Panis Angelicus. Omelia del Corpus Domini

Facebooktwittermail

Giovedì 16 giugno, il vescovo Franco Giulio ha presieduto la celebrazione del Corpus Domini in cattedrale per le comunità del vicariato di Novara. Dopo la messa la processione in Basilica per la benedizione eucaristica e il tradizionale rito dell’infiorata. Ecco il testo integrale della sua omelia.

 

Panis Angelicus

L’inno eucaristico “Sacris Solemniis”

Carissimi,

vi ringrazio di essere convenuti numerosi. Il Signore vi benedirà! Nel decimo anniversario della mia presenza a Novara, mi è stata regalata la copia anastatica di uno dei manoscritti – forse il più prezioso! – che conserva il nostro Archivio Storico Diocesano e che riguarda proprio l’istituzione della festa del Corpus Domini. Questo manoscritto di circa cinquanta fogli, come ho già raccontato altre volte, a differenza della copia che è conservata in Vaticano, non contiene solo la Bolla che istituisce la festa liturgica e che inizia con le parole “Transiturus”, titolo con cui è conosciuta in tutto il mondo, ma presenta tutti i canti, le melodie, le orazioni e l’eucologia della festa stessa.


Panis Angelicus
L’inno eucaristico “Sacris Solemniis”
16-06-2022
Download PDF


Sfogliando la copia anastatica, fra gli inni famosi, tra cui il “Lauda Sion Salvatorem”, sequenza con cui abbiamo pregato prima, e l’“Adoro Te devote”, altro testo molto conosciuto, ho trovato l’inno del Mattutino (l’attuale Ufficio delle Letture) poco conosciuto, o meglio conosciuto solo per una sua strofa. Mi sono dedicato alla meditazione di quest’ultimo inno, anche se le traduzioni dal latino, lingua nella quale è ovviamente composto, erano della metà o fine ‘800, per cui mi sono peritato di comporre una versione più accessibile a tutti noi.

La bolla, dicevo, è di Urbano IV. Jacques Pantaléon (Troyes, 1195 circa – Deruta, 2 ottobre 1264) era stato arcidiacono della Chiesa di Liegi, poi era divenuto patriarca di Gerusalemme, e nel 1261 fu eletto pontefice prendendo il nome appunto di Urbano IV. Proprio a Liegi era in contatto con alcune donne che avevano avuto esperienze mistiche attorno al mistero dell’Eucarestia. Per questo, divenuto Papa, si era proposto di istituire una festa speciale – propriamente la festa dell’Eucaristia è il Giovedì Santo – nella quale, di fronte alla coscienza di fede della Chiesa, venisse celebrato il Corpo del Signore, e che per questo motivo prese il nome di Corpus Domini. Nel giugno del 1264 era presente alla corte papale a Orvieto san Tommaso d’Aquino. A lui è attribuita con un alto grado di probabilità storica la composizione di tutta la liturgia della festa – forse addirittura della stessa bolla Transiturus – mentre, come emerge dall’analisi della scrittura, il manoscritto del nostro Archivio risalirebbe solo ad alcuni anni dopo. Il testo conservato in Vaticano, come ricordavo, contiene invece solo la bolla, per altro ricopiata in un registro d’archivio. Il Papa indirizzò da Orvieto la bolla prima alla chiesa di Gerusalemme e poi l’11 agosto 1264 la inviò ai vescovi della Chiesa universale. All’inizio di settembre Urbano IV scrisse alle mistiche di Liegi, dando notizia che la festa era stata istituita, e il 2 ottobre morì. Potremmo dire che questa festa è come un dono dall’Alto, perché anche il Papa stesso attese quasi un quinquennio per rendere cosciente l’ambiente intorno a lui dell’importanza e del senso di tale ricorrenza che aveva un carattere eminentemente devozionale.

L’inno ha inizio con un versetto non molto conosciuto, al contrario di quello ben più famoso che incontriamo verso la fine, alla penultima strofa, “Panis angelicus”. Leggo e commento brevemente le sei strofe, più una conclusiva.

 

 

  1. Prima strofa
Sacris solemniis iuncta sint gaudia, 
et ex praecordiis sonent praeconia; 
recedant vetera, nova sint omnia, 
corda, voces, et opera.
Alla festa solenne non manchi la gioia,
e dal nostro intimo risuoni la lode;
vengano meno gli antichi riti, tutto sia nuovo,ogni cuore, voce e gesto.

L’inno inizia con questo tripudio, come è tipico degli inni di lode, e suggerisce che per comprendere l’Eucaristia occorre partire da ciò che noi celebriamo. L’Eucarestia si comprende – come dirà il Concilio Vaticano II – per ritus et preces, attraverso i riti, le azioni rituali che compiamo e le preghiere che eleviamo. L’azione liturgica è un’operazione molto delicata. Comprendiamo bene che i suoi tempi hanno un delicato equilibrio dove per esempio il canto, che pure ha un suo ruolo importante nella celebrazione, non deve debordare; così come accade per un’omelia troppo lunga, che può essere anche fatta da un prete geniale e che predica bene, ma poi il resto del rito viene liquidato velocemente per l’inevitabile compressione del tempo! Per ritus et preces, l’Eucaristia è celebrata in una comunità e da una comunità che prega e che loda, che cioè è capace di interrompere il tempo feriale, perché la domenica non è il “giorno libero”, ma è il giorno della festa. E la lingua della festa è la lode, la gratuità, la prossimità, la vicinanza, l’affetto, la misericordia e il perdono.

  1. Seconda strofa
Noctis recolitur cena novissima, 
qua Christus creditur agnum et azyma 
dedisse fratribus, iuxta legitima 
priscis indulta patribus. 
Nella notte celebriamo l’ultima cena,
in cui crediamo che Cristo l’agnello e gli azzimi
tra i suoi fratelli condivise, secondo la legge
trasmessa agli antichi padri

La seconda strofa parla della messa come “memoriale”. Non è una commemorazione, non è il ricordo di un evento, come potrebbe essere il 4 novembre, quando si commemorano i caduti della Prima Guerra Mondiale. È al contrario un vero e proprio memoriale, che cioè rende vivo e presente a noi un momento della storia, il quale ancor oggi ha la forza di alimentarci. Voi bambini che avete fatto o farete la Prima Comunione sapete forse che nella cena ebraica è il bambino più piccolo che pone la domanda rituale: “Come mai questa sera la tavola è così imbandita, perché ci sono tutte queste luci?”, a cui fa seguito un lungo discorso del paterfamilias, del padre di famiglia, che racconta il memoriale della Pasqua, che è un memoriale di liberazione, di salvezza, dell’uscita del popolo d’Israele dall’Egitto, che viene introdotto nella terra di libertà, passando attraverso il grande deserto, stupendo e meraviglioso, ma anche tremendo e periglioso. Ecco, dunque, facciamo memoria dell’ultima Cena! Noi possiamo celebrare la messa, l’Eucaristia, solo perché Gesù ci dona la possibilità di fare memoria dell’ultima Cena con la sua presenza. Non celebriamo un altro sacrificio della Croce, ma nel segno rituale celebriamo, rendendolo vivo, l’unico sacrificio. Anzi, è la croce stessa di Gesù che si rende presente nell’azione celebrativa della Chiesa, che loda e ringrazia.

 

  1. Terza strofa
Post agnum typicum, expletis epulis, 
Corpus Dominicum datum discipulis, 
sic totum omnibus, quod totum singulis, 
eius fatemur manibus. 
Dopo l’agnello tipico, compiuta la cena,
ai discepoli è donato il corpo del Signore,
integro per tutti come tutto a ciascuno
– lo confessiamo – con le sue stesse mani.

La terza strofa ci invita a fare la Pasqua portando a compimento il rito dell’Agnello pasquale. Il testo commenta: Gesù si è donato “integro per tutti come tutto a ciascuno”. È un’espressione molto bella di cui oggi non siamo più capaci di cogliere l’intimo senso. Il “per tutti” di Gesù non va sciupato, neppure va sottoposto a restrizioni gianseniste, ma si offre a noi con larghezza, chiedendo che ne comprendiamo il valore e ci predisponiamo con il cuore.  Quanto ne siamo lontani! Infatti, solo alcuni si comunicano, altri stanno in piedi in fondo, quasi che il mistero che si celebra non li riguardasse. È un rito di comunione dal quale spesso non ci si fa coinvolgere: è come essere invitati a un pranzo di nozze e… non mangiare! E invece Gesù si dà a noi “con le sue stesse mani”. Che bello: è proprio il momento del “roveto ardente” dell’ultima Cena.

 

  1. Quarta strofa
Dedit fragilibus corporis ferculum, 
dedit et tristibus sanguinis poculum, 
dicens: Accipite quod trado vasculum; 
omnes ex eo bibite. 
Ai deboli il suo corpo come cibo
e a chi è triste del sangue la coppa
diede dicendo: “Prendete il calice che vi consegno
e da esso tutti bevete”.

È l’aspetto “conviviale” della cena. Il rito della messa è un convivio, è una comunione. Per usare una cifra che ci avvicina anche ad altre religioni, si può dire che è un “pasto sacro”, non è una scampagnata! Noi purtroppo abbiamo trasformato gli altari – e ce ne sono ancora tanti nella nostra diocesi che io cordialmente detesto – poco più che tavoli, e neppure tanto belli! Poiché la Messa è un convito, talvolta abbiamo a tal punto ridotto i segni da essere banalizzanti e sciatti. È un convito sacro, però è un “convito”. Indico questo, perché nella strofa seguente si parla dell’altro aspetto della Messa, del suo essere “sacrificio”. Ai sacerdoti, nell’omelia dell’ultimo giovedì santo, ho illustrato la connessione tra convito e sacrificio commentando uno splendido testo del Missale Vetus dell’XI secolo, pure presente nel nostro Archivio. Chi contrappone i due aspetti è nell’errore, sta celebrando la sua messa, non l’Eucaristia del Signore.

 

  1. Quinta strofa
Sic sacrificium istud instituit, 
cuius officium committi voluit 
solis presbyteris, quibus sic congruit, 
ut sumant, et dent ceteris
Così questo sacrificio ha istituito,
il cui rito ai soli sacerdoti è affidato,
ai quali spetta perché se ne alimentino
e lo diano a tutti i fedeli.

Il sacrificio è però un convito che mantiene la forma di un’offerta sacrificale, cioè di un pane spezzato e di un corpo dato, di un calice condiviso e di un sangue versato. Pur avendolo ricordato tante volte, poiché siete in tanti lo ripeto: l’unica cosa che non è cambiato in quasi duemila anni, è il segno del pane e del vino, nella sua semplice e disarmante povertà! Guardate cosa abbiamo costruito attorno a questo rito. Abbiamo edificato una teca preziosissima con tutte le testimonianze dell’arte, dal romanico al gotico, dal rinascimentale al barocco, fino al neoclassico, abbiamo arricchito in maniere inimmaginabile il contenente, ma per custodire e far risplendere il contenuto: il Corpo dato, il Sangue versato, la vita di Gesù spesa per noi. È l’amore che ci viene dato, anche se noi lo rifiutiamo, come un amore donato senza misura. È l’amore assoluto, che non si offre come amore solo quando è accolto, ma che si dona anche e soprattutto quando è rifiutato. Il testo dell’inno è mirabile: mentre l’inno dice che il Sacramento (officium è la celebrazione) “ai soli sacerdoti è affidato”, non perché sia di loro proprietà, “solis presbyteris, quibus sic congruit (si potrebbe tradurre: spetta a loro), significa però che è affidato ai presbiteri, perché se ne alimentino e lo donino agli altri! È un singolare messaggio anche per noi sacerdoti, poiché non possiamo pretendere di donarlo agli altri, se non lo assumiamo degnamente e fruttuosamente noi stessi, come alimento nutriente che cambia la nostra vita. Non siamo padroni del corpo di Cristo, ma ci è dato in dono, perché lo doniamo agli altri, anzi a tutti.

 

  1. Sesta strofa
Panis angelicus fit panis hominum; 
dat panis caelicus figuris terminum; 
O res mirabilis: manducat Dominum 
pauper, servus et humilis. 
Il Pane degli Angeli si fa Pane dell’uomo;
il Pane vivo del Cielo compie le antiche figure;
O dono mirabile! Il povero, il servo e l’umile
del loro Signore si nutrono.

Ed ecco a questo punto l’inno raggiunge il suo culmine emotivo. Sono due strofe di cui una è quella più conosciuta, famosissima, e l’altra presenta la dossologia finale con cui si concludono tutti gli inni. San Tommaso d’Aquino nel periodo del feudalesimo osa dire che il povero, il servo e l’umile si nutrono del “loro Signore”: questo è il dono mirabile!!! Gesù è l’unico Signore che non rende schiavi, ma rende liberi. Per questo giustamente tutta la tradizione ha musicato queste parole che rappresentano la glorificazione del corpo del Signore come Pane degli Angeli, Pane vivo, offerta mirabile, dono nutriente, del quale cominciano a nutrirsi soprattutto il povero, il servo e l’umile. Questa è la rivoluzione cristiana: al corpo del Signore appartengono tutti allo stesso titolo, anzi il povero, il servo e l’umile sono le sue membra privilegiate.

 

  1. Settima strofa
Te, trina Deitas unaque, poscimus: 
sic nos tu visita, sicut te colimus; 
per tuas semitas duc nos quo tendimus, 
ad lucem quam inhabitas.
Te imploriamo, o Dio, trino ed uno,
tu vieni a visitarci quando noi t’adoriamo;
per le tue vie guidaci alla metà cui tendiamo
alla luce che tu inabiti.

La dossologia finale, molto bella, ci fa salire in paradiso. È impegnativa da un punto di vista linguistico, ma è di grande liricità: più noi adoriamo il Sacramento, più il Signore verrà a visitarci. La preghiera invoca: “tu visitaci sempre più nella misura in cui ti veneriamo e adoriamo (colimus)!”. È come se noi dilatassimo la nostra capacità di accoglienza e di ricezione, perché il Signore dimori in mezzo a noi. Se al contrario adoriamo poco, poco potremo accogliere e ricevere. Dilatiamo il nostro cuore perché solo così Egli potrà visitarci e riempirci di sé. E, infine, l’inno canta che il Signore ci guidi per le sue vie così che la sua luce che abita in Dio da sempre, dimori anche in noi in eterno. Amen.

+Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara