Il punto d’avvio della nostra riflessione[1] è il notissimo dipinto di Caravaggio che porta il titolo: Incredulità di san Tommaso. Osserviamo la scena di questa icona. Chi conosce un po’ Caravaggio sa che questo pittore è l’inventore della luce. Allora, per un momento non fermiamoci sui personaggi, ma sulla luce del dipinto, che è concentrata sui volti e irrompe come dall’alto irradiando il corpo/costato di Gesù. La luce rimbalza sul volto dei tre discepoli. Ecco, la ferita del costato è come un varco che raccoglie la sorgente misteriosa della luce. È come una finestra aperta. Aperta su che cosa? Vorrei farvi sentire per un momento il roveto ardente da cui dobbiamo sempre di nuovo partire. E tutto il resto che diremo e faremo non potrà che essere attratto da questo varco, che è uno squarcio sul mistero santo di Dio. Per capire tutto ciò bisogna fermarci brevemente sulle tre menzioni di Tommaso nel vangelo di Giovanni. Voi sapete che Tommaso non compare per la prima volta quando viene descritta questa scena. Nel vangelo di Giovanni questo è già il terzo intervento di Tommaso.
[1] Il testo è un genere letterario singolare, che intreccia arte e fede, perché la bellezza è lo splendore del bene e del vero, anzi del santo. La prospettiva si rifà a H.U. von Balthasar: «La bellezza è l’ultima parola che l’intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto. Essa è la bellezza disinteressata senza la quale il mondo antico era incapace di intendersi, ma la quale ha preso congedo in punta di piedi dal moderno mondo degli interessi, per abbandonarlo alla sua cupidità e alla sua tristezza» (in Gloria. Una estetica teologica, Jaca Book, Milano 1971 [or. 1961], 10). L’intervento fu tenuto a braccio la prima volta a Torino Spiritualità e poi più volte rivisto e rielaborato.