Quel ramo d’ulivo. Omelia del vescovo per la Domenica delle Palme

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«Anche noi, quando depositeremo stasera il nostro ramoscello d’ulivo ritornando a casa nostra, penseremo come questa nostra vita, interrotta nelle sue possibilità di evoluzione e nelle sue “magnifiche sorti progressive”, come ci raccontavano quando proclamavano che tutto è nelle nostre mani e in nostro potere, penseremo che è bastato un nemico invisibile per rinchiuderci tutti nelle nostre case! Riponendo tuttavia questo ramo d’olivo, anche noi dovremmo poter dire che il Signore Gesù non ha vinto le potenze del male, combattendole con le armi, con il potere, con il denaro, e con tutti gli altri mezzi che ad esso si collegano, ma le ha vinte passandovi attraverso, prendendo la pecorella smarrita sulle sue spalle, facendosi prossimo degli ultimi e delle persone scartate dalla società d’allora». Uno stile di speranza e di fede. Che non è rifugio consolatorio, ma capacità di sguardo in alto. Lo ha proposto il vescovo Franco Giulio nella sua omelia nella Domenica delle Palme.


Quel ramo d’ulivo
Omelia nella Domenica delle Palme
28-03-2021
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Pubblichiamo di seguito il testo integrale con le sue parole.

Quel ramo d’ulivo

Omelia nella Domenica delle Palme

Quando se ne tornarono con i rami di ulivo e di palma in mano, dopo un giorno memorabile sulla via che portava a Gerusalemme, gli uomini, le donne e i bambini che avevano accompagnato festanti, agitando le palme recise e i ramoscelli pallidi, quel personaggio che veniva dalla Galilea, seguito da un gruppo di discepoli, chissà che cosa avranno pensato?

Altri messia erano passati negli ultimi anni… Ogni tanto c’era uno che arrivava e attraversava la Città santa, vantando di essere il messia atteso. Ce n’era stato uno nel 6 dopo Cristo, che proveniva anch’egli dal Nord, un tale Giuda il Galileo o di Gamala, ma era finito male. Molti altri ne erano seguiti, fino e oltre Gesù di Nazareth, come nel 135 un certo Simone Bar Kochba, ma erano intervenuti i Romani con la mano pesante. A Gerusalemme, dunque, erano abbastanza abituati a veder passare personaggi che vantavano la loro aspirazione messianica, cioè ad essere il messia, colui che avrebbe portato un regno di pace e di armonia in mezzo al popolo. Questa era la cifra simbolica, la grande attesa per coloro che vivevano nel solco della spiritualità d’Israele.

Negli ultimi tempi, poi, l’attesa s’era fatta in certo modo crescente, perché al messia veniva attribuita anche la richiesta di liberare dall’oppressore romano. Benché i Romani lasciassero una qualche libertà ai popoli che andavano via via assoggettando, introducendo un sistema nel quale la legislazione veniva lasciata in parte sotto il controllo dei maggiorenti del popolo, come emerge anche dal Nuovo Testamento, tuttavia sappiamo che l’oppressione romana comportava diversi tipi di imposizione, come per esempio il pagare due volte le tasse, ai locali e agli occupanti e la leva per il servizio militare.

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Quella sera se ne saranno tornati riponendo il loro ramo d’ulivo, sospirando e dicendo: è stato bello, ma è già successo altre volte di rincorrere un sogno. Forse avevano osservato però una cosa strana: questo “aspirante messia” non aveva un gruppo di discepoli con le spade in mano e strane armature; certo non erano ben vestiti, né la loro lingua era l’ebraico nobile della città di Gerusalemme, ma parlavano con un’inflessione galilaica; eppure gli abitanti di Gerusalemme dovevano essere stati in qualche modo sorpresi dalla strana impressione di un gruppo che non avrebbe fatto nulla di male, ma neanche tanto di buono, perché il loro potere, la loro capacità di intervento, da uno sguardo esteriore, sembrava molto bassa! Forse qualcuno aveva sentito parlare anche del messaggio proclamato da questo “messia”, tutto incentrato sulla misericordia di Dio e sulla compagnia di poveri e diseredati. Del resto anche il gruppo dei seguaci non sembrava tanto raccomandabile: c’era un cananeo, uno zelota, tanti galilei, e Lui veniva da Nazareth. Ora che cosa può venire di buono da Nazareth? (cfr Gv 1,46).

Tale impressione è la stessa che è raccontata con icastica scrittura nel testo della passione dell’evangelista Marco, che abbiamo appena ascoltato. Gesù parla solo due volte nell’arco del racconto della passione, soltanto all’inizio e alla fine: all’inizio per confermare la pretesa attribuitagli di essere il re dei Giudei, quando Gesù afferma “Io lo sono” (Mc 14, 62) davanti al sommo sacerdote, e alla fine per affidare con un grido questa pretesa a Dio: “Mio Dio, mio Dio perché mi hai abbandonato?!”  (Mc 15,34).

C’è dunque una sorta di corrispondenza tra questo gruppo senza pretese, senza armi, senza potenza, e il racconto della passione che di solito ci dà un po’ l’impressione di estraneità per essere collocato nella Domenica delle Palme: da una parte, una domenica di festa e di gioia, che prevede anche una processione che canta “Osanna!” (anche se oggi essa non ha potuto aver luogo che in forma ridotta), e, dall’altra, come prescrive la liturgia romana, la lettura del racconto della Passione!

Racconto della Passione che ci è offerto quest’anno nella versione così stringata e forte di Marco. Se avete notato, alla fine del racconto, sotto la croce non rimane nessuno, solo due malfattori che non vengono neanche qualificati come buono e cattivo; non ci sono i discepoli, non c’è Giovanni; l’evangelista Marco – con un’espressione inattesa – dice che solo “alcune donne da lontano stavano a guardare” (cfr. Mc 15,40-41).  Solamente lo sguardo amorevole delle donne riesce a comprendere l’evento che lì è avvenuto, ma forse questa è già una rilettura catechetica del Vangelo.

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Vi suggerisco, allora, solo un pensiero di consolazione, perché forse quest’anno, come è già avvenuto l’anno scorso – e speriamo sia l’ultima volta – stiamo vivendo sia la quaresima, sia questo momento della Settimana santa con una certa autenticità: anche noi, quando depositeremo stasera il nostro ramoscello d’ulivo ritornando a casa nostra, penseremo come questa nostra vita, interrotta nelle sue possibilità di evoluzione e nelle sue “magnifiche sorti progressive”, come ci raccontavano quando proclamavano che tutto è nelle nostre mani e in nostro potere, penseremo – dicevo – che è bastato un nemico invisibile per rinchiuderci tutti nelle nostre case! Riponendo tuttavia questo ramo d’olivo, anche noi dovremmo poter dire che il Signore Gesù non ha vinto le potenze del male, combattendole con le armi, con il potere, con il denaro, e con tutti gli altri mezzi che ad esso si collegano, ma le ha vinte passandovi attraverso, prendendo la pecorella smarrita sulle sue spalle, facendosi prossimo degli ultimi e delle persone scartate dalla società d’allora.

Anche noi, depositando il ramoscello d’olivo nella nostra stanza, col segreto desiderio che ci protegga, dovremo pensare di poter asciugare una lacrima, se abbiamo perso qualche persona che ci è stata cara, nella nostra famiglia o nelle famiglie che ci sono vicine; dovremo pensare che il tempo dedicato, anche se con difficoltà, ai bambini e ai ragazzi, talvolta anche gli adolescenti, è un tempo buono anche se molto, molto, difficile; dovremo pensare di sostenere anche le incertezze che alcuni, e forse non saranno pochi, potranno avere per il lavoro. Quel rametto d’olivo sarà il segno della nostra compassione, capace di guarire dall’interno le fatiche, i dolori, le sofferenze, ma anche di ridare fiducia e speranza a chi ci sta accanto.

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Ieri sera qui in cattedrale, per la veglia per i giovani, ho commentato questa singolare circostanza: tutte le tre cantiche della Divina Commedia di Dante, di cui celebriamo i settecento anni dalla morte, si concludono con la parola “stelle” (“E quindi uscimmo a riveder le stelle” – Inferno, XXXIV, 139; “puro e disposto a salire a le stelle”. – Purgatorio, XXXIII, 145; “l’amor che move il sole e l’altre stelle”. – Paradiso, XXXIII, 145). È interessante che nella prima occorrenza, quando Dante esce dall’inferno, sfuggito ai gironi della sofferenza, della morte e del peccato, passa attraverso un pertugio tondo, una piccola finestra che gli consente di uscire a vedere le stelle.

Che il Signore ci faccia trovare nelle nostre case questo pertugio tondo per uscire, noi pure, “a riveder le stelle”. Vicino a quel pertugio mettiamo in silenzio quel ramo d’ulivo.

+Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara