Polittico pasquale: omelie della Domenica delle Palme e del Triduo pasquale

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Cinque meditazioni, cinque scorci che come in un polittico compongono la scena della morte e risurrezione di Gesù. Li ha proposti mons. Franco Giulio Brambilla nelle omelie delle celebrazioni della Settimana Santa in Cattedrale che pubblichiamo insieme, integralmente.


Polittico pasquale
Omelie della Domenica delle Palme e del Triduo pasquale
21-04-2019
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Un percorso per incontrare l’Amore più grande, che abita il mistero della risurrezione e ne fa un fatto presente e vivo, trasformando il cuore degli uomini e rinnovando, quasi in una dinamica evolutiva, la società, la cultura, il modo di sentire e i valori fondanti la nostra concezione del mondo. In un movimento che ha corso lungo la direttrice  degli sguardi: quello semplice e pieno di trasporto verso la Passione di Gesù della piccola Asia (protagonista di un aneddoto raccontatogli da un sacerdote della Valsesia), quello delle donne al sepolcro vuoto e dei discepoli di fronte al sudario; e quello di Cristo sul dolore straziato della madre ai piedi della croce, che fissiamo in un particolare della Parete gaudenziana, icona-simbolo di questo polittico.

Varallo, Parete gaudenziana, particolare delle donne sotto la croce

L’omelia che apre il ciclo è quella della Domenica delle Palme, nella quale il vescovo, con le prime tre,  inizia la riflessione sulle sette espressioni di Gesù sulla Croce, che completerà poi nella sera del Venerdì Santo.

Poi, quella del Giovedì Santo,  dedicata in particolare ai bambini della prima comunione della parrocchie unite di Novara centro, che hanno partecipato al rito della lavanda dei piedi. A loro, il vescovo ha proposto una spiegazione dei simboli del sangue e dell’acqua: « Il sangue che ci trasforma e l’acqua che ci purifica».

La terza, quella del Venerdì Santo, ha ripreso, con le ultime quattro, la meditazione sulle parole di Gesù sulla Croce.

Nell’omelia nella Veglia Pasquale il vescovo ha commentato un’omelia di Benedetto XVI nella Notte Santa del 2006, arrivando al cuore del significato della risurrezione, alla sua forza trasformante per il cuore dell’uomo e per tutto il mondo.

Infine, nella messa del giorno di Pasqua, mons. Brambilla ha continuato la riflessione sul significato sconvolgente della risurrezione, in una meditazione che ha puntato lo sguardo sui Vangeli partendo dal commento alla Sequenza pasquale proposta dalla liturgia.

Di seguito, tutti e cinque i testi.


POLITTICO PASQUALE
Omelie della Domenica delle Palme e del Triduo pasquale
del Vescovo di Novara, mons. Franco Giulio Brambilla

18 – 21 aprile 2019, Chiesa Cattedrale di Novara

 

DOMENICA DELLE PALME
Entrata in Gerusalemme

La celebrazione della Domenica delle Palme ha al centro il racconto della Passione che quest’anno ascoltiamo secondo il Vangelo di Luca. Tuttavia per la nostra meditazione di oggi, e per entrare attraverso il grande portale della Settimana Santa, riprendo con voi una piccola espressione dal Vangelo che abbiamo ascoltato nel quadriportico, perché attraverso di essa (Lc 19,28-40) ci viene indicato l’atteggiamento di fondo, la disposizione del cuore, l’attenzione con cui entrare proprio in questa Santa Settimana.

I discepoli, mandati da Gesù, vanno da un uomo che possiede un puledro, utile a Gesù per entrare in Gerusalemme. Gesù usa un’espressione semplice, che capite anche voi ragazzi: “il Signore ne ha bisogno” (L c 19, 31b). È interessante notare che l’espressione viene ripetuta di fronte al proprietario del puledro: “il Signore ne ha bisogno” (Lc 19,34).

Potremmo dire che questo è l’atteggiamento con il quale entrare in questa settimana santa: il Signore ha bisogno di noi per camminare davanti a noi, ci precede nel cammino della Passione per giungere alla Resurrezione. Vuole avere bisogno di noi. Noi lo seguiamo però lui non vuole camminare da solo, ma vuole coinvolgere, trascinare anche noi.

Per segnare alcuni piccoli passi del suo coinvolgerci, e del nostro lasciarci trascinare, lasciarci condurre dentro la Passione, citerò solo tre piccole espressioni, molto famose nel Vangelo, che, nel racconto della Passione secondo Luca che abbiamo ascoltato (Lc 23,1-23,50), vengono messe in bocca proprio a Gesù.

È risaputo che mettendo insieme tutte le parole che Gesù ha detto sulla croce, si contano sette espressioni ([1]) e che tutta la tradizione meditativa, ma non solo, per esempio anche quella musicale, ha commentato e musicato. Tre sono contenute nel Vangelo di Luca che abbiamo appena letto: sono bellissime e ci dicono l’atteggiamento con cui vivere ed entrare in questa settimana.

 

1. La prima è la più famosa. Dice: “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34). Sulla croce, Gesù, quando ci guarda, il suo primo pensiero è di scrutare il nostro cuore, di rivolgersi agli uomini che l’hanno messo in croce e che continuano a metterlo in croce, in ogni epoca della storia. Egli dice questa espressione, che non è solo un modo di dire “innocentista” – “non sanno quello che fanno” – ma è un’espressione che ci suggerisce di guardare a ciò che facciamo. In ciò che facciamo, infatti, spesso c’è un elemento inconsapevole – “non sanno” – in cui noi nella fretta del fare, dell’apparire, di essere persone che magari contano, talvolta inciampiamo e facciamo danni, non solo al Signore, ma anche agli altri che sono intorno a noi.

Ecco allora che questa prima parola di Gesù sulla croce, è una parola di accoglienza, di perdono. Perdono è inteso come iper-dono, come un dono al quadrato, rivolto proprio verso ciascuno di noi: Gesù ci dice che vuole perdonarci, anche per quando non sappiamo cosa facciamo.

 

2. La seconda parola è solo del Vangelo di Luca, ed è connotata da un termine di tempo, detta da Gesù al buon ladrone: “In verità, in verità ti dico: oggi sarai con me in paradiso!” (Lc 23,43) Questo “oggi” è una specie di filo rosso nel Vangelo di Luca:

  • si trova nel Natale. “Oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore” (Lc 2,11);
  • si trova nella prima predica di Gesù nella sinagoga di Nazareth: “Allora cominciò a dire loro: «Oggisi è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,21);
  • si trova in occasione della guarigione di un paralitico calato dal tetto a causa della folla: “Tutti furono colti da stupore e davano gloria a Dio; pieni di timore dicevano: «Oggiabbiamo visto cose prodigiose» (Lc 5,26);
  • si trova due volte nell’episodio finale che riassume tutti gli incontri di Gesù, l’incontro con Zaccheo. Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zaccheo, scendi subito, perché oggidevo fermarmi a casa tua»(…) Gesù gli rispose: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. (Lc 19,5.9);
  • lo troviamo due volte anche nel momento del tradimento di Pietro: “Gli rispose: «Pietro, io ti dico: oggiil gallo non canterà prima che tu, per tre volte, abbia negato di conoscermi» (…) Allora il Signore si voltò e fissò lo sguardo su Pietro, e Pietro si ricordò della parola che il Signore gli aveva detto: «Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte». (Lc 22,34.61)
  • e, finalmente, come abbiamo ascoltato prima nel racconto della Passione, lo troviamo nel momento in cui dalla croce Gesù dice al buon ladrone: «In verità io ti dico: oggicon me sarai nel paradiso»

C’è un “oggi” che non è l’anno scorso, e che non è il prossimo anno, ma che è questo anno 2019, nel quale ci viene detto che oggi devi essere con me, camminare con me per entrare nel paradiso. Quindi a questo “oggi” dovremmo dedicare in questa settimana un po’ di tempo per la preghiera, per la confessione, per la carità, perché possiamo entrare veramente con Lui nella Pasqua.

La tradizione dice che è rivolta al “buon” ladrone e tutta l’iconografia ce lo rappresenta – così come si vede ad esempio dipinto sulla parete gaudenziana a Varallo, o scolpito a mano nella cappella trentottesima del Sacro Monte, da Gaudenzio Ferrari – con una bellezza incomparabile!

 

3. L’ultima parola è una parola di fiducia. La diciamo per tutti coloro che portano nel cuore una fatica, una sofferenza, una malattia, un dolore, una separazione, una lontananza. Ognuno di noi, nelle nostre famiglie, vive qualcuna di tali situazioni.

Al contrario di quanto vediamo nelle trasmissioni televisive, anche se guardassimo la TV per un giorno intero: ci accorgeremmo che non si parla mai di questo. Lì non sono previsti il dolore, la fatica, la sofferenza, e ancor meno la vecchiaia!

La terza Parola di Gesù dice: “Padre nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46). È la parola di fiducia radicale di Gesù. Nel Vangelo di Giovanni c’è “tutto è compiuto” (Gv 19,30), che assomiglia molto a questa.

È, per noi, la parola di consegna di se stessi al Signore Gesù, nella fatica, nella sofferenza, a volte nella disperazione. In questo ultimo mese mi è capitato di dover scrivere un testo per riflettere sulle nuove povertà spirituali della nostra società del benessere e dei consumi. Ne ho individuate almeno nove: 1) dipendenza da droga, 2) dipendenza da (video)gioco, 3) abbandono scolastico, 4) forme di depressione, 5) il pianeta “neet”, 6) il cyberbullismo, 7) le famiglie disastrate, 8) femminicidio e violenza sui minori, e, infine, 9) il suicidio! Non abbiamo statistiche su queste forme tentacolari di sofferenza, ma noi dobbiamo mettere tutta questa sofferenza nel cuore del Signore in questa settimana, per ascoltare da Lui questa parola semplice, ma forse la più profonda di tutta la nostra vita e di tutto il nostro linguaggio: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”!

***

[1] Le sette espressioni sono dettagliatamente: dal Vangelo di Luca: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno” (23,34); “In verità io ti dico: oggi sarai con me nel paradiso” (23,43); “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46); dal Vangelo di Marco: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (15,34); dal Vangelo di Giovanni: “Donna, ecco tuo figlio! Ecco tua madre!” (19,26.27); “Ho sete” (19,28); “Tutto è compiuto” (19,30).


 

GIOVEDÌ SANTO
Cena del Signore

Cari ragazzi delle prima comunione, carissimi fratelli, in questi giorni arrivano molti messaggi di auguri pasquali. Soprattutto oggi con le nuove tecniche in certo modo tutti si sbizzarriscono a mandare i messaggi più disparati. Oggi ho ricevuto un messaggino piuttosto lungo, di un giovane sacerdote di una parrocchia all’inizio della Valsesia, il quale diceva di essere stato molto impressionato dal fatto che martedì è venuta una bambina di 6 anni, di nome Asia, con la sua mamma. Cosa è successo a questa bambina? Domenica scorsa aveva ascoltato il racconto della passione di Gesù secondo Luca. Era andata poi a casa e nel pomeriggio ha cominciato a piangere fino a sera perché, come diceva, era rimasta molto impressionata del male che hanno fatto a Gesù. La mamma, non sapendo che fare, l’ha portata da questo bravo sacerdote che ha cercato, a sua volta, di consolarla. Alla fine la bambina, per quanto abbia smesso di piangere, ha sorpreso di nuovo tutti dicendo: “Io ora, però, voglio andare in fretta in cielo, perché voglio consolare Gesù!”. Ecco! Ci vogliono i bambini come Asia, senza le nostre difese da adulti, senza il nostro “già saputo”, per intuire il punto incandescente della Pasqua e, in particolare, il senso di questa sera!

È ancora un bambino, infatti, il protagonista del rito della cena pasquale ebraica, la quale si celebra in casa, così come l’abbiamo sentita raccontare nella prima lettura tratta dal libro dell’Esodo (Es 12, 1-8.11-14). È la Haggadah pasquale. È il racconto del capitolo 12 dell’Esodo, elaborato e allargato in una grande narrazione. In una bella sala della casa – la Pasqua, la Pentecoste, la festa delle Capanne, che termina con il grande giorno del kippur, sono tutte feste domestichecon la tavola imbandita, le erbe amare, il charoset, l’uovo, il pane azimo e l’agnello, per dar inizio al racconto tocca al bambino più piccolo porre la domanda che dà avvio alla liturgia. Il bambino più piccolo, infatti, inizia il rito con una domanda che in certo modo mi richiama la domanda della piccola bambina che abbiamo ascoltato prima: “cosa è mai questa festa che stiamo celebrando?”. A partire da questa domanda il padre di famiglia inizia a raccontare tutta la Haggadah pasquale, il racconto della Pasqua. Vi sono due elementi che ritornano, sia nelle letture che abbiamo ascoltato, sia nel racconto pasquale e sono il sangue e l’acqua.

  1. Anzitutto il sangue: viene preso il sangue dell’Agnello e con questo sono segnati gli stipiti delle porte per cui l’angelo passa oltre. Infatti la parola Pasqua, Pèsach(in ebraico פסח), significa esattamente questo: “passare oltre”. Così davanti alle porte degli ebrei, segnate col sangue dell’Agnello, l’angelo sterminatore passò oltre… Riascoltiamo il testo:

“In quella notte io passerò per la terra d’Egitto e colpirò ogni primogenito nella terra d’Egitto, uomo o animale; così farò giustizia di tutti gli dèi dell’Egitto. Io sono il Signore! Il sangue sulle case dove vi troverete servirà da segno in vostro favore: io vedrò il sangue e passerò oltre; non vi sarà tra voi flagello di sterminio quando io colpirò la terra d’Egitto”. (Es 2, 12-13)

Dunque c’è il sangue: quello per cui la bambina Asia voleva consolare Gesù, è il sangue che ci salva! Il sangue per sé non è una cosa che salva, perché il sangue, quando è versato, indica che è stata usata violenza, ma Gesù offre il suo sangue per noi. Il suo sangue è stato versato da altri, perché Gesù viene messo a morte da altri, dagli uomini, dai sommi sacerdoti, dagli scribi, dalla folla, ma Gesù diventa capace di subire e di patire quanto ha sofferto e patito, per offrirlo per noi! Tutta la storia è attraversata da questo gesto di Gesù, ciò che egli patisce diventa qualcosa che è capace di trasformare! Se il sangue è il segno della violenza, Gesù lo scioglie per così dire dal di dentro, lo fa diventare il segno dell’amore, il segno della salvezza, il segno della prossimità, il segno della vicinanza.

  1. Questo segno è poi arricchito con l’altro elemento, l’acqua. Lo prendiamo dal racconto che abbiamo ascoltato dal Vangelo di Giovanni. Il capitolo 13 del Vangelo di Giovanni ha un inizio solenne:

“Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine”. (Gv 13,1)

La traduzione italiana non riesce a rendere il doppio significato del termine “fine”. Il testo greco infatti dice “li amò fino al(la) fine” (εἰς τέλος ἠγάπησεν αὐτούς). Tέλος non indica solo la fine, ma anche il fine, il punto al di là del quale non si riesce ad andare, l’amore più grande, oltre il quale non c’è nessun altro amore, perché è un amore che viene donato anche quando noi lo rifiutiamo.

L’amore che celebriamo questa sera non è un amore vago, un facile sentimento, ma rimane tale anche quando noi lo rifiutiamo! Già in altri anni ho commentato la Cena di Leonardo che è pure riprodotta qui in cattedrale, addirittura in rilievo, sotto la mensa del grande altare antonelliano, dove è bello notare che Giovanni non ha il capo reclinato sul cuore del Maestro, ma Gesù è al centro, iscritto in una sorta di triangolo, da solo, ma con le mani sembra, da una parte, prendere il boccone di pane da dare a Giuda, e dall’altra, con la mano aperta offre la sua vita, proprio mentre dà quel boccone di pane a Giuda che lo tradisce! Una pia e suggestiva leggenda narra che quando Leonardo cercava i volti per raffigurare Giuda e Gesù, dapprima individuò un personaggio per Gesù e, tempo dopo, lo stesso, che si era così depravato e imbruttito, gli servì per raffigurare Giuda!

Ed ecco allora il secondo segno, l’acqua.

Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo, Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli (Gv 13, 2-5a)

Si vede bene questa scena anche nel quadro di Gaudenzio Ferrari riprodotto qui in cattedrale. È da notare il gioco delle mani di Gesù che tiene in mano i piedi di Pietro, il quale non vuole che Gesù gli lavi i piedi: «Tu non mi laverai i piedi in eterno!» (Gv 13,8), ma poi quando Gesù ribatte, allora Pietro con il solito slancio dice «Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!». Gesù però rimarca che bastano i piedi! La lavanda dei piedi infatti era il gesto dell’accoglienza per chi arrivava in una casa, da lontano. Nell’accoglierlo gli era data la possibilità di lavarsi almeno i piedi, dato che camminando a piedi scalzi, molta era la fatica e tanta la polvere…

 

  1. Questi sono i due segni e anche i due elementi che Gesù ci lascia, il sangue e l’acqua. Il sangue che ci trasforma e l’acqua che ci purifica. Questa sera anche noi dobbiamo guardare e ascoltare i gesti che vediamo col cuore della bambina Asia, di cui ho parlato all’inizio. Però la conclusione della storia è diversa: noi non dobbiamo fare come Asia che voleva andare subito in cielo per consolare Gesù. Infatti è Lui che per primo è già sceso e si fatto vicino a noi! È Lui che si avvicina a noi per darci la sua consolazione!

 

 


VENERDÌ SANTO
Passione del Signore

 

La Liturgia romana nella Settimana Santa legge e proclama due racconti della Passione: nella Domenica delle Palme, sceglie uno dei Sinottici, secondo l’anno, alternativamente A B C, e in questo anno, domenica scorsa, è stata proclamata la Passione secondo Luca; invece il Venerdì Santo si legge sempre la Passione secondo Giovanni.

La tradizione, come ho sottolineato domenica scorsa, ha raccolto sette parole, messe sulla bocca Gesù in croce, tre provengono dal Vangelo di Luca (Lc 23,34.43.46); tre dal Vangelo di Giovanni (Gv 19,26.27.28.30), e una proviene dal Vangelo di Matteo e di Marco (Mc 15,34; Mt 27,46).

Le espressioni di Luca, che ho commentato domenica scorsa, si collocano al primo, al secondo e all’ultimo posto, “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno”; poi, al buon ladrone “In verità ti dico: oggi tu sarai con me in paradiso” e come ultima parola: “Padre nelle tue mani consegno il mio spirito!”

Oggi commentiamo brevemente le ultime quattro parole di Gesù sulla croce, l’una derivante dal vangelo di Marco e di Matteo, e poi le tre che abbiamo ascoltato nel racconto di questa sera dal vangelo di Giovanni.

  1. La parola che proviene da Marco è l’unica che l’evangelista Marco fa dire a Gesù sulla croce, è quella più drammatica ed è ben conosciuta, anche nella forma latina, che richiama l’ebraico:

«Elì, Elì, lemà sabactàni?» – «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato

È l’inizio del salmo 21(22) secondo la versione in ebraico o in greco. È la parola più drammatica! È impressionante, perché c’è una grande discussione tra gli esegeti se Gesù citi solo l’inizio del salmo, o, secondo la consuetudine ebraica, quando si prega l’inizio, s’intende il senso di tutto il salmo, che termina peraltro con una specie di richiamo alla resurrezione.

Occorre tuttavia dire che il versetto del salmo, che Gesù proclama, indica che probabilmente Gesù stava pregando il salmo e lo stava recitando per intero (è il salmo del giusto sofferente). Tuttavia, ugualmente il senso è mantenuto nella sua verità reale e drammatica, – Dio mio Dio mio perché mi hai abbandonato!? –. Con queste parole, Gesù porta non solo l’esperienza drammatica di quel momento, ma in sé porta tutta l’esperienza della sofferenza, del dolore, della malattia, e oggi di tutte le malattie spirituali moderne, che già ho citato proprio domenica, e di cui sono afflitti innanzitutto i giovani. – Dio mio Dio mio perché mi hai abbandonato!? – La Scrittura non ha paura a portare all’interno dell’esperienza della preghiera di Gesù, anche l’esperienza umana più drammatica, più lacerante.

Lo abbiamo ascoltato anche nella prima lettura (Is 52, 13 – 53, 12). Si pensi che i primi cristiani ricordavano gli eventi della morte di Gesù, leggendo il testo che noi abbiamo ascoltato e che in qualche modo è assunto, versetto per versetto, per colorare dei suoi colori il racconto della Passione. Abbiamo ascoltato quanto sia drammatico il tono della prima lettura! È il quarto carme del Servo di Jahvè, l’ultimo dei quattro che sono raccolti nel secondo libro di Isaia, dal capitolo 42 ai capitoli 52 e 53. Si chiamano i “Carmi del Servo sofferente” e sono poemi inseriti nel testo che anticipano in modo impressionante la passione di Gesù! Prova ne sia il fatto che anche ai nostri fratelli ebrei questi Carmi facevano difficoltà, tanto che nella traduzione dall’ebraico al greco – furono tradotti in greco per la comunità di Alessandria d’Egitto che altrimenti non avrebbe compreso più il testo ebraico – con piccoli ritocchi si è annacquato questo testo, perché era così sconvolgente da mettere in crisi già gli ebrei, e questo già prima dell’avvento di Gesù. È impossibile che il Servo sofferente, che aveva anche dei tratti messianici, quindi riferiti al Messia atteso, potesse subire una sorte così tragica. La prima parola, dunque, che è la quarta di Gesù in croce, non ha paura di portare tutta la nostra fatica, tutta la nostra sofferenza, o, per dirla con un linguaggio del ’900, tutto il nostro “male di vivere”.

  1. La seconda parola invece è di Giovanni, ed è una parola dolce. È rivolta alla Madre: “Donna, ecco tuo figlio!” e a Giovanni, che per sé non è figlio di Maria, ma Gesù dalla Croce, lo chiama figlio e dice: “Figlio, ecco tua madre!”. Gesù lo candida ad entrare in una sorta di filiazione che chiamiamo “spirituale”. È bellissimo notare che il testo prosegue dicendo che: “da quell’ora” (Gv 19,27b) – ed è una parola civetta, anzi qui ce ne sono due: “donna” e “ora” (Gv 19,26b.27b). Maria è chiamata “donna” in questa scena finale, perché all’inizio della sua vita pubblica, a Cana di Galilea, Gesù l’aveva chiamata donna e anche là vi era la parola ora. Finalmente è giunta la sua ora e Gesù chiama Maria donna. “Da quell’ora la prese con sé”. L’evangelista usa un’espressione intraducibile dal greco, εἰς τὰ ἴδια, che significa l’accolse nella sfera delle sue “realtà più intime”. Il verbo: la prese, ἔλαβεν, è lo stesso che Giovanni usa all’inizio del Vangelo e riguarda esattamente l’esperienza della filiazione: “Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio” (Gv 1,12-13).

In questa “bella” scena sulla croce, Gesù apre uno spazio dentro il nostro intimo perché, con la mediazione della Madre sua, noi diventiamo suoi figli, nuovi fratelli del Risorto! Tutta la tradizione ha raffigurato questa scena nella grande pittura. Quando uscirete, fermatevi un istante davanti alla grande crocifissione del Ferrari. Noterete il gruppo delle Marie sulla sinistra, con Maria, la Madre di Gesù, che sviene e c’è un gioco delle mani femminili, dove una di queste tiene il grembo di Maria, che sembra stia partorendo un’ultima volta! Con la potenza di questa pittura potremmo ammirare nell’ingrandimento il volto di Maria, il più bel volto di tutta la parete gaudenziana, proprio in quell’attimo in cui Maria diventa capace di generare il Figlio, il fratello di tutti noi! È questa allora la seconda parola di Gesù, “Donna, ecco tuo figlio”, “Figlio, ecco tua madre!” e questa è la sua e la nostra ora!

  1. Infine, ci sono due parole brevissime, quasi due sussurri. La prima: “Ho sete!” (Gv 19,28). Ricordo che in ogni cappella delle suore di madre Teresa di Calcutta – le Missionarie della Carità – accanto al Crocifisso vi è una parola, che in latino è un’unica parola: “Sitio!” – “Ho sete!”. Anche questa è una parola che raccoglie tutto il desiderio, tutta la sete – ricordiamo l’episodio della Samaritana in Giovanni (cfr. Gv 4,5-42) – delle donne e degli uomini di oggi! Oggi abbiamo spesso tanti bisogni, ma l’esperienza dell’aver sete è di più dell’esperienza di riempire un bisogno; è l’esperienza di tenere aperto un desiderio. Ciò si spiega facilmente dicendo che l’amore di una persona non può essere colmato, come si beve un bicchiere d’acqua, ma deve abbeverarsi all’altra persona, senza mai consumarla. Questa è la differenza tra il desiderio e il bisogno; il bisogno si riempie, il desiderio invece più cerca di essere colmato e più accresce maggiormente il desiderio, il desiderio dell’altra persona.

 

  1. E, infine, l’ultima parola di Gesù sulla croce è, nell’originale greco, ancora una parola sola: “Τετέλεσται” – “è compiuto!”. È un solo verbo che ha la radice di τέλος, parola che abbiamo ascoltato nella liturgia del Giovedì santo “Avendo amato i suoi, li amò sino alla fine!! εἰς τέλος (Gv 13,1) fino alla o al fine. In sé il termine in greco supporta sia la traduzione al femminile che al maschile: è la fine, ma non è solo la fine cronologica, ma è anche il vertice, il culmine, il traguardo, il punto al di là del quale non si può più andare! Il verbo qui è al perfetto, e non descrive solo un’azione puntuale, anche se la morte di Gesù è certamente un’azione storica (per questo si usa di solito in greco l’aoristo); ma quando si usa il perfetto, si indica ancora un’azione storica, ma i cui effetti perdurano oltre, giungono fino a noi. Pertanto “è compiuto” significa che la sua morte continua a rimanere fino ai nostri giorni!

Questa è la parola di Gesù, la sua missione compiuta. Attraverso questa parola vorrei raccogliere tutti i desideri dei papà, delle mamme, dei genitori, di coloro che si preparano alla vita a due, di coloro che vivono la loro professione, e comprendere anche tutti i piccoli e grandi compimenti che siamo riusciti a portare a termine nelle nostra vita, talvolta anche solo parziali. Sono tutti piccoli frammenti che culminano in questo grande “tutto è compiuto”! Questa è la morte di Gesù, ed è il suo dono per noi.


DOMENICA DI PASQUA
RISURREZIONE DEL SIGNORE

Veglia pasquale nella notte santa

Oggi ho trovato un bellissimo testo di Benedetto XVI che ci introduce nel mistero della risurrezione di Gesù. Il Papa emerito ci illustra il senso della risurrezione di Cristo. Essa non indica solo che qualcuno è tornato in questa nostra stessa vita. Perché se uno tornasse in vita saremmo più impressionati,  ma sarebbe un tornare in questa vita, comunque destinata a finire. Non è questa la risurrezione. La risurrezione di Cristo è di più, è una cosa diversa dal ritornare di Cristo nella nostra vita. Ascoltiamo il suo testo:

Essa è – se possiamo una volta usare il linguaggio della teoria dell’evoluzione – la più grande “mutazione”, il salto assolutamente più decisivo verso una dimensione totalmente nuova, che nella lunga storia della vita e dei suoi sviluppi mai si sia avuta: un salto in un ordine completamente nuovo, che riguarda noi e concerne tutta la storia. (Dall’Omelia di Benedetto XVI, Veglia pasquale, 15 aprile 2006)

Quando questa omelia fu pronunciata, nel 2006, mi aveva colpito l’idea della “grande mutazione”, del grande cambiamento. E la liturgia di questa sera è una sorta di progressivo e sapienziale avvicinamento, dal primo canto – l’Exultet, un canto che risale al IV secolo – attraverso la rievocazione dei grandi testi dell’Antico Testamento, per giungere ai testi del Nuovo Testamento.

Papa Benedetto continua dicendo:

“La disputa, avviata con i discepoli, comprenderebbe quindi le seguenti domande: Che cosa lì è successo? Che cosa significa questo per noi, per il mondo nel suo insieme e per me personalmente? Innanzitutto: che cosa è successo? Gesù non è più nel sepolcro” (cit.)

Nei testi in effetti, Gesù non è più nel sepolcro, il suo corpo non si vede più, – Non cercate tra i morti colui che è vivo – non bisogna cercare nella direzione sbagliata!

“È in una vita tutta nuova. Ma come è potuto avvenire questo? Quali forze vi hanno operato?”

La risposta di Benedetto può dirsi un piccolo gioiello, quasi un premio per voi convenuti qui intrepidamente questa notte:

È decisivo che quest’uomo Gesù non fosse solo, non fosse un Io chiuso in se stesso. Egli era una cosa sola con il Dio vivente, unito a Lui talmente da formare con Lui un’unica persona. Egli si trovava, per così dire, in un abbraccio con Colui che è la vita stessa, un abbraccio non solo emotivo, ma che comprendeva e penetrava il suo essere. La sua propria vita non era sua propria soltanto, era una comunione esistenziale con Dio e un essere inserito in Dio, e per questo non poteva essergli tolta realmente.

È un primo passo dove è evidenziato che Cristo mette in gioco tutta la sua vita. È una vita totalmente decentrata su Dio, che esce dall”io” e va verso Dio. Ed ecco, come uno scrigno che si apre, il testo di papa Benedetto mostra il suo contenuto prezioso:

La sua morte fu un atto di amore. Nell’Ultima Cena Egli anticipò la morte e la trasformò nel dono di sé. La sua comunione esistenziale con Dio era concretamente una comunione esistenziale con l’amore di Dio, e questo amore è la vera potenza contro la morte, è più forte della morte.

Riprendendo semplicemente il Cantico dei Cantici… (cfr Ct 8, 6a), il Papa ricorda che l’unica cosa che supera la morte è l’amore! E poi il Papa continua commentando alcune immagini belle:

La risurrezione fu come un’esplosione di luce, un’esplosione dell’amore che sciolse l’intreccio fino ad allora indissolubile del “muori e divieni”.

Tutte le nostre morti sono forme del divenire…

Essa inaugurò una nuova dimensione dell’essere, della vita, nella quale, in modo trasformato, è stata integrata anche la materia e attraverso la quale emerge un mondo nuovo.

E, infine, vi leggo il terzo e ultimo pensiero del Papa, che risponde alla domanda: cosa significa per me, per noi la risurrezione di Gesù? È chiaro che questo avvenimento non è per noi un miracolo del passato, il cui accadimento potrebbe essere per noi, in fondo, indifferente:

È un salto di qualità nella storia dell’”evoluzione” (v’è un’eco di Teilhard de Chardin) e della vita in genere verso una nuova vita futura, verso un mondo nuovo che, partendo da Cristo, già penetra continuamente in questo nostro mondo, lo trasforma e lo attira a sé.

Se pensiamo a tutto il male che c’è in giro, possiamo dire che la risurrezione di Gesù penetra nel nostro mondo, lo trasforma e lo attira a sé? L’affermazione di papa Benedetto sembra andare contro l’evidenza! Eppure, senza di essa, noi non saremmo qui con la nostra libertà, con la nostra democrazia, persino… con troppa libertà (per quanto la libertà non sia mai troppa, semmai è falsa), non saremmo qui con la nostra sete di giustizia, con il nostro amore, con il nostro senso di prossimità.

Ecco la grande trasformazione, già avvenuta! L’Occidente con i suoi valori, ma anche l’Oriente, è già stato trasformato! Se noi sottraessimo il filo rosso di ciò che ha portato il cristianesimo, e il cristianesimo è la risurrezione del Crocifisso, potremmo dire stasera che ci sarebbe un mondo totalmente diverso? Ciò è evidente anche dando uno sguardo ai paesi che non hanno ricevuto il cristianesimo!

Il testo di papa Benedetto dice un’ultima cosa che trova il suo significato nei due gesti liturgici che verranno fatti dopo l’omelia:

Ma come avviene questo? Come può questo avvenimento arrivare effettivamente a me e attrarre la mia vita verso di sé e verso l’alto? La risposta, in un primo momento forse sorprendente ma del tutto reale, è: tale avvenimento viene a me mediante la fede e il Battesimo. (…)

Il Battesimo significa proprio questo, che non è in questione un evento passato, ma che un salto di qualità della storia universale viene a me afferrandomi per attrarmi. Il Battesimo è una cosa ben diversa da un atto di socializzazione ecclesiale, da un rito un po’ fuori moda e complicato per accogliere le persone nella Chiesa.

A Monaco (di Baviera) dove sono stato per quindici anni, durante il mese di luglio, i preti sono diventati più rigidi nel concedere il Battesimo ai bambini, vincolando la celebrazione del sacramento alla presenza dei genitori alla Messa. Cosa è accaduto? Che molti hanno sostituito il Battesimo con una festa della nascita, totalmente laica!

Il Battesimo però non è una festa della nascita, ma è molto di più! Termino con una notizia bella: questa sera in comunione con noi, a Pechino, trecento tra giovani e meno giovani, ricevono il Battesimo! Lo scorso anno erano solo cinquanta. Forse sono pochissimi di fronte a un miliardo e mezzo di persone, però noi ne abbiamo molti di meno!


Messa del giorno

 

«Raccontaci, Maria: che hai visto sulla via?».
«La tomba del Cristo vivente,
la gloria del Cristo risorto,
e gli angeli suoi testimoni, il sudario e le sue vesti.
Cristo, mia speranza, è risorto; e vi precede in Galilea»
(Dalla Sequenza del Giorno di Pasqua)

Il testo della Sequenza, che abbiamo cantato in latino con l’antica melodia gregoriana, contiene espressioni di grande bellezza. Ci presenta non solo il potente scontro tra la vita e la morte che si sono affrontate in un prodigioso duello, versetto già commentato in altri anni, ma ci presenta, quest’anno, anche lo sguardo di Maria (di Magdala), alla quale anche noi dobbiamo chiedere “che cosa hai visto sulla via?”, ed ella risponde «La tomba del Cristo vivente, la gloria del Cristo risorto, e gli angeli suoi testimoni, il sudario e le sue vesti. Cristo, mia speranza, è risorto!”

Questo sguardo femminile quest’anno mi accompagna nel farvi e nel farci l’augurio di buona Pasqua! È lo sguardo femminile che ci consente di vedere più in là. Ed è ricamato nel testo del Vangelo che abbiamo ascoltato, con cui si chiude il capitolo 20 di Giovanni (Gv 20, 1-9). È una sorta di culmine, che annoda tutti i fili che sono stati aperti nel Vangelo. Questo episodio, che peraltro prosegue fino al versetto 15 (cfr Gv 20,15) è un episodio a sandwich, aperto con la visita di Maria al sepolcro, poi c’è lo strano racconto della duplice corsa, o meglio l’unica corsa con i due discepoli, Pietro e il discepolo che Gesù amava, e poi ancora il ritorno di Maria di Magdala per l’incontro di Gesù al sepolcro, quello famoso del “Noli me tangere” (Gv 20,17) che tutti ricordiamo.

Il testo di oggi è, dunque, l’intreccio di due racconti. Dice:

“Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro”. 

Era ancora buio, è il punto zero, il buio della fede. Poi continua:

Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». (Gv 20,2)

Questo interessante plurale “non sappiamo dove l’hanno posto” ritornerà al singolare nel versetto 10: “non so dove l’hanno posto”, perché là il discorso diventa coerente, in quanto il racconto ricorda la presenza di Gesù e di Maria Maddalena nel giardino, che richiama la prima coppia di Adamo ed Eva nel giardino! Vi è forse nel plurale del v. 2 il ricordo antico del fatto che le donne erano di più, come dicono i Vangeli sinottici (cfr Mt 28,1-10; Mc 16,1-8; Lc 24,1-12).

Maria Maddalena quindi ritorna a casa e annuncia agli apostoli una mancanza, un’assenza, “hanno portato via… e non sappiamo”. La fede nasce così dal punto zero, dal buio, e da un non sapere, dalla nostalgia di un’assenza! Se noi non abbiamo sperimentato in questi giorni della Settimana santa, ma più in generale della Quaresima, e forse ancor più ampiamente, nella nostra vita, se non abbiamo sentito la nostalgia di questa assenza, non possiamo condividere il cammino di Maria. Il nostro tempo è forse quello più drammaticamente cosciente di questa assenza del Signore dalla propria vita, dalla vita personale, dalla vita familiare e, soprattutto, dalla vita sociale. Se non sentiamo la nostalgia di quest’assenza, non possiamo metterci di fianco ai due discepoli, sperimentando questo dal di dentro, mettendoci accanto a loro per correre al sepolcro.

Questo episodio mi è molto caro, il racconto della corsa di Pietro e dell’altro discepolo, quello che Gesù amava. Pietro è figura conosciuta, che non ha bisogno di spiegazione, è il primo dei dodici; Giovanni non lo qualifica, è conosciuto nella tradizione evangelica. E poi c’è questo “misterioso” discepolo che, non tanto ama Gesù, ma si lascia amare da Lui: “quello che Gesù amava” (cfr Gv 13,23; 19,26; 20,2; 21,7; 21,20). È il discepolo connotato dalla sua relazione con il Signore che egli accoglie, anzi si dovrebbe dire che subisce l’amore di Gesù.

C’è la corsa, su cui sant’Agostino ha un bellissimo testo, che sostanzialmente l’esegesi moderna ha confermato, per cui c’è una sorta di confronto tra la tradizione che risale a Pietro e la tradizione che risale all’autore del vangelo, Giovanni, che presuntivamente è il discepolo che Gesù amava, che non ha nome, ma il cui nome è dato dalla relazione con Gesù.

Nella corsa al sepolcro si insinua una sorta di gara dove i due partono insieme, ma uno arriva e aspetta l’altro. Ciò si riferisce forse anche a un dato fisico, Pietro è molto più vecchio e Giovanni era molto più giovane. Certo Giovanni arriva prima lui, perché più giovane, e tuttavia arriva prima lui, perché è mosso dall’amore del Signore!

Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. (Gv 20, 3-5).

Arriva prima l’amore – dice Sant’Agostino – nell’intuire il senso delle cose della vita! Pietro invece è la “figura del ministero”, cioè di chi deve verificare le cose, di chi deve dire la verità delle cose. È il ministero petrino che arriva magari un po’ caricato dal peso della vita di noi uomini, perché deve rendere ragione della fede. E solo quando Pietro è arrivato ed è entrato, allora può far entrare anche l’altro discepolo, amato da Gesù.

E cosa dice Pietro? Lo ha detto la prima lettura di questa domenica di Pasqua (At 10, 34a. 37-43), la quale contiene un elemento molto importante per capire il nostro augurio della Risurrezione: è la seconda predica di Pietro, contenuta nel libro degli Atti degli Apostoli, al capitolo 10. In questo testo, che in certo modo riprende il primo discorso di Pietro, riportato al capitolo 2 degli Atti degli Apostoli, il discorso è ancora più preciso: è una sorta di sommario del Vangelo, un Vangelo in breve, in miniatura, del racconto di Luca!

In quei giorni, Pietro prese la parola e disse: «Voi sapete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, cominciando dalla Galilea, (At 10, 37)

Pietro richiama un punto in particolare:

E noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme. Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno (At 10, 39)

Il compito di Pietro è di essere testimone di questo “ma”. Si può dire che Pietro racconta la storia orizzontale, mentre questo “ma” irrompe dall’alto e  ci mostra la linea verticale che sconvolge la nostra storia, la storia drammatica degli uomini! Ecco qual è la testimonianza di Pietro: deve portare tutta la fatica della storia degli uomini, la sofferenza fino a questo gesto estremo, cioè l’uccisione di Gesù. La resurrezione può essere annunciata solo dentro la nostra morte, la morte che portiamo nel cuore, la morte che procuriamo noi. Come ho ricordato domenica scorsa, ho raccolto almeno nove tipologie di povertà della vita in generale e, in particolare, della vita giovanile: le dipendenze da droga e da alcool, la dipendenza da (video)gioco, la depressione, l’abbandono scolastico, il pianeta NEET, la violenza sui minori, il femminicidio, il disagio familiare e persino il suicidio!

Pietro porta tutto questo male del mondo, e però annuncia che c’è un: “ma”! Per questo arriva tardi al sepolcro, deve portare con sé tutto il peso del male del mondo. La resurrezione di Cristo ha senso, se diventa una grande mutazione del mondo! E allora torniamo al sepolcro…

Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. (Gv 20,6-7)

Questa minuziosa descrizione – e nella nuova traduzione vien ancor più evidenziata – mette in risalto come tutto era a posto, non c’era nessun segno di trafugamento. Pietro dal segno negativo accede alla fede in positivo. Dice che la vita di Dio è capace di trasformare il nostro peccato, il nostro male, la nostra depressione, la nostra infelicità, tutte le nostre malattie!

Il mio augurio pasquale è  collocato in questo “ma” ! Qualsiasi persona che fosse qui e che porta dentro una fatica, una sofferenza, un dolore, qualcosa che non va in famiglia, al lavoro, che porta con sé anche la paura sociale che ci attanaglia tutti, deve sentire che però è già stato pronunciato, e non solo con la parola, ma nel cuore questo “ma”, il “ma” della vita che vince sulla morte!

Ieri sera nel testo citato di Benedetto XVI si diceva che Gesù non torna in vita, ma Gesù torna in vita per la potenza dell’amore con cui è stato unito a Dio. Ecco il “ma” della vita risorta! Ecco il mio augurio! 

Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide – come Pietro! e credette – più di Pietro! –. (Gv 20,8).

Perché l’amore fa un passo in più! L’amore che ci è donato è capace di suscitare il nostro amore di risposta. Abbiamo iniziato con una donna, terminiamo con una donna. Come è noto, il 21 marzo è morta Madre Anna Maria Cànopi, Badessa all’Isola San Giulio, una donna che in quarantacinque anni ha accolto molte persone. L’hanno seguita almeno centocinquanta donne, senza contare le persone che sono transitate, senza fermarsi, solo sull’Isola san Giulio. Il 26 giugno dello scorso anno, come ho già ricordato tempo fa, sono stato in visita al monastero con il mio gruppo famiglie e una di queste ha chiesto proprio alla Madre “Ma voi cosa fate qui?”. Lei ha risposto con una immagine curiosa dicendo: “Noi siamo come una centrale idroelettrica: più noi accumuliamo energia, più riusciamo a trasmetterla a tutto il bacino che c’è intorno. E anche oltre!”

Allora ecco l’ultimo testo che Madre Cànopi ci consegna per questa Pasqua 2019:

Di mattino, nel giardino…
«Che anch’io ti incontri,
o Cristo Risorto,
come Maria
presso il sepolcro.
Che io ti veda,  Maestro divino,
e mi senta chiamata per nome.
Ogni mattina
sia Pasqua di Resurrezione
nell’intimo del mio cuore
E risuonino in me
le campane di festa
per chiamare a raccolta
tutti i miei fratelli
vicini e lontani,
in comunione d’amore
in canto di gioia
e sovrumana pace»

Così è il mio augurio, per questa Pasqua!