Concilio Vaticano II: il significato della sua intenzione pastorale

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Oggi, martedì 11 ottobre 2022, cade il 60° anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II. Per celebrare la ricorrenza ripubblichiamo  un intervento del vescovo Franco Giulio che ne mette in luce gli aspetti profetici e la dimensione pastorale.

Il significato dell’intenzione pastorale del Concilio Vaticano II

 

Ho pensato questo intervento a partire dalla mia doppia appartenenza di vescovo e teologo. Il Vaticano II è diventato un “segno di contraddizione” nella Chiesa di oggi. Non ci si dovrebbe, però, meravigliare di questo fatto: tutti i grandi Concili hanno sempre suscitato un momento forte d’impatto critico. I Concili, infatti, sono un atto di tradizione vivente. In quanto atto di “tradizione” il Concilio torna alle origini a partire da una domanda presente; in quanto atto “vivente” la ripresa dell’inizio è un gesto nuovo di discernimento dell’epoca attuale. Credo che si possa dire sinteticamente il senso dell’evento conciliare così: il leitmotiv del Concilio Vaticano II è stato il suo carattere “pastorale”. Tanto che nel postconcilio il termine è diventato quasi una parola magica che ha corso il pericolo dell’inflazione. Tutto è diventato pastorale e ogni cosa doveva essere pastorale. Vorrei riferirmi brevemente a questa parola chiave per delineare il portale di ingresso al tema.


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Il senso del mio intervento è il seguente: far brillare il senso del Vaticano II alla “prima generazione” nata successivamente, senza aver vissuto il Concilio. Per questo farò due istantanee: l’una panoramica, che ci presenterà la singolarità del Vaticano II come concilio “pastorale”; l’altra che metterà a fuoco alcuni ingrandimenti, seguendo il filo rosso delle quattro costituzioni conciliari, quasi fossero i quattro pilastri dell’edificio del Vaticano II.

La singolarità del Vaticano II come Concilio “pastorale”

Mi introduco al tema con due riferimenti concreti: il primo alla figura di Papa Giovanni, il secondo al volume di J.W. O’Malley sul Vaticano II.

È noto che il motivo della fortuna del termine “pastorale”, per indicare lo spirito e il fine del Concilio, risale allo stesso Papa Giovanni che con tale espressione volle indicare l’intenzione sintetica proposta all’assise mondiale del Vescovi. Già dal suo annuncio, il Papa enfatizzò l’intento pastorale del Concilio, declinandolo in tre aspetti: l’apertura della Chiesa al mondo moderno, la ricomposizione dell’unità tra i cristiani e il tema della giustizia e della pace. Fin dall’annuncio del Concilio, il gennaio del 1959, queste istanze parvero subito tratteggiate e hanno trovato nel discorso di apertura del Concilio la loro convinta proclamazione. Il testo della Gaudet Mater Ecclesia, diventato giustamente famoso, indicava lo stile del Concilio nella sfida ai “profeti di sventura”: «essi non sono capaci di veder altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori; e arrivano al punto da comportarsi come se non avessero nulla da imparare dalla storia, che è maestra di vita, e come se ai tempi dei precedenti Concili tutto procedesse felicemente quanto alla dottrina cristiana, alla morale, alla giusta libertà della Chiesa». E di seguito il Papa aggiunge con uno scatto di speranza: «A noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti di sventura, che annunciano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo».

In realtà, non sta qui la vera novità del discorso di apertura al Concilio. Potremmo dire che questo è l’elemento atmosferico, il motivo che apre la cosiddetta stagione della “primavera” della Chiesa. Decisivo è un altro passaggio che Papa Giovanni nel suo manoscritto [F 10] definiva il “punctum saliens” e che spiega l’intento “pastorale” del Concilio[1]. Ascoltiamolo: «Per questo [per ribadire la dottrina] non occorreva un Concilio. Ma dalla rinnovata, serena e tranquilla adesione a tutto l’insegnamento della Chiesa […] lo spirito cristiano, cattolico e apostolico del mondo intero attende un balzo in avanti verso una penetrazione dottrinale e una formazione delle coscienze in corrispondenza […] all’autentica dottrina studiata ed esposta secondo le forme dell’indagine e della formulazione letteraria del pensiero moderno. Altra è la sostanza dell’antica dottrina del depositum fidei, ed altra è la formulazione del suo rivestimento: ed è di questo che devesi – con pazienza se occorre – tener gran conto, tutto misurando nelle forme e proporzioni di un magistero a carattere prevalentemente pastorale»[2].

A questo proposito esiste anche un piccolo giallo. Il testo latino ufficiale pronunciato nella Basilica di S. Pietro e apparso negli Acta Apostolicae Sedis “traduceva” in latino il discorso di mano dello stesso Pontefice così: Est enim aliud ipsum depositum fidei, seu veritates, quae veneranda nostra doctrina continentur, aliud modus, quo eaedem enuntiantur, eodem tamen sensu eademque sententia. Pertanto oggi leggiamo nell’Enchiridium Vaticanum la nuova traduzione italiana fatta sul testo latino “corretto”: «Altro è infatti il deposito della fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina; altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione» (EV I, 55*). Papa Giovanni si rese conto della differenza e continuò a citare con candido puntiglio e ripetutamente (ad es. il 4 nov. e il 6 dic. e poi, soprattutto ai cardinali, il 23 dic. 1962), anche dopo la “traduzione ufficiale” latina, la sua scrittura italiana del testo. La diversità – come si può vedere – non è di poco conto per spiegare il senso dell’“indole pastorale” del Concilio. Il Pontefice distingueva, nell’antica dottrina del depositum fidei, la “sostanza” dal “rivestimento”, identificando il programma di “aggiornamento” in un “magistero a carattere prevalentemente pastorale”. Mentre la correzione dell’invisibile mano latina riportava la questione a una concezione “dottrinalista” della rivelazione, parlando del depositum fidei come di un insieme di veritates (si noti il plurale!), di cui possono esistere modalità diverse di formulazione. Papa Giovanni richiamava la coppia “sostanza”-“rivesti­mento” probabilmente secondo il senso comune, mentre la correzione latina riproponeva la distinzione tra verità dottrinale e formulazione linguistica. Se al Papa si fosse chiesto in che cosa consistesse la sostanza del messaggio cristiano, certo avrebbe risposto, con il linguaggio di quel tempo, l’incarnazione del Verbo, la stessa persona di Gesù Cristo. Fin qui l’intuizione inaugurale del Papa.

Tuttavia, come ha fatto notare uno dei più acuti commentatori del Concilio (Schillebeeckx), non si può sfilare il “rivestimento” dalla “sostanza” della fede, con la stessa disinvoltura con cui le bambine vestono e svestono la loro Barbie. Qui nasce il conflitto delle interpretazioni circa il senso del carattere “pastorale” dei pronunciamenti conciliari, ma soprattutto prende avvio il grande lavoro del Concilio per riformulare i temi della rivelazione, della chiesa e del mondo. Amo pensare che la proposizione di papa Giovanni sia più utile per dire che cosa va superato (una concezione esclusivamente dottrinale della rivelazione), che per suggerire come deve essere pensato in positivo il rapporto tra sostanza e rivestimento. La formulazione è ancora maldestra e troverà solo alla fine del Concilio un suo assestamento nella coppia, di ascendenza francese, di rivelazione “evento” e rivelazione “parola”. Con una chiara prevalenza della “rivelazione-evento”, abbandonando talvolta la “rivelazione-parola” al ruolo di mero “rivestimento” culturale dell’ineffabilità dell’evento. L’oscillazione del pendolo è evidente: da una concezione dottrinalista a una concezione eventistica della rivelazione. Se il merito dell’intervento del Pontefice era di sdoganare il messaggio cristiano e il suo annuncio nel mondo contemporaneo da una visione concettualista della verità cristiana, il pericolo del postconcilio sarà di risospingere il cuore della fede in una zona di ineffabilità, che avrebbe poi dovuto indossare la “veste” di una parola da adattare sempre da capo al linguaggio del tempo, in una sorta di… interpretazione infinita. Era questo il senso del magistero “pastorale”? Si riduceva solo a un problema di comunicabilità e comunicazione? O andava forse a toccare più in profondità il senso della verità cristiana?

Nel 2010 è uscito in italiano un volume del gesuita J.W. O’Malley[3]. La sua proposta entra nell’attuale “conflitto delle interpretazioni” attraverso una ricostruzione, intitolata con la classica domanda che ricorre nella ricerca sul Gesù storico: “Che cosa è (veramente) successo al Vaticano II?”. L’autore cerca di stare al di qua delle attuali polarizzazioni tra ermeneutica della continuità ed ermeneutica della rottura, oppure di quella più insidiosa tra lo “spirito” del Concilio e i “testi” del Concilio. La sua proposta è lineare: cerca di individuare una sorta di nucleo sorgivo dell’evento conciliare, cioè tre “problemi-al-fondo-dei-problemi” che a suo parere costituiscono la matrice generante del Concilio: 1) l’aggiornamento, lo sviluppo, il ressourcement come modi diversi di affrontare il cambiamento; 2) il rapporto tra centro e periferia nella questione della collegialità; 3) il modo di intervento della Chiesa che si esprime nello stile pastorale del Concilio. La linea interpretativa di O’Malley indica proprio nello “stile pastorale” il motivo sintetico del Concilio. «Il Vaticano II fu un ‘evento linguistico’» (p. 313) e come “evento linguistico” ha plasmato la corrispondenza tra forma e contenuto, dando un tono unitario non solo ai testi, ma altresì rivelando in essi lo stile della Chiesa del Concilio, pur nella disparità e differenza dei 16 documenti prodotti. Come “evento linguistico” il Concilio Vaticano II è un unicum nella storia della Chiesa. Questa sarebbe la singolarità del Vaticano II.

Con queste due indicazioni, l’una che sta all’inizio del Concilio e l’altra che entra nel merito dell’attuale conflitto delle interpretazioni, provo anch’io – nella seconda parte del mio intervento – a fare un breve esercizio di “memoria creativa” per rileggere in senso forte il carattere “pastorale” del Concilio.

Il Vaticano II, “bussola” per la Chiesa di oggi

Parto da un indizio, introdotto con grande cautela dai Padri conciliari, ma che è stato – a mio avviso – come la “matrice del Concilio”. Lo faccio attraverso le quattro grandi Costituzioni, riprendendo una brevissima espressione latina, che ne costituisce come il “logo”. Cercherò di far apprezzare il grande dono del Concilio, la “più grande grazia fatta alla Chiesa del XX secolo” (san Giovanni Paolo II), ma insieme di far notare ciò che resta incompiuto, ciò che sta ancora davanti a noi. Così troveremo quasi una “bussola” che apra la via ad affrontare i problemi nuovi che si presentano a noi, raccogliendo l’eredità viva del Concilio, ma senza strumentalizzarlo per risolvere le nuove situazioni che si affacciano in questi primi decenni del III millennio.

  1. Culmen et fons (SC 10): una Chiesa che celebra

La prima eredità del Concilio è quella di una Chiesa che passa da una comunità del “sentir messa” a una Chiesa che “celebra”. La Chiesa ritrova la centralità della domenica e prega nella sua lingua madre. Non per nulla questa è stata forse la scelta che ha influenzato profondamente il corpo ecclesiale e dopo il Concilio ha lasciato i postumi più profondi. In questi ultimi anni ne sentiamo ancora i brividi. Non è un caso che c’è stato e c’è accanimento proprio su questo punto. Cosa significa che la liturgia sia stata tradotta nella lingua madre di ciascun popolo? È solo un’operazione che rende comprensibile il modo e il contenuto della preghiera? Ricordiamo le energie profuse nel primo decennio del Concilio per l’introduzione graduale della riforma liturgica. Il grande pontefice Paolo VI conosceva la delicatezza dell’operazione, sapeva che si stava toccando la grammatica fondamentale della vasta comunità cattolica nel suo rapporto con Dio, sentiva già le obiezioni circa la perdita del senso sacrale e misterico dell’eu­caristia, vedeva l’impazienza di certi riformatori spregiudicati, che hanno dato cattiva prova di sé nel primo decennio con celebrazioni da hap­pening, ma il Papa, con una serenità pari alla determinazione, ha dato corso alla grande riforma liturgica, uno degli aspetti per cui sarà ricordato il Vaticano II.

Proprio su questo aspetto voglio fare il primo esercizio di memoria, significativo anche per la Chiesa d’oggi: dobbiamo riconoscere che, nonostante le intemperanze e le stravaganze dei primi decenni, la Chiesa che celebra, cioè l’ac­tuo­sa participatio della comunità credente è una realtà bella, armonica, profonda, spirituale, che alimenta la vita personale e la preghiera comunitaria. Il senso della celebrazione e della domenica sta gradualmente passando ad essere percepito come il centro della vita spirituale e pastorale (sine dominico non possumus). Per molti credenti celebrare nella propria comunità, soprattutto nei momenti centrali dell’anno (Natale, Triduo pasquale, Avvento e Quaresima, sacramenti cristiani, ecc.) è un momento di forte identificazione della comunità cattolica ed è un’esperienza interiore caratterizzante la vita cristiana. Facciamone grata memoria. Semmai c’è stato un appannamento delle altre forme celebrative, che sono diventate un po’ evanescenti, salvo forse la liturgia delle ore. Occorrerebbe ricuperare l’ampiezza e ariosità delle altre forme rituali della Chiesa.

Su una cosa, però, vorrei richiamare la nostra attenzione. Forse non è ancora stata notata la cosa più sconvolgente. La riforma liturgica ha significato che le comunità e le persone pregano nella propria lingua: ma questo non è un fatto indolore, che riguarda solo il comprendere e il partecipare al senso del mistero celebrato. Non credo sia solo questo: ciò che trasforma più in radice la spiritualità e l’azione della Chiesa è il fatto che pregare con la propria lingua, meglio ancora ricevere il dono di Dio che è la Pasqua di Gesù attraverso i propri linguaggi (non solo la parola, ma il gesto, l’immagine, la musica, le diverse presenze ministeriali, ecc.) muta radicalmente il nostro rapporto con il mistero di Dio. Dopo oltre un millennio d’incom­prensione del senso del mistero celebrato, che certo ha prodotto stupende forme sostitutive (che forse hanno alimentato più il senso del “misterioso” che del “mistero” cristiano), ora preghiamo con il tessuto della nostra lingua. Con essa Dio si fa prossimo nell’alfabeto della vita umana, il cristianesimo si fa domestico, la liturgia diventa culmen et fons, condizione di verità della fede praticata, con cui offriamo i nostri corpi (la vita quotidiana) come sacrificio vivente, santo, gradito a Dio: questo è il nostro culto spirituale (cf. Rom 12,1).

Mi piace dirlo così: la liturgia è la sorgente e il momento intimo nel mistero celebrato, solo quando essa diventa l’alimento del culto spirituale, della vita quotidiana luogo dell’esi­stenza nello Spirito, della santità della carità, della vita fraterna, della speranza nel mondo. Per meno di questo aver tradotto l’azione liturgica nei nostri linguaggi solo per capire un po’ di più è una scelta banale. Anzi può essere pericolosa, e talvolta è diventata persino un atto di manipolazione e di corruzione del rito cristiano. La liturgia deve sempre temere di diventare spettacolo, interminabile rappresentazione travolta da un verbalismo che vuole spiegare tutto o da un simbolismo scadente che non dice il senso della differenza dell’azione liturgica rispetto all’agire funzionale di ogni giorno. Perché un Dio che si fa prossimo attraverso la nostra lingua non è un Dio che si può mettere in tasca, non diventa un Dio a nostra disposizione. Il mistero celebrato non va addomesticato! Si fa vicino alle nostre case e famiglie (paroikia = Chiesa tra le case), ma per mettere le nostre case e le nostre vite in pellegrinaggio verso il Regno (paroikia = Chiesa tra le case in cammino verso il mistero di Dio). Questa prima sfida sta tutta ancora davanti a noi!

  1. Religiose audiens (DV 1): una Chiesa che ascolta

    La Chiesa del Concilio è quella che ha riaperto lo scrigno della Parola: questa è la seconda grande eredità del Concilio. Dei Verbum religiose audiens: una Chiesa che ascolta! Per la Chiesa italiana, questa Costituzione conciliare, approvata una manciata di giorni prima della conclusione del Concilio (18 novembre 1965), ha avuto la sua icona personale – mi si permetta questo tratto di sciovinismo milanese – nei 22 anni dell’episcopato del card. Martini, quasi un’inter­minabile cura del carattere stimolante, provocante, inquietante, trasformante, consolante della Parola di Dio. La proverbiale ricerca dell’icona biblica, diventata un vezzo talvolta usato anche in un modo un po’ maldestro da noi, ha avuto nella cattedra del Vescovo di Milano la sua vera e più grande icona. E credo che abbia avuto un benefico influsso su tutte le altre chiese d’Italia. Il suo tenace, persino testardo, affidamento alla Parola, spiegata, sminuzzata, ruminata, a tempo e fuori tempo, per quelli di dentro e per quelli di fuori, è stata come la stella polare sul cammino. Con un sorprendente effetto di penetrazione: più egli ci ha avvicinati alla Parola e al suo centro che è il mistero del Signore Gesù, più essa si faceva ascoltare nelle lande desolate della società secolare, da credenti e non credenti, in una società così sicura e autosufficiente e insieme depressa e disperata nella propria solitudine. Dopo quattro secoli di digiuno della Parola questo pare essere il frutto più rivoluzionario del Concilio. Pensiamo, invece, a tutti i commenti alla Parola biblica antichi e medievali, fino alle soglie del moderno, anche se questo non significa che dopo Trento essa sia mancata nella liturgia e nella teologia; ma spesso non era presente nella forma fresca e tonificante dell’accostamento personale e comunitario.

Religiose audiens: lo stile del Concilio è quello di una “Chiesa che ascolta” di più. In primo luogo che ascolta di più la Parola, che mette al centro il primato di Dio nei gesti e nella pasqua di Gesù, ma poi che l’ascolta meglio per sé e per la vita dei propri fratelli, e, infine, che ascolta la vita quotidiana del mondo e la figura di questo tempo come il grande terreno in cui far germinare la Parola. Dovremmo fermarci qui per molto tempo, per dire tutti i frutti di questa seconda eredità del Concilio. Qui è apparso evidente il senso della Parola di Dio detta in linguaggio umano, il carattere storico, salvifico e personale della rivelazione restituito della Dei Verbum. E che deve pervadere con il suo lógos i nostri linguaggi di oggi. In tal modo la liturgia nella nostra lingua, in questa seconda eredità riceve un ampliamento di orizzonte insospettato. Non si tratta solo di pregare nella nostra lingua, ma di far risuonare la Parola di Dio fatta carne nei nostri linguaggi di oggi.

Come è possibile dire questo in modo sintetico? Si potrebbe riprendere il senso di un annuncio cristiano (primo annuncio, catechesi, riflessione teologica) che sia veramente irrorato dalla Parola, senza biblicismi, ma anche senza moralismi o dogmatismi. Qui vi indico solo una via più semplice. Vi invito a leggere forse il testo più breve e più folgorante scritto da Martini su questo, la sua strategia pastorale della Parola: Cento parole di comunione. «Questa Parola non è semplicemente qualcosa di estrinseco, di aggiunto all’uomo, qualcosa di cui l’uomo possa fare anche a meno. Terreno e seme sono stati creati l’uno per l’altro. Non ha senso pensare al seme senza una sua relazione con il terreno. E quest’ultimo senza il seme è deserto inabitabile. Fuori della metafora: l’uomo così come noi lo conosciamo, se taglia ogni sua relazione con la Parola diviene steppa arida, torre di Babele.» Veramente bello! Una cosa però vorrei attestare: è nata una nuova generazione di credenti amanti della Parola, che non smette di alimentarsi al suo fresco linguaggio; ho visto con grande umiltà molti cristiani, che erano a digiuno di ogni accostamento alla Parola, riprendere in mano il Libro dei libri… religiose audiens.

Non si può perdere tutto questo enorme patrimonio. L’apertura dei preziosi tesori della Parola, soprattutto nella pratica della lectio divina, stimola a un nuovo sguardo anche sulla vita umana: a leggerla e a viverla come un racconto con il racconto della storia di Dio con gli uomini. E soprattutto decentra la Chiesa verso il centro vivo del Vangelo, che è la persona di Cristo, dischiudendo agli uomini una nuova prospettiva sulla vita umana. In tal modo quella lingua che attraverso la liturgia ha aperto al contatto vivo col Mistero della Pasqua, si alimenta alla rete di significati, di immagini e di incontri che sono mediati dalla Parola letta nella e con la Chiesa.

  1. Plebs adunata (LG 4): una Chiesa di popolo

La terza eredità del Concilio è stata la ripresa dell’immagine comunionale e comunitaria della Chiesa: come dice lo slogan un po’ frettoloso, dalla Chiesa societas organica alla Chiesa comunione. In realtà, la riscoperta del popolo di Dio ha voluto affermare ciò che, in forza del battesimo, è comune a tutti i credenti, prima di ciò che distingue i ministeri e le missioni. Ma, com’è noto, la categoria di popolo di Dio è andata subito in crisi per il suo uso prevalentemente democraticistico, perché si sottolineava di più il termine “popolo” (in funzione antiistituzionale), che il genitivo qualificativo “di Dio”. Il capitolo sul popolo di Dio – come si sa – è il capitolo strategico del Concilio. Quando nella discussione conciliare si arrivò a parlare dei laici, ci si accorse che molto, anzi quasi tutto, di ciò che si diceva di loro si doveva dire del cristiano e basta. Anzi della dimensione ecclesiale di ogni credente. Per questo prima di parlare della gerarchia, dei religiosi e dei laici, dopo il primo capitolo sul “mistero della Chiesa”, sul suo essere l’ecclesia de Trinitate, s’introdusse un capitolo per dire il carattere visibile della Chiesa, il suo essere soggetto nella storia, in cammino verso il Regno: appunto il secondo capitolo sul “popolo di Dio”. Ora alla fine del numero 4 di LG c’è una stupenda espressione presa da san Cipriano che collega, senza possibilità di separare, i due aspetti: il mistero e la storia, la comunione trinitaria e il popolo santo di Dio: de unitate Patris et Filii et Spiritus sancti plebs adunata. La Chiesa è plebs, è una Chiesa di popolo, non perché si contrapponga a una Chiesa di élites, di movimenti o di gruppi, ma perché plebs adunata, è ecclesìa, è con-vocazione santa, è popolo non perché si conta per teste, ma perché è adunata, chiamata, termine e frutto spirituale di una vocazione comune. È communio sanctorum, delle cose sante e dei santi in carne e ossa, di ieri e di oggi, è l’armonica sinfonia cattolica di volti e figure. In una parola è icona storica della communio trinitaria.

Anche qui dobbiamo riconoscere che questa plebs adunata ha dato molti frutti nel dopo Concilio. Prima potevamo forse dire che le comunità cristiane avevano molto più popolo, molta più gente, ma era quasi come una grande massa: quelli che si distinguevano anche tra i laici – e ce n’erano anche prima del Concilio! – erano, infatti, cristiani un po’ fuori serie. Dobbiamo anche qui far memoria grata di una grande e preziosa eredità. Dopo il Concilio, abbiamo visto apparire all’o­rizzonte cristiani nuovi, anche se forse sono ancora un po’ inesperti e ingenui nel loro protagonismo: lo sterminato numero dei catechisti/e, vera sorpresa del post­concilio, i ministri liturgici, l’in­calcolabile esercito della caritas e del volontariato cristiano, i membri dei consigli pastorali, i laici di AC, i diaconi permanenti, gli animatori di pastorale giovanile, mentre forse l’area più depressa è quella della presenza nel sociale e nell’arena politica.

Che ci resta da fare? Forse emerge l’imperativo di una formazione della coscienza cristiana, anzitutto per se stessa e poi in vista della formazione ministeriale e a servizio della missione nel seculum. Anche questa multiforme presenza di nuove figure laicali può essere vista come la rifrazione sul versante dei soggetti dello stile, con cui il Concilio ha consentito di pensare e vivere il rapporto con Dio attraverso i propri linguaggi e i propri doni. Pregare nella nostra lingua per incontrare il mistero di Dio, annunciare la Paola di Dio nella storia di Gesù attraverso i linguaggi del proprio tempo, assume ora la figura di quei credenti che con il senso della Chiesa hanno detto il Vangelo nel tempo. È questo il compito che sta ancora davanti a noi nella sua sfida più urgente. Dobbiamo pensare a un tempo forte di educazione delle coscienze e di formazione della presenza del cristiano nella Chiesa e nel mondo.

  1.    Vere clarescit (GS 22): una Chiesa per gli uomini

E, infine, la quarta eredità del Concilio è stata forse la più incisiva, ma anche la più indeterminata: l’apertura della Chiesa al mondo, una Chiesa per gli uomini. La Gaudium et spes ne è il testo programmatico. Accusata di ottimismo antropologico, dopo il primo periodo successivo al Concilio caratterizzato da un ingenuo entusiasmo, oggi andrebbe letta in filigrana con la Spe salvi, più attenta al carattere ambivalente dei segni dei tempi, e quindi in ricerca di una speranza “a caro prezzo” che vede nel realismo della speranza e dei suoi segni lo spazio perché la fede si giochi nel tempo disteso. La speranza è la fede alla prova del tempo e richiede la decisione di anticipare il futuro nei segni e nelle opere del presente, senza promettere a nessuno un facile paradiso a buon prezzo per domani o per dopodomani. Eppure la GS è stata per certi versi un testo liberatorio, perché ha posto al centro dello sguardo della Chiesa il mondo, forse sarebbe meglio dire l’uomo. Ha tentato cioè di superare la cronica distanza tra coscienza cristiana e mondo moderno, che s’era espressa nell’atteggiamento antimoderno della neoscolastica, forse cadendo in qualche tratto di ingenuo irenismo.

In ogni caso, la GS mantiene ancor oggi un indubitabile valore soprattutto per il suo carattere sintomatico. Essa dichiara che occorre procedere a un confronto critico tra coscienza cristiana e mentalità moderna e postmoderna, per assumere la questione antropologica come punto di vista sintetico. Questo dovrà avvenire senza cadere nella trappola del pensiero moderno di immaginare la coscienza in modo autarchico, come presenza immediata a sé senza costitutiva relazione all’altro, al mondo, al destino futuro, personale e sociale; e quindi a quell’Altro, a quel senso ultimo e primo che ci viene incontro nell’uomo nuovo che è il Crocifisso risorto. La bella espressione, con cui si apre il cruciale n. 22 (pare scritto dall’allora giovane vescovo Wojtyla), è come l’architrave portante della quarta eredità del Concilio: Reapse nonnisi in mysterio Verbi incarnati mysterium hominis vere clarescit (in realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo).

Anche questo lascito è uno dei frutti più belli che rimane dal Concilio, e che è diventato addirittura incandescente in questi ultimi tempi quando la questione antropologica ha assunto toni drammatici con l’accesso delle nuove biotecnologie. Tale eredità, però, non deve essere persa anche nella sua più ampia sostanza pastorale e culturale, pensando a una Chiesa che è per gli uomini, che assume l’alfabeto della vita quotidiana perché sia capace di dirvi il senso della Parola cristiana. Forse è questo anche l’aspetto più fragile della recezione del Concilio. Faccio un esempio: noi ci sentiamo sovente impreparati a dire la fede nei nuovi linguaggi umani. Ma i linguaggi umani, dotati di una loro grammatica e portatori di un senso proprio, vanno assunti, abitati, criticati e trasfigurati per dischiudere in essi, come avviene in modo stupendo nelle parabole di Gesù, la similitudine che dice il mistero del Regno. Nei diversi spazi dell’esi­stenza umana dobbiamo imparare a dire la Parola cristiana, dentro le situazioni antropologiche. Dobbiamo essere capaci di dire quella speranza trascendente e tentare di anticiparla nelle esperienze di prossimità, vicinanza, passione educativa, carità, cura dell’uomo, servizio al povero. Questa dovrebbe essere l’icona vivente del­l’antropologia del Concilio. Più che alla questione antropologica, il credente d’oggi è attento alla vita delle persone, ai processi educativi, all’educazione religiosa, alla vita fraterna, al servizio sociale, alla passione civile e all’impegno politico.

Siamo giunti così alla fine di questo piccolo itinerario. La scelta pratica del Concilio di far pregare nella propria lingua si è rivelata e si manifesterà sempre più di grande importanza: forse lo “stile pastorale del Concilio” delinea qui il suo arco più importante. Dalla liturgia pregata all’ascolto della parola, dal luogo ecclesiale alla destinazione agli uomini, lo “stile del Concilio” deve far accadere sempre più l’insondabile incontro tra il mistero santo di Dio e la libertà degli uomini. Tutte le altre discussioni sull’ermeneutica del Concilio, pur sante e giuste, corrono il rischio di essere stucchevoli e fuorvianti. Le Costituzioni che abbiamo percorso restano aperte a dire l’“im-pensato” e l’“im-praticato” del Concilio. Per questo il Concilio dà ancora da pensare e da fare. Poi, però, bisognerà attuare la cosa più importante: fare del Concilio un atto di tradizione vivente!


[1]     Si può trovare una sinossi critica dell’Allocuzione di apertura del Concilio a cura di G. Melloni, Descrizione delle redazioni dell’allocuzione (pp. 223-238), con Sinossi critica (pp. 239-283), in Fede Tradizione Profezia, Paideia, Brescia 1984. Il foglio 10 a cui si riferisce il nostro testo è di pugno dello stesso Pontefice sia nel M1 che nel M2, e contiene le due espressioni enfatizzanti “il punctum saliens” e “attende un balzo in avanti” (sottolineato nel manoscritto), che vengono perse nella traduzione ufficiale in latino pronunciata l’11 ottobre, ma che si trovano sia nella traduzione distribuita dall’Ufficio stampa (US) la sera prima, sia nella traduzione pubblicata sull’Osservatore Romano (R) di venerdì 12 ottobre, alle pp. 3-4. Il testo in italiano dell’Osservatore apparve così su Civiltà Cattolica a. 113, n. 2607 (3 nov. 1962), 209-217.

[2]     Così il testo (R) apparso in Osservatore Romano, venerdì 12 ott. 1962, praticamente uguale, su questo passaggio, a quello distribuito dall’Ufficio Stampa la sera del 10 ottobre (US):  cfr Sinossi critica 269.

[3]     J.W. O’Malley, What Happened at Vatican II, The Belknap Press of Harvard University Press, Harvard 2008; tr. it, Che cosa è successo nel Vaticano II?, Vita e Pensiero, Milano 2010.