Settimana Sociale, per i cattolici tempo di tornare a dire «i care»

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All’indomani della chiusura della 49ª Settimana Sociale dei Cattolici italiani che si è svolta a Taranto dal 21 al 24 ottobre, proponiamo di seguito l’articolo di fondo di don Cesare Baldi – responsabile della delegazione diocesana – pubblicato sull’ultimo numero dei settimanali diocesani.

 

La settimana sociale è un appuntamento pluriennale della Chiesa italiana, promosso la prima volta dal beato Giuseppe Toniolo nel 1907. L’obiettivo, dice Wikipedia, è “far conoscere ai cattolici il vero messaggio sociale cristiano”. Ora, mi chiedo, ma i cattolici non conoscono già questo messaggio? Quando faccio queste domande il mio parroco mi guarda con aria interrogativa e mi dice: “…ma tu, da dove vieni?”. In effetti ho trascorso l’ultimo quarto di secolo fuori dall’Italia e qualcosa del Belpaese mi sfugge. Ma non posso fare a meno di chiedermi dove siano questi cattolici italiani e dove si sia nascosto il messaggio di prossimità cristiana da loro testimoniato.

Dove sono i nuovi Toniolo, c’è spazio per loro? Sono ascoltati? Sono valorizzati? Vedo un papa “venuto dalla fine del mondo” che interviene su temi fondamentali e importantissimi; qualche vescovo timidamente alza la voce per unirsi al coro e qualche altro se ne distingue.
Mi sembra però che un carattere di fondo del cattolicesimo nostrano stia emergendo con evidente chiarezza, sottolineato dalle ricerche di sociologi come Garelli e Cipriani: l’incertezza. Abbiamo poche idee ben confuse. E i social certamente non ci aiutano a chiarirle. È vero che il nostro paese è il più americano d’Europa fin dai tempi del piano Marshall e dei famosi formaggi gialli dei pacchi viveri distribuiti nelle periferie urbane nell’immediato dopoguerra. Il giovane Andreotti si è fatto conoscere nelle borgate romane proprio grazie alla distribuzione di quei pacchi, promossa dalla Caritas di allora.
Ma oggi a rappresentare l’America non ci sono più i programmi di aiuto alimentari: noi ascoltiamo le loro canzoni, vediamo i loro film, aderiamo ai loro social, insomma ci adeguiamo al loro modo di vivere e di pensare. E quando Melania Trump va a far visita in un centro di accoglienza per bambini rifugiati, separati dalle proprie famiglie, e indossa una giacca con la scritta “I really don’t care. Do U?” (Non me ne frega davvero niente. E a te?), pensiamo che tutto sommato abbia ragione lei.
Ciascuno ha i suoi problemi, perché devo occuparmi dei problemi degli altri? Tanto più se sono stranieri.
Sembriamo sempre più quei due asini che sono morti di fame perché, legati insieme, cercavano ciascuno di mangiare la paglia che vedeva davanti a sé e impediva all’altro di avvicinarsi alla sua parte.
Ora, va bene la prudenza, il discernimento, il rispetto e la carità, ma su alcune cose non possiamo rimanere incerti! Soprattutto noi, cattolici italiani, dovremmo ricordarci del motto fascista “me ne frego”, cui il priore di Barbiana aveva opposto un chiaro “i care” (m’interessa, mi sta a cuore) preso in prestito proprio dal meglio della cultura americana degli anni trenta, usato per esempio dall’attivista cattolica Dorothy Day e da un certo reverendo battista, di nome King. Milani l’aveva appeso sulla porta che dalla scuola dava in camera sua, ci passava davanti ogni giorno.
Ecco, se c’è una cosa che dovrebbe distinguere l’impegno sociale di noi cattolici è proprio questa scelta di campo: tra il fregarsene e il prendersene cura, noi non possiamo che scegliere la seconda. E alzi la mano chi non si ricorda la parabola del buon samaritano! Qui Nostro Signore è lapidario: non importa quante messe frequentiamo, come il sacerdote e il levita, attenti più al rituale che al prossimo, importa quanta cura sappiamo mettere nelle nostre relazioni umane. Su questo saremo giudicati ed è questo amore che siamo chiamati a offrire sull’altare.
Ma allora mi torna la domanda: dove sono tutti ‘sti cattolici, pronti ad impegnarsi per l’altro, a pagare di tasca propria perché lo sfortunato viandante derubato dai briganti possa trovare cura e riparo? Dov’è la cura che mettiamo per gli ammalati, gli anziani, gli stranieri, i minori, le donne, le persone fragili, gli emarginati…?
È possibile che per trovare una proposta d’impegno sociale capace di raccogliere l’eredità di Barbiana, non riesca ad imbattermi che in un collettivo inglese di accademici (the care collective) che pubblica un “Manifesto della cura”? E guarda caso, il sottotitolo dell’opera, “Per una politica dell’interdipendenza” richiama proprio l’aggregatore tematico della 49ª Settimana Sociale: #tuttoèconnesso.
Forse questa volta riusciremo a trovare un terreno comune d’intenti: il “vero messaggio sociale cristiano”, cui rimanda Wikipedia, si troverà finalmente in sintonia con altre tradizioni culturali e religiose per affermare, o meglio per ripetere quel che già sostiene l’enciclica Laudato si’: che il prossimo ci sta a cuore, che ci prendiamo cura degli altri, del pianeta, del futuro! Che siamo cattolici proprio perché crediamo che tutto è connesso e che il futuro dell’altro dipende anche da me, e quello di entrambi sta a cuore a Cristo.

Don Cesare Baldi
Responsabile della delegazione diocesana
alla Settimana Sociale 2021