…” e non corrisponde alla “libertà di…”, vale a dire una libertà effettivamente praticata e vissuta. Esistono tante malattie della libertà, presenti nelle nostre società, che si traducono nelle varie dipendenze, come l’alcolismo, la tossicodipendenza, la ludopatia. Poi ci sono coloro che faticano a studiare, a trovare lavoro, che hanno situazioni familiari difficili, o abbandonano la scuola. Ieri sera durante la Veglia dei Giovani ad Arona ho citato un rapporto, già di due anni fa, nel 2023, uscito sui giornali e che diceva che a fine ottobre – e l’anno non era ancora finito – solo all’ospedale del Bambino Gesù di Roma a quella data si erano presentati 145 casi di tentato suicidio di adolescenti. È una notizia raccapricciante!

Possiamo, dunque, riconoscere che Gesù nel suo modo di essere Signore assume la condizione di servo, vale a dire la nostra umanità, cammina in mezzo a noi, portando con sé gli altri, entra nel cammino di chi è ferito e piagato. Entra in tal modo nella Settimana Santa, che si apre davanti a noi.

Aggiungo un ulteriore aspetto che in questo anno non può essere tralasciato. La nostra Settimana Santa si inserisce nel Giubileo del 2025, il primo giubileo ordinario del III millennio! Come ho appena ricordato, ieri sera ho vissuto ad Arona la Veglia delle Palme con tanti giovani della Diocesi e ho ricordato loro che il Giubileo capita ogni 25 anni con un preciso significato. Il primo Giubileo del 1300 era stato stabilito che fosse celebrato ogni 100 anni, alla scadenza del secolo (centesimus). In seguito, nel 1450 il papa del tempo stabilì che fosse ogni 50 anni, infine divenne venticinquennale.

Perché allora ogni 25 anni? Perché è pressappoco la durata di una generazione. Infatti, ieri sera chiedendo ai giovani quanti fossero nati dopo l’anno 2000, s’è visto che erano la quasi totalità. E così anche al termine, quando ci siamo salutati con qualche foto o qualche selfie, ho voluto chiedere a molti quanti anni avranno in occasione del prossimo giubileo, tra venticinque anni, e rispondendo v’era chi ha detto 38, chi 45, chi 49 anni. Riguardo a me, il conto risulta semplice essendo stato ordinato prete nel 1975, le ricorrenze del mio ministero cadono secondo con i giubilei ordinari (il venticinquesimo nell’anno 2000 e in questo anno il cinquantesimo). Essi rappresentano le tre grandi stagioni della vita: i primi venticinque anni, quando si diventa grandi, poi i 50 anni quando si vive da adulti e a 75 anni quando si comincia a declinare.

In quest’anno straordinario, la Settimana Santa dovrà essere quel momento nel quale siamo invitati a vivere e comprendere in modo singolare il senso del Giubileo. Con un’espressione semplice, la stessa con cui ho concluso l’incontro e la mia riflessione ieri sera ai giovani, ma anche agli adulti della diocesi: ogni 25 anni ci è concessa l’opportunità, l’occasione, la possibilità di compiere un coraggioso salto di qualità. Nel nostro linguaggio attuale possiamo esprimerlo aiutati da un’espressione di papa Benedetto XVI che mi ha sempre colpito e che diceva così: «Ogni uomo e ogni donna, come ogni giovane, ragazza e ragazzo, che viene al mondo, deve avere la possibilità di giocare da capo la partita della vita!»

Ecco: il Giubileo ordinario del 2025 dovrà essere l’anno nel quale ognuno di noi, con i suoi venticinque anni, cinquanta o anche settantacinque, possa ancora giocare da capo la partita della propria vita! Ognuno conti e valuti bene i suoi anni e dica con le parole del salmo: «Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore» (Sal 89/90,12).

+ Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara