Gesù, la Chiesa e i poveri. Dare un’anima al volontariato

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Di seguito pubblichiamo il testo integrale dell’omelia che il vescovo Franco Giulio Brambilla ha pronunciato alla messa pontificale per la festa di San Gaudenzio, patrono della città, nella mattina di domenica 22 gennaio in Basilica a Novara.

 

Gesù, la Chiesa e i poveri

Dare un’anima al volontariato

Discorso alla città e alla diocesi – San Gaudenzio 2023

 Il Vangelo della festa di san Gaudenzio di quest’anno (Mc 14,3-9) ci parla del gesto della donna di Betania che versa il suo profumo preziosissimo per onorare la pasqua di Gesù. Questo spreco inaudito non va messo in contrapposizione al servizio per i poveri, gli ultimi e i bisognosi, perché Gesù dice che «i poveri li avete sempre con voi», proprio quando invita a custodire gelosamente l’incalcolabile valore della sua Pasqua, racchiusa nell’Eucaristia, perché solo a partire dal centro si accende un nuovo sguardo per riconoscere e servire i poveri, i piccoli, gli esclusi, nelle forme antiche e recenti.


Gesù, la Chiesa e i poveri
Dare un’anima al volontariato. Discorso alla città e alla diocesi – San Gaudenzio 2023
22-01-2023
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«I poveri li avete sempre con voi» (Mc 14,7), proclama Gesù, non quasi per rassegnarsi a tenerli alla periferia della società e qualche volta anche della Chiesa, ma perché essi sono una vocazione e un compito. Essi rappresentano una “chiamata” per il credente a cercare quell’unico bene che sazia il desiderio dell’uomo e a condividere gli altri beni perché nessuno resti fuori dalla sala del convito. E, dunque, sono anche un “compito”: vivere la vita cristiana come uno spazio che sente i poveri, i piccoli e tutte le altre forme di emarginazione nel grembo della propria casa, addirittura lasciandoli collocare dal Signore Gesù al centro della comunità.

 Il vaso di nardo preziosissimo

Il Vangelo ci parla di una donna che porta il suo profumo preziosissimo: «giunse una donna, che aveva un vaso di alabastro, pieno di profumo di puro nardo, di grande valore» (Mc 14,3). È bello pensarla senza nome, perché il suo volto s’illumina con il gesto, descritto con enfasi dall’evangelista Marco. Essa porta quasi mezzo chilo di profumo molto costoso. È uno spreco eccessivo da ogni punto di vista: della quantità, della qualità, del costo, dello spazio, del tempo. È una gratuità che deborda da tutte le parti. La donna si avvicina a Gesù e lo onora sciupando il suo bene più prezioso, lungamente tenuto in disparte per l’occasione della vita in cui mostrare la sua bellezza. Questo è ciò che deve fare anzitutto la donna-Chiesa per quanto possa sembrare sconvolgente: mettere al centro Gesù, onorare il suo corpo sepolto, accendere l’istinto naturale dell’amore per custodire le piaghe del Crocifisso.

Per fare questo occorre, però, mettere in conto lo spreco della donna, stare ai piedi di Gesù ad ascoltare la sua Parola, custodire il Crocifisso, celebrare la sua dedizione per noi nell’Eucaristia. Mi si comprenda bene! Non basta far pregare il gruppo Caritas, non basta celebrare una messa ogni tanto, non è sufficiente passare un momento dalla chiesa, ma occorre che la Chiesa che serve sia prima di tutto una Chiesa che prega, che ascolta la sua Parola, che si lascia da cima a fondo mettere in discussione dalla pasqua di Gesù, che si lascia contagiare dalla corrente viva e vitale del corpo crocifisso. Occorre fare come i grandi santi della carità, icone viventi della donna evangelica, che hanno molto amato il Signore dell’Eucaristia, che sono diventati testimoni inesauribili della carità, costruendo storie stupende di dedizione e trascinando nella loro scia un numero incalcolabile di discepoli. Non c’è altra dimostrazione dell’importanza di onorare il corpo di Gesù: a guardalo, quel vaso di profumo preziosissimo ci sorprende e ci affascina; a seguirlo, quel gesto dispiega tutta la sua carica di trasformazione personale e sociale!

Si poteva venderlo per più di trecento denari

Il gesto della donna-Chiesa che non smette mai di contemplare il suo Signore, di onorare il corpo crocifisso, di lenire le ferite della passione con il balsamo più costoso, è motivo di scandalo e di mormorazione. La grazia a caro prezzo suscita malumore e fa emergere false alternative. Mentre la donna-Chiesa onora Gesù, i presenti alzano il dito calcolatore: «Si poteva venderlo per più di trecento denari e darli ai poveri» (Mc 14,5). Trecento danari sono il salario di un anno di un bracciante palestinese, sono una cifra spropositata, si poteva barattare il gesto della donna per aiutare i poveri. Molti hanno idee discordanti sul profumo sprecato, anche i discepoli discutono e si dividono. Si poteva venderlo… si poteva fare… si doveva intervenire… Emergono tutte le false alternative della carità. La carità sta spesso sulle nostre labbra e nei nostri programmi e talvolta la usiamo persino come piedistallo per la nostra affermazione.

Il gesto della donna, dunque, contesta tutte le assolutizzazioni e le nostre false alternative: tra Dio e il prossimo, tra il verticale e l’orizzontale, tra la contemplazione e l’azione, tra la preghiera e l’impegno pratico, tra l’interiorità e l’aiuto concreto, tra un gruppo di spiritualità e un gruppo di servizio, tra una Chiesa della Parola e una Chiesa della carità, tra un vissuto spirituale e una presenza temporale, tra una missione che privilegia l’aspetto educativo di evangelizzazione e un impegno sociale di promozione umana. Certo vi possono essere sensibilità e vocazioni più concentrate talora sul primo aspetto e talaltra sul secondo. Ma in ogni vocazione cristiana, così come in ogni missione dei gruppi, delle associazioni, della Chiesa stessa, è necessario mantenere l’armonia tra la parola e il gesto, tra l’indicazione profetica e la realizzazione storica, tra il momento in cui si riconosce l’assolutezza di Dio nel culto e nella preghiera e il momento in cui questa priorità si fa carne e storia nel riconoscimento dell’altro.

Noi siamo tentati di contrapporre le cose: un tempo il culto e la preghiera potevano essere posti in alternativa alla pratica della giustizia e della carità; oggi è l’impegno pratico del volontariato o del servizio sociale che viene contrapposto al bisogno di formazione e di crescita nella fede. Nessuna di queste due forme però è assoluta, né la preghiera né il servizio. Ma assoluto è l’uomo nella comunione con Dio: l’uomo che vive e l’una e l’altro nello Spirito di Gesù, che li fa vivere dentro l’iniziativa di Dio. Anche per noi la carità proclamata può diventare un alibi, un discorso apparentemente convincente: «trecento denari sono tanti, tentiamo di distribuirli equamente!». Anche noi possiamo mormorare come i discepoli, scansando la sfida della carità che si alimenta del gesto della donna: il suo senso non è solo di “fare la carità”, ma di essere uomini e donne nella carità di Dio, di essere una libertà capace di comunione, che si lascia illuminare lo sguardo e accendere il cuore per vedere i poveri e per servirli veramente.

       Lasciatela stare… I poveri li avete sempre con voi

Finalmente Gesù prende la parola. La sua parola risuona come un imperativo perentorio nei confronti della donna-Chiesa: «lasciatela stare/lasciala fare, perché la infastidite?» (Mc 14,6), ma il testo originale dice «scioglietela, liberatela!». Certo occorre quasi liberare, lasciar andare la donna-Chiesa che con gli occhi dell’amore e della tenerezza si slancia verso il Signore, compie verso di lui l’opera buona, l’unica necessaria: custodire la misura incalcolabile della dedizione crocifissa di Gesù. Questo fa la Chiesa: celebra la grazia a caro prezzo, sta presso Gesù che sulla croce grida: “Ho sete”. Bisogna che noi sciogliamo la donna, che non teniamo legata nei lacci dei nostri calcoli umani la Chiesa che pone al centro il Signore. Lasciatela stare! Permettiamo alla Chiesa di rimanere presso la croce, e anche noi cerchiamo di essere una Chiesa che dimora presso il costato di Gesù, sconfiggiamo dentro di noi le figure tenebrose che contrappongono Gesù ai poveri, l’amore di Dio all’amore del prossimo, come fossero due amori inconciliabili.

Se liberiamo la donna-Chiesa dall’essere solo una società di mutuo soccorso, anche noi scopriremo di avere occhi nuovi per i poveri. Gesù ce li mostra di nuovo con un indicativo sconcertante: «I poveri infatti li avete sempre con voi» (Mc 14,7)! Siamo al centro del nostro cammino, l’indicativo di Gesù è la Parola che ci consegna i poveri.

     *     I poveri sono una “chiamata” (I poveri li avete…). I poveri sono una realtà vera e chiedono alla Chiesa di essere ascoltati e accolti. Se però Gesù non ce li indica, se non ce li mostra nella giusta luce, essi possono essere solo un bisogno da soddisfare, una relazione di aiuto da servire, un numero statistico da indagare, un progetto da sostenere, una micro o macrorealizzazione da promuovere. Per il Vangelo i poveri sono un “appello” che Gesù ci invia perché noi possiamo scoprire la nostra chiamata. Senza leggere nei bisogni una domanda più radicale, senza ascoltare la chiamata ad un bene più grande, una cura delle povertà intesa in modo solo materiale, non apre né il singolo né la società alla ricerca di quel bene che solo riempie il cuore dell’uomo. Questo è l’appello che viene dai poveri e che bisogna ascoltare. Esso ci dice che il povero non ha bisogno solo di aiuto, ma di comunione, che egli non è solo un essere di bisogno, ma è una libertà che chiede relazione e prossimità. I poveri sono il libro in cui io leggo che anche la mia vita, così piena di cose e di beni, manca dell’unica cosa necessaria che è la capacità di relazione, di condivisione, di amore, di affetto, di dedizione, di vocazione. I poveri chiedono di accogliere il Vangelo nella sua integralità, di introdurli nella casa della libertà fraterna, nello spazio della comunione. Alla fine i poveri non chiedono solo beni o cose, ma si attendono fraternità.

     *     I poveri sono un “compito” (li avete sempre…). Nella parola di Gesù che ci consegna i poveri come appello, appare un provocante avverbio: li avete “sempre”. I poveri sono un impegno “interminabile” per la Chiesa. I poveri non possono essere un compito episodico, un’attenzione da risvegliare quando si accende un bisogno, accade un’emergenza, succede una tragedia. I poveri sono un compito costante per il credente e la Chiesa. Se si ascolta la loro chiamata, allora i poveri, gli ultimi, sono un compito che stimola una dedizione costante, che sollecita cammini di fedeltà. Il “sempre” di Gesù esclude che si possa essere a mezzo servizio con i poveri, che ci si possa accostare con l’atteggiamento del “mordi e fuggi”. Dare una mano, aiutare nel volontariato, contiene un interrogativo forte sulla nostra identità. È facile spiegarlo: quando uno ha fatto un’esperienza di servizio, dice spesso che è più quello che ha ricevuto di quello che ha dato. Il volontario riceve gratificazione, accresce la coscienza di servire a qualche cosa, si sente bene, e così alla fine deve riconoscere che non è stato solo utile, ma ha anche arricchito la sua umanità. Il gesto della carità, il “dare una mano”, comporta di “stringere una mano”, di entrare nella relazione con altri, di operare uno scambio simbolico che è anche costruzione della propria identità. La carità, il servizio, l’amore del prossimo interroga e costruisce la mia identità personale. Fare il volontario non può lasciarti come prima, non può non cambiarti la vita. Uno non può essere competitivo e arrivista al lavoro durante la settimana e vestire al sabato i panni del volontario. Pertanto bisogna superare la pratica di un volontariato solo estemporaneo, improvvisato, che non persiste nell’impegno. Non solo perché il povero e il piccolo esigono rispetto, non solo perché ascoltare e accogliere il povero richiede di andare oltre i ritagli di tempo, ma perché il modo propriamente cristiano della cura del povero è quella della fedeltà, della dedizione stabile e della prossimità affidabile. La cura dei poveri ci mette per strada con loro, ci fa loro compagni di viaggio, non sopporta interventi a pioggia, esige continuità sul fronte delle proposte e delle persone. Anzi, in modo più preciso richiede vocazioni permanenti o, in questo tempo di provvisorietà, punti di riferimento e persone che coltivino almeno il sogno di una passione fedele. Sarebbe interessante analizzare i progetti delle nostre parrocchie degli ultimi dieci anni per vedere quanta stabilità, continuità, consistenza, affidabilità la cura dei poveri ha promosso e attuato.

     *     I poveri sono una vocazione “comune” (…con voi). Alla fine, la dedizione stabile ai poveri richiede di diventare una vocazione comune, un impegno “ecclesiale”. Ci potranno essere gesti e realizzazioni profetiche, ma queste dovranno svecchiare il corpo della Chiesa, snellire la vita della comunità cristiana, mettere in discussione i suoi stili, le sue strutture, la gestione dei suoi beni. Gesù dice che i poveri li avete sempre “con voi”. La prossimità della Chiesa ai poveri ha da essere fatta con uno stile ecclesiale, deve suscitare vocazioni comuni e cammini d’insieme. La storia interminabile della carità non è tanto la storia di singoli profeti o di operatori isolati, ma i grandi santi della carità sono stati trascinatori di altre persone, punti di attrazione di innumerevoli vocazioni, capaci di contagiare in poco tempo la vita di molti. La carità (e la Caritas) non può procedere divisa, in ordine sparso, secondo la logica del piccolo è bello. Per la carità si esige coralità, senso del gioco di squadra, investimento comune, convergenza di forze, unità di risorse. Ma soprattutto ci è richiesto di stare con i poveri, o meglio di farli abitare presso di noi, nel senso che non può esistere una Chiesa dalla doppia vita, quella dell’efficienza, delle megastrutture e dei progetti faraonici e quella che poi che dà una mano agli altri, che appare come una protesi innestata su un corpo che vive secondo altri criteri e stili diversi. Se la carità (e la Caritas) non mettono in discussione la vita della comunità e i suoi modi di annunciare, celebrare, ma soprattutto di fare Chiesa, è destinata ad essere lasciata agli “specialisti della carità”. In questo modo i poveri non sono veramente “con noi”!

Dare un’anima al servizio

Vorrei ora dare alcune indicazioni pratiche, che nascono da due preoccupazioni. Mi colpisce da un lato il venir meno di uno spirito di gratuità nel volontariato degli adulti e dall’altro la caduta del volontariato nel mondo giovanile. Sul primo tema spendo solo una parola: il percorso di inquadramento di tante forme di volontariato nella legge sul Terzo Settore può correre il rischio di spegnere il volontariato umile e gratuito. Le comunità cristiane e i pastori non dovranno smettere di favorire un volontariato disponibile, che sia semplicemente gratuito. Solo con l’ossigeno della gratuità anche il volontariato più strutturato e a tempo pieno non perderà la sua anima di generosità. Chiedo alle comunità cristiane e ai gruppi di volontariato di cercare i modi con cui correggere l’impoverimento del volontariato gratuito.

Mi soffermo invece un po’ di più sul secondo tema: il cammino formativo del volontariato giovanile. I giovani sembrano assenti dal servizio, ma le inchieste indicano uno dei motivi nel fatto che gli adulti non danno a loro sufficientemente spazio. Bisognerà abbassare la soglia di accesso per il loro ingresso nel campo del volontariato.

Il servizio sociale, l’amore del prossimo, la dedizione agli altri, il partecipare a una relazione di aiuto nascono essenzialmente come bisogno. Alcuni infatti preferiscono parlare con le mani, con il lavoro comune, e questo si esprime come un bisogno impellente di fare qualcosa per gli altri. La nostra società è piena di questi giovani, ma la formazione prevalentemente verbale (anche nei nostri gruppi giovanili negli oratori), poco incline al tirocinio e alla fatica, mette ai margini questo tipo di persone, forse senza saperlo. Ciò non significa che questi ragazzi e giovani non abbiano sentimenti, sogni, progetti, desideri, ma avendo difficoltà ad esprimerli a parole cercano un’altra via: pensano che li possano vivere con i gesti, con i fatti. È una felice sorpresa vedere come molti, su cui non scommettevamo, li ritroviamo impegnati anche per lunghi periodi in altri luoghi: nella Caritas, nella Croce Rossa, nei Vigili del fuoco, nel WWF, o altre forme di volontariato. Un educatore armonico deve saper bene interpretare i desideri, le persone, i caratteri, i tipi umani. Dare una mano fa sentire attivi, importanti, protagonisti, ma ciò non va subito interpretato come un tratto sconveniente, bensì va elaborato positivamente.

Allora occorre far percepire che dare una mano, porre il gesto del servizio, contiene potenzialmente una domanda, un interrogativo sulla propria identità. Il servizio non solo espri­me, ma costruisce l’identità personale, toglie dall’improvvisazione, fa ordinare la vita, obbliga a resistere nella fatica e nello sforzo, struttura la personalità, plasma il carattere, costruisce la spina dorsale, stabilizza nelle situazioni difficili. Bisogna pertanto prospettare una diversità di modi: più elastici per i ragazzi e gli adolescenti, dove il servizio ha ancora la funzione dell’esperimento, del tentativo di fare per provare se stessi; più continuativi per i giovani, dove il servizio richiede una dedizione a obiettivi comuni, dove si mette insieme non solo lo sforzo, ma anche il progetto, gli ideali, il controllo dei risultati, la continuità sulle lunghe distanze. Se nell’adolescenza il servizio è per il ragazzo, più avanti il giovane è per il servizio, per il cammino comune, per una costruzione comune. Solo attraverso questo passaggio non facile, spunterà l’interrogativo, o anche solo la percezione che il volontariato interroga se stessi e costruisce la vita personale.

L’interrogativo su se stessi, sulla propria identità, sulla tenuta personale, porta con sé la domanda sul proprio futuro: ci interroga non solo sul che cosa farò, ma su come sarò. L’identità personale diventa responsabilità, cioè risposta a una chiamata iscritta nel gesto, nel servizio, nell’aiuto. Il servizio della carità parla della vita, fa ascoltare il suo appello, rassicura sul sentirsi adatto per questo o per quello, indica che le scelte e la dedizione contengono una provocazione: non solo per sé, ma con gli altri, non solo per dare una mano, ma per stringere una mano. Ma stringere una mano significa camminare in una direzione, comporta ascoltare una chiamata comune e mettersi su un cammino associato, più francamente significa maturare in una “vocazione”. I momenti formativi, la stessa riflessione sociale e politica, il confronto e il dibattito sui temi della giustizia e della pace, del disagio e della marginalità, della mondialità e dell’interculturalità, non possono a un certo punto non far ascoltare l’appello che portano con sé: l’appello a dare alla propria identità una prospettiva, una scelta di vita, un progetto di esistenza comune con altre persone. Se ci pensiamo, così è avvenuto per molti, anche se non ne erano coscienti: si è scelta una persona con cui vivere perché camminava con noi, perché le esperienze fatte diventano un filtro nella scelta anche degli altri; oppure si è scelta una comunità con cui condividere un sogno, un destino, un servizio per tutta la vita.

Oggi questa parola spaventa: “per tutta la vita” non si deve scegliere, dice la cultura dominante, perché domani cambiano le cose e noi stessi; tuttavia “per sempre” si può decidere se prima abbiamo provato noi stessi in una dedizione non episodica, improvvisata, che assaggia come all’aperitivo, senza mai sedersi al banchetto della vita. La preghiera, la liturgia, la formazione, la riflessione, il silenzio, l’approfondimento culturale (tutto ciò che chiamiamo appunto formazione) può essere scoperto, dev’essere scoperto anche nel gesto della carità, nel volontariato, nel servizio sociale. Guai se si dicesse che il volontario agisce, ma non prega, non comunica, non pensa, non scambia desideri e sogni. A questo punto egli stesso si impoverirebbe e domani, anche solo in una normale vita di famiglia, non saprebbe reggere sui ritmi della vita quotidiana. La carità da se stessa richiede di diventare vocazione, scelta di vita: altrimenti molti giovani, che hanno fatto con noi un cammino di formazione e di fede, li potremmo trovare domani con comportamenti che sembrano aver lasciato alle spalle il proprio volontariato come un esperimento giovanile dimenticato nella vita adulta.

       Per fortuna molti altri hanno vissuto il loro servizio come una malattia inguaribile, come una passione irresistibile che ha plasmato le proprie mani, le proprie fatiche, le fibre dell’esistenza e ha tessuto meravigliose storie di uomini e di donne che sono ritornati alla carità come vocazione, come scelta di vita che, non dico con spontaneità, ma certo con semplicità, continua anche nella vita matrimoniale, nel servizio ecclesiale, nella vita sociale, nella professione e nell’impegno politico. La formazione al volontariato deve prospettarsi questa mèta, perché esso non sia solo il sapore di una stagione della vita, ma il colore della propria vocazione. Si può essere preti, sposati, laici, missionari, professionisti, politici in mille maniere, ma certo il tocco di un’esistenza che si lascia permeare dalla dedizione come una normale attitudine del proprio impegno dà all’esistenza il suo tratto cristiano. Il percorso della carità approda alla carità come “missione”, mette per strada gli uomini e le donne della carità!

Mentre stavo pensando all’omelia di san Gaudenzio è venuto a mancare Dominique Lapierre, fecondissimo autore del best seller mondiale, La città della gioia (1985), che ha venduto oltre dieci milioni di copie nel mondo, un libro-testimonianza nato dall’incontro con Madre Teresa di Calcutta. Ha voluto che sulla sua tomba fosse scritto un proverbio indiano: «Tutto ciò che non è donato è perduto». Questo proverbio richiama l’unico detto di Gesù, non citato nei vangeli, che ci è giunto però attraverso gli Atti degli Apostoli: «C’è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20,35). Questa è la differenza della carità cristiana: ciò che è donato non solo non va perduto, ma corona di gioia la nostra vita!

+Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara