Sabato 30 settembre, nella cattedrale di Novara, il vescovo Franco Giulio ha presieduto la celebrazione per l’ordinazione diaconale di Beniamino Agliati e Vincenzo Formisano, alunni del seminario diocesano “San Gaudenzio”. Di seguito il testo integrale della sua omelia.
Il servizio regale, amicale, operoso
Carissimi Beniamino e Vincenzo,
carissimi familiari e parenti,
carissimi presbiteri, diaconi e seminaristi,
e voi tutti qui presenti a questa celebrazione,
vi rivolgo il mio cordiale saluto. Siamo convenuti per l’ordinazione diaconale dei nostri due amici. È il penultimo passo prima del grande traguardo del presbiterato, il quale in verità è un punto di partenza.
Introduzione
Nella preghiera di colletta, con cui abbiamo pregato all’inizio della messa, è presente una bella espressione nella quale ricorrono alcuni aggettivi molto suggestivi. La preghiera si esprime così:
“O Padre, (…) concedi a questi eletti al diaconato
di essere instancabili nel dono di sé,
vigilanti nella preghiera,
lieti ed accoglienti nel servizio della comunità” [1].
Gli aggettivi descrivono bene come dev’essere il ministero dei diaconi, lo esprimono in forma sintetica, legando come in un filo rosso gli aspetti evocati nella prima lettura (Is 62,1-5) che avete scelto per la Liturgia della Parola di Dio di questa celebrazione. È una pagina molto bella e ad essa dedicherò il mio commento. Per trovare, a mia volta, il filo conduttore delle parole che ho in cuore di dirvi mi riferisco alla breve monizione iniziale della messa, che proclama:
“(…) perché come discepoli fedeli,
imparino dal divino Maestro
a servire nella carità la Chiesa” [2].
Le tre letture della Messa (Is 62,1-5; Gc 2,14-18; Gv 15, 9-17) sono una declinazione del servire nella carità la Chiesa, intendendo la Chiesa non tanto e solo la comunità che si raduna, ripiegata su se stessa, ma intendendo la Chiesa aperta e proiettata verso il mondo. E sono tre gli aspetti che potremmo individuare facilmente: nella prima lettura abbiamo l’illustrazione del servizio “regale”; nel vangelo il servizio “amicale”; nella seconda lettura il servizio “operoso”.
Il servizio regale, amicale, operoso
Omelia per l’ordinazione diaconale 2023
30-09-2023
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Il servizio “regale”
La prima lettura ci illustra il significato del servizio “regale”. Mi soffermo, come ho già anticipato, più distesamente su questa lettura per la bellezza delle sue espressioni. È un testo scritto in un periodo di grande tribolazione, perché appartiene alla seconda parte, o addirittura alla terza, del libro del profeta Isaia, dopo il ritorno del popolo dall’esilio a Babilonia. Al ritorno, l’addomesticamento e l’acclimatamento del popolo nella sua antica terra risultò assai faticoso, perché non ritrovava lo splendore della città di Gerusalemme, così com’era prima dell’esilio. Eppure, nel testo troviamo espressioni suggestive e forti. Colui che torna dall’esilio, deve “sposare” la sua città Gerusalemme, alla quale si deve sentire unito come in un vincolo sponsale. Anche colui che riceve un ministero ordinato deve “sposare” la Chiesa, realtà totalmente inserita nel mondo, e si deve appassionare a questo. Deve essere per lui un sogno affascinante! In un tempo, il nostro, nel quale domina l’individualismo e ognuno fa per sé, che ci siano dei giovani che sentono ancora questa urgenza è molto importante! Mi pare bello allora soffermarci su tre aspetti con cui interpretiamo il servizio regale e che sono contenuti proprio nella lettura del profeta Isaia che abbiamo ascoltato.
- Il primo aspetto ci è suggerito dalla preghiera di colletta: è un amore instancabile.
“Per amore di Sion non tacerò,
per amore di Gerusalemme non mi concederò riposo”. (Is 62, 1a)
Guardandovi in volto, posso dire con una certa sicurezza che non sarete preti che si stancano presto, o che si concedono anzitempo il riposo. Non sarete di quelli che tacciono per non disturbare il cammino del proprio popolo, ma sarete instancabili, perché i primi che patiscono l’essere persone indolenti sono gli stessi che tirano a campare: alla fine si sentono frustrati e non gratificati. Tempo fa, durante gli anni in cui ero giovane prete, era conosciuto il testo della preghiera del sacerdote la domenica sera nella quale, nel linguaggio dell’epoca, come avviene anche oggi per le preghiere che usano un’altra retorica, il prete esprimeva l’essere stanco, ma non stufo, al termine della festa, perché in quel giorno aveva potuto incontrare e amare il suo popolo (“Signore, stasera, sono solo. A poco a poco, i rumori si sono spenti nella chiesa, le persone se ne sono andate, ed io sono rientrato in casa, solo…” cfr. Michel Quoist). Così dovrebbe avvenire anche oggi, perché un diacono e un prete autentico sarà instancabile! Perché egli ha costruito tutta la sua settimana per aiutare il suo popolo a fare festa, a vivere la domenica. Riascoltiamo l’espressione luminosa di Isaia:
“Per amore di Sion non tacerò,
per amore di Gerusalemme non mi concederò riposo”.
Sarebbe una cosa bella se i biblisti mettessero ancor più in luce questi linguaggi con testi così preziosi e luminosi, che dicono una cosa sola: dobbiamo amare (sposare) questa città che è la Chiesa, la quale deve poter ridare la fiducia e la speranza al mondo.
“finché non sorga come aurora la sua giustizia
e la sua salvezza non risplenda come lampada”. (Is 52, 1b).
Ecco la prima caratteristica del servizio regale che dovrete compiere: essere instancabili perché, se voi ci mettete dentro tutta la vostra passione e dedizione, dimostrerete che è una cosa che vi riempie la vita! La gente in mezzo a tante parole perse e disperse riconosce subito la cosa essenziale.
- Il secondo aspetto del servizio regale ci è illustrato dalla parte centrale del brano e può essere indicato come un servizio Dice il testo:
“Allora le genti vedranno la tua giustizia,
tutti i re la tua gloria;
sarai chiamata con un nome nuovo,
che la bocca del Signore indicherà.
3Sarai una magnifica corona nella mano del Signore,
un diadema regale nella palma del tuo Dio”. (Is 52,2)
È una retorica che non usiamo più; è una retorica che proviene dalla gioia di essere a servizio di una grande realtà. Essere prete non vuol dire sistemarsi, così come sposarsi non vuol dire sistemarsi, mettersi a posto. Un tempo a chi arrivava a trent’anni non ancora sposato, o accasato, si raccomandava di “sistemarsi”, ma l’esperienza dice che già dal giorno dopo ci si rende conto di non essersi “sistemati” e che la realtà del matrimonio è tutt’altra. Così è anche per il prete!
Il suo servizio dev’essere glorioso, deve far quasi trapelare da se stesso la bellezza di una dimensione altra e diversa. Al contrario ci sono coloro che pretendono di essere “il più bello del reame”! Dopo però si deprimono, se non riescono nel loro arduo intento, proiettando un’immagine di sé troppo grande: c’è un dèmone del perfezionismo che è tremendo anche per noi preti, perché si rischia di avere un’immagine di sé come “salvatore del mondo”, appunto il più bello del reame, ma poi soccombe, ma così vien meno lui solo, non quelli che gli sono attorno.
- Il terzo aspetto afferma che il servizio regale ha da essere un servizio seducente.
Quando dico seducente, voglio mettere in guardia dal fatto che esso può diventare seduttivo e ancor peggio seduttore. A tal proposito in questi ultimi tempi ho scritto un lungo articolo sulla differenza tra essere preti e genitori, educatori, allenatori, professori, maestri “seducenti” che, come dice la parola stessa, attirano-a-sé, conducono dietro a sé e, al contrario, pavento la deriva di essere educatori seduttivi e seduttori. Ciò accade quando chi educa non fa più crescere il minore, non lo fa diventare più grande di sé, ma lo lega a doppio filo a se stesso. Ne conseguono fatti e abusi di potere, di cui oggi si sente sovente parlare. Studiando questo tema, che mi ha provato molto durante l’estate scorsa, posso affermare che l’abuso più grave, ancor prima di quello sessuale, è l’abuso di potere spirituale.
E ciò può avvenire con un genitore, un maestro, un allenatore, tutte le professioni che hanno un rapporto intenso, vale a dire le figure che hanno un investimento educativo. Queste non possono non essere seducenti, altrimenti nessuno le seguirebbe, ma devono stare attente a non diventare seduttive e seduttrici. Occorre per così dire saper “regolare la frizione”, poiché la relazione educativa scivola spesso nella seconda e nella terza figura.
Nel testo di Isaia questo pensiero viene presentato con le seguenti espressioni:
“Nessuno ti chiamerà più Abbandonata,
(riferita alla città, intesa come il cuore del popolo)
né la tua terra sarà più detta Devastata,
ma sarai chiamata Mia Gioia e la tua terra Sposata,
perché il Signore troverà in te la sua delizia
e la tua terra avrà uno sposo.
Sì, come un giovane sposa una vergine,
così ti sposeranno i tuoi figli;
come gioisce lo sposo per la sposa,
così il tuo Dio gioirà per te”. (Is 52,4-5)
Cari Diaconi, la gente vi seguirà se vedrà che siete felici nell’esercizio del vostro ministero. Anche per chi si candida a intraprendere lo stesso cammino – vedo qui i nostri seminaristi – dico che non abbiamo bisogno di persone infelici, che non sono capaci di trasmettere gioia. E se noi che siamo da questa parte, me compreso, non trasmettiamo un messaggio di gioia, diventiamo aridi ed inefficaci. Se così fosse, vorrei dirvi che siamo noi i primi a patirne, non gli altri, noi i primi ad essere depressi e scontenti, inefficaci, incapaci di affascinare…
Sono appena tornato da tre giorni del Consiglio Permanente della Conferenza Episcopale Italiana, in cui abbiamo molto discusso sull’uso del linguaggio e dei linguaggi nei confronti degli altri e del mondo. Perciò vi chiedo francamente: chi ci ascolta, percepisce che noi crediamo, siamo appassionati, ci vogliamo bene!?!
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Il servizio “amicale”
Una seconda sottolineatura del servizio è quello amicale. Voi lo avete indicato con il brano di Vangelo. Gesù dice:
“Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone, ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi.
Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto” (Gv 15,15-16)
Attraverso il passaggio del diaconato, voi entrate nel presbiterio e d’ora in avanti apparterrete a una famiglia più grande. Se non si appartiene a una famiglia, si perde la propria identità! Se uno non appartiene, non è nessuno. Come si fa ad essere prete da soli, isolati? Si può essere pionieri, o fare per bene le proprie piccole cose, ma se non lo si fa insieme, non succede nulla; se, al contrario, si appartiene a un presbiterio, unito attorno al vescovo con gli altri collaboratori, con il popolo di Dio, questo dà senso a tutto. Riusciamo a realizzare relazioni amicali tra di noi?
Voglio confidarvi la parte più profonda del mio cuore e lo dico a voi perché siete all’inizio, ma mi rivolgo anche a tutti coloro che sono più avanti, e a chi come me è quasi alla fine: siamo in grado di risvegliare l’ardore dell’inizio, o meglio dell’origine? Perché c’è un inizio cronologico, ma l’origine sta al cuore della vita di ogni giorno. La mia tristezza è causata invece dal fatto che se c’è uno che posta sul suo profilo Facebook una cosa strana, quando magari c’è un monsignore nuovo in arrivo, o quando un altro ha fatto una cosa sbagliata o inopportuna, in brevissimo tempo, più veloce della luce del sole, tutti lo vengono a sapere e non solo in diocesi, ma in tutta Italia. Sarebbe questa una relazione amicale? O, invece, non sarebbe cosa buona andare da lui per parlarne? O, ancora, sarebbe bello andare a trovare un confratello malato o prestargli un aiuto, per permettergli qualche giorno di vacanza? Non sono queste le relazioni amicali?! L’elenco potrebbe essere infinito… Non dimenticate che per il vostro diaconato avete scelto queste letture. Anche attraverso la tristezza che vi ho manifestato, e con la quale probabilmente arriverò alla fine del mio mandato a Novara, vorrei che non dimenticaste il servizio amicale.
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Il servizio “operoso”
L’ultima lettura che avete scelto può sembrare “strana”: è il passo più famoso della lettera di Giacomo apostolo. Ormai quasi nessuno sceglie più questo brano perché è considerato un testo pericoloso. Infatti, sembrerebbe contestare direttamente san Paolo là dove dice che solo la fede ci salva e non le opere (cfr. Gal 2,16). Eppure, Giacomo nella linea del giudeo-cristianesimo dice che non ci può essere una fede senza le opere. Così la fede diventa in-operosa, inefficace ed è da temere.
Vi sarebbe bisogno di una lunga trattazione, ma facciamo attenzione perché la fede senza le opere è la figura oggi più diffusa della fede! Per molti oggi, forse anche per tanti di voi che siete qui, la fede è solo un sentimento. Si sente dire d’attorno: “Io non sento più nulla!” o anche “Vengo a messa quando mi sento!”. A questo proposito richiamo sovente l’esempio di mio padre che se fosse andato al lavoro solo quando si sentiva, sarei morto di fame! Ma come vedete non è successo! Perché per il lavoro non ci affidiamo solo al sentimento, ma usiamo un altro criterio? E anche per la vita di famiglia, si usa forse il criterio del sentimento? Invece per la fede pensiamo che è forte, bella e significativa, solo se la sento, solo se mi alza la temperatura spirituale. All’origine di questo atteggiamento sta una confusione per cui sentire la fede vuol dire essere spontanei. Una cosa sentita equivale a una cosa spontanea! Ma lavorare non è spontaneo. L’amore non è spontaneo, ma anzi esige fedeltà, dedizione, attenzione, prossimità, vicinanza, cura e sofferenza e persino talvolta conduce alla morte, per donare la vita!
San Giacomo ci dice che una fede vale se è operosa. Vi cito allora solo l’ultima frase del testo di Giacomo, che conclude con un’affermazione che non fa da specchio alla precedente, ma la rovescia. Ascoltate:
Al contrario uno potrebbe dire: “Tu hai la fede e io ho le opere;
mostrami la tua fede senza le opere,
e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede” (Gc 2,18).
La seconda metà della frase è veramente sconvolgente: io con le mie opere ti mostrerò la mia fede! È la correzione cristiana del giudaismo, secondo la quale la fede cristiana è un’opera, è un agire, ma non è solo un fare, è molto di più di un fare! È un agire che costruisce relazioni, che pone attenzioni, che magari dona pure da mangiare, ma aiuta l’altro anche a procurarsi il cibo, perché, se ci si impegna a nutrire l’altro, ma non gli s’insegna a procurarselo da solo, sarà sempre dipendente di chi lo ha sfamato. Quando le opere diventano “opere della carità”, lì si mostra e si dimostra la propria fede.
Conclusione
Ecco, dunque, le tre sottolineature che ho voluto fare per la vostra ordinazione diaconale: un servizio regale che è il tratto più importante in questo tempo di passioni tristi, nel quale siamo indotti nel dubbio e nel timore, nella difesa di sé, anziché nello slancio per una cosa bella come il diventare prete. Un servizio amicale e un servizio operoso!
Così auguro di cuore a te Vincenzo che hai lasciato la tua terra per venire da noi. Riguardo a te, Beniamino, ricordo quando sei venuto con il tuo papà – oggi possiamo rivelarlo? – e tu provenivi dalla professione di avvocato e avevi già affrontato e vinto qualche causa. Accompagnandoti da me il padre esclamò: “Gli concederò di intraprendere questa strada, sì, ma solo se poi non farà più l’avvocato!”. E io allora risposi: “Questo lo vedremo a suo tempo…”. Siamo giunti quasi alla meta che segna l’inizio del vostro ministero: mettete sempre al centro queste tre dimensioni del servizio.
+Franco Giulio Brmbilla
Vescovo di Novara
[1] Cfr. Conferenza Episcopale Italiana, Pontificale Romano, Colletta della Messa per l’Ordinazione dei diaconi, LEV, Città del Vaticano, 1992, p. 214.
[2] Cfr. Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Vescovo di Novara.