Brambilla ai giovani: quel “Noi” che apre l’orizzonte e fa dire “EccoCi”

Facebooktwittermail

La giovinezza come età di passaggio, «l’etate che puote giovare», come scrive Dante, per diventare grandi e vivere da adulti. Ma anche l’età dell’”EccoCi”, da spendere nel presente come impegno, scommessa coraggiosa, scelte forti: con una sottolineatura, che sta tutta nella declinazione al plurale di quell’”EccoCi”: «Il cammino di quest’anno vuole sottolineare il “Noi”. prima precede il “noi” e poi viene l’“io”. Per educare un cucciolo d’uomo ci vuole un villaggio intero».


La torta della vita

Introduzione al sussidio di preghiera per i giovani 2019-2020 “E adesso… Vivi!” La sua giovinezza ci illumina
23-09-2019
Download PDF


Discorso agli operatori di pastorale giovanile e ai sacerdoti

Assemblea di avvio dell’anno di pastorale giovanile 2019
20-09-2019
Download PDF


E’ ‘invito che, ad avvio di anno pastorale il vescovo Franco Giulio  ha fatto ai giovani della diocesi di Novara: nella sua introduzione al sussidio di preghiera di quest’anno e nell’assemblea che ha riunito a Borgomanero sacerdoti ed operatori di pastorale giovanile.

 

Un invito mette al centro i temi forti di quest’anno in diocesi nell’impegno della comunità per le nuove generazioni, e che guarda all’Esortazione Apostolica Christus Vivit  che Papa Francesco ha scritto a seguito del Sinodo dello scorso anno dedicato ai giovani.

Di seguito i due interventi


La torta della vita

Introduzione al sussidio di preghiera per i giovani 2019-2020
“E adesso… Vivi!” La sua giovinezza ci illumina

 

Carissimi giovani,

«Cristo vive. Egli è la nostra speranza e la più bella giovinezza di questo mondo […] lui vive e ti vuole vivo!» (CV 1).

L’inizio squillante dell’Esortazione sinodale  di Papa Francesco (Cristo vive!), pubblicata dopo il Sinodo dei Giovani del 2018, ci dà come la scossa per interrogarci in modo radicale: la nostra è una vita “vera”? Se, come dice Dante, la giovinezza è «l’etate che puote giovare» (Convivio, 4,24), la domanda diventa: a che cosa giova questa età? La risposta è semplice e impegnativa nello stesso tempo: giova a diventare grandi e a vivere da adulti.

Adolescenza e giovinezza sono come i due tempi di un unico film: il primo tempo mette in scena i personaggi del racconto e fa scorrere le prime sequenze della trama, dove l’azione sembra annodarsi e ingarbugliarsi in storie spesso contorte e intricate; il secondo tempo imprime un’accelerazione con al centro un evento critico, in cui la storia è sottoposta a una prova insuperabile, fin quando un fatto imprevisto scioglie l’intrigo e la storia giunge alla fine. Magari è ancora un finale aperto, non ancora compiuto, che non sempre raggiunge un “…e vissero felici e contenti!”, ma certo è un “the end” che dà a pensare e apre al domani. È il futuro da adulti per cui vale la pena aver ricevuto la vita, essere nati, diventati adolescenti ed entrati nel dramma della giovinezza.

“Dramma” deriva dal greco dráma,  che significa azione. Non è solo un fare, mettendo in opera mezzi per ottenere degli scopi, ma è un agire che comporta sentimenti, passioni, scelte, decisioni, relazioni, risultati, fallimenti, conquiste e sempre nuove partenze. La vita è vera quando è un “dramma”, quando cioè diventa un agire che si distende nel tempo e costruisce storie in formato grande. La vita comporta scelte e decisioni, giorno per giorno, richiede piccole e grandi azioni, che costruiscono la nostra “scelta di vita”.

Eppure oggi sembra meglio non scegliere, pare più facile seguire il flusso degli eventi e delle cose che ci càpitano, è più desiderabile “lasciarsi vivere”. Ma questo genera disorientamento, improvvisazione, noia, ci fa tirare a campare. Per fortuna vi sono alcune cose stabili: la famiglia, la scuola, e, per i più grandi e fortunati, il lavoro. Sono come la base sicura su cui camminare: ma poi in che direzione andare? Ritorna la questione delle piccoli e grandi scelte della vita, soprattutto la domanda sulla direzione da prendere.

Vi racconto una storia, la mia storia che ho vissuto. La mia generazione è nata dopo la seconda guerra mondiale, il paese era distrutto, ma la voglia di fare e di ricostruire era tanta. Nei miei primi vent’anni si respirava l’aria buona per rischiare e tentare cose nuove. La parola magica era “progresso”. Avevamo pochi ingredienti per costruire la “torta della vita”. Noi abbiamo lottato per procurarcene altri, abbiamo faticato per portare a casa nuove possibilità di crescita, e, in colpo solo, abbiamo costruito il nostro futuro, la nostra vocazione, la nostra famiglia, il nostro Paese. E abbiamo vinto anche due volte il campionato del mondo!

È stato un periodo esaltante, un’età dove la parola-guida era “futuro”. Qualcuno ha anche buttato a mare il passato come un ferro vecchio, vi fu persino chi lo ha combattuto fino ad arrivare a negarlo, portando alla terribile tragedia del terrorismo. Ma questa è stata la malattia più grave che nascondeva un male più sottile. Nei traguardi raggiunti ci si è quasi inebriati dei risultati, ma soprattutto si sono trasmesse queste conquiste alla nuova generazione come se fossero state cose facili da ottenere e realizzare. La sfida, l’ingegno, la creatività, la lotta, il sacrificio, la condivisione, che avevano permesso di raggiungere questo grande traguardo, sono stati sottaciuti e oscurati. Si sono trasmessi solo i risultati, il benessere, il patrimonio, la possibilità infinita di mezzi, la facilità dei viaggi, e molto altro, ma non la fatica che costava ottenerli.

La “torta della vita”, però, non può essere trasmessa solo come una cosa, né come una ricetta, ma va consegnata come un mestiere, anzi come un’arte, l’“arte di vivere”! Oggi la nuova generazione giovanile si trova nella situazione capovolta. Non deve tanto arrabattarsi a cercare altri ingredienti, non deve ingegnarsi a cercare nuove risorse, ma è immersa e quasi sommersa da infinite possibilità. Quando un giovane di oggi sogna, può fantasticare su tutto: ha i social che aprono una finestra interattiva col mondo, dispone dei prodigiosi mezzi della comunicazione, sogni viaggi senza confini, dispone di risorse che alimentano ogni opportunità, ha accesso a ogni tipo di conoscenza scientifica, tecnica e bibliografica. Insomma tutto sembra facile e a portata di mano.

Il giovane oggi deve scegliere ogni giorno, facendosi strada in una foresta di possibilità diverse e affascinanti. Non sa, però, cosa scegliere e ha paura di perdere qualcosa. La malattia mortale da cui può essere colpito è la noia, che paralizza di fronte alle infinite possibilità della vita. La sua “torta della vita” ha a disposizione fin troppi ingredienti. Se non sceglie quali usare, ma soprattutto quali escludere, essa diventa immangiabile e indigeribile.

Il mio augurio per ciascuno di voi è questo: scegli ogni giorno ciò che può costruire il tuo futuro, decidi attraverso le piccole e grandi scelte di vita il tuo volto di domani. L’adolescenza e la giovinezza è l’età che può “giovare”… Che la tua giovinezza possa “giovare” ai desideri del tuo cuore. Per costruirne il tuo domani di adulto!

 

+ Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara


Discorso agli operatori di pastorale giovanile e ai sacerdoti

Assemblea di avvio dell’anno di pastorale giovanile

 

Volevo iniziare con una frase che mi ha sempre orientato e che mi piacerebbe che imparaste a memoria. È una frase di un autore dell’Ottocento, Johann Adam Möhler (1796 – 1838), e dice così:

Non vorremmo morire né asfissiati per estremo centralismo, né assiderati per estremo individualismo. Né uno può pensare di essere tutti, né ciascuno può pensare di essere il tutto, ma solo l’unità di tutti è una totalità. Questo è l’eídos (εἶδος), questa è la forza motrice della Chiesa cattolica!.

Il cammino di quest’anno vuole sottolineare tale “Noi”. Se chiedete a qualcuno in mezzo a voi, che proviene dal continente africano, vi risponderà che prima precede il “noi” e poi viene l’“io” e che per educare un cucciolo d’uomo ci vuole un villaggio intero.

Vi dico tre cose a proposito del “Noi”.

 

Il “noi” che ci precede

La prima parla del “noi” che ci precede: sono i nostri genitori e parenti. Da dove noi veniamo, com’è la mia casa, com’è il mio paese, com’è la mia città, com’è il mio ambiente, come sono le mie radici. Io non sono un fungo nel deserto, non sono un’orchidea in mezzo alla sabbia ma, se sono cresciuto bene, è perché sono stato piantato e cresciuto in un terreno nutriente. Andiamo con l’immaginazione in piazza san Pietro il 13 marzo del 2013: furono 32 i secondi in cui il Papa fece pregare in silenzio per lui! Stasera vi chiedo di pregare per quel “noi” che siamo, per quel “noi” in cui siamo cresciuti, di cui noi siamo la concretezza storica – io sono ciò che ho ricevuto! – per non perdere lo stupore originario della vita, e che si rinnova ogni mattina, quando ci chiediamo: “perché ci sono, e potrei non esserci!”. Ringraziamo per questo nel silenzio di qualche attimo…

Il “noi” in cui esistiamo

Dal “noi” da cui siamo venuti al “noi” in cui siamo, in cui staremo quest’anno, al noi attuale. Pensiamo all’orizzonte in cui ci collochiamo, agli ambienti che frequentiamo, come la scuola, il lavoro, la casa. Qui sono contenuti tutti i frammenti e gli impulsi della nostra vita: il “noi” attuale e vitale di oggi che comprende anche i nostri ambienti oratoriani ed ecclesiali, di studio e di lavoro.

Come percepiamo il “noi” ecclesiale? Solo come un luogo in cui si sta bene? E col quale ci rapportiamo solo quando “si sta bene” o da cui ci allontaniamo se non siamo stati bene? O lo sentiamo anche come un “noi” un po’ provocante, a volte inquietante, persino spigoloso, perché lo abita chi mi sta simpatico, ma anche chi è difficile e va preso a piccole dosi… Il “noi” attuale è la grande sfida: esso apre il mio “io”.

Io so chi sono, se lascio che l’altro si infiltri in me. Se poi pensiamo non solo ad un “altro” – al  singolare – ma agli “altri” – al plurale; se pensiamo a un altro che non è scelto, solo perché mi trovo bene con lui, ma è accolto perché, anche se non mi trovo bene, mi stimola ad allargare lo sguardo, allora comprendiamo come il “noi” attuale  sia provocante e promettente.

È il “noi” in cui siamo. Dedichiamo i primi mesi di quest’anno negli ambienti che abiteremo, diamoci del tempo per farci questa domanda semplice: se, come dice Gesù, raccogliessimo un solo proselito, uno che abbiamo convinto e persuaso, sceglierebbe di stare insieme a noi e di restare con noi, oppure se ne andrebbe? Troverebbe nel nostro “noi” un luogo esigente, stimolante, nutriente, oltre che un luogo dove si sta bene. La Chiesa non è solo la casa dove si sta bene, ma è il luogo dove si cammina verso il bene. Se anche non facessimo nulla per questo mondo, ma se facessimo solo del nostro ambiente la casa della fraternità, potremmo già cambiare il mondo.

Ho avuto la fortuna e la grazia di essere destinato, nei primi dieci anni di sacerdozio, di andare nel fine settimana nella parrocchia intitolata a san Giuseppe, collocata tra San Fruttuoso e San Rocco, a Monza, che da terreno arido il parroco è stato capace di trasformare in giardino in fiore. Ecco, allora, il nostro “noi” deve essere un noi “stimolante”, dove si va volentieri perché sentiamo che è un luogo di crescita, dove possiamo dire il nostro “eccoCi”.

È un “noi”, il nostro “noi”, dove si abita volentieri? In cui “volentieri” non significa spontaneamente, ma piuttosto con “buon volere”, perché capisco che è un luogo che mi fa crescere. Possiamo dire che il nostro è un ambiente dell’”eccoCi”? Dove il tutto è più della somma dei singoli addendi, in cui il totale è più della somma dei singoli “io”? La Chiesa è quella realtà grandiosa, dove uno, più uno, più uno, fa due e mezzo e, invece, dove uno, più uno, più uno e più uno ancora, fa già cinque. È una strana matematica. Se ci pensate un poco è proprio così: nei nostri ambienti, quando la vita comune funziona, la totalità è sempre di più della somma dei semplici addendi. Perché in mezzo ce n’è Uno che, non solo si infiltra in noi, ma che ci dà un pane per vivere. È un pane strano, che quando noi lo mangiamo, non lo assimiliamo in noi, ma ci assimila a Lui. Nella bolla “Transiturus” dell’11 agosto 1264, che conserviamo a Novara in uno dei due originali unici rimasti al mondo, con la quale si istituisce la festa del Corpus Domini, nella parte conclusiva si dice che questo [dell’Eucaristia] è un pane che, quando tu lo mangi, non lo assimili in te, ma ti assimila a Lui! Dobbiamo fargli spazio, e fare in modo che chi sta con noi si accorga che in mezzo a noi c’è questo Ospite “inquietante”: se fai spazio a Lui, riesci a far spazio a tutti.

Il “noi” che saremo

Il terzo “noi” è il “noi che saremo”, che vorremmo costruire, è quell’“eccoCi” che ci mette per strada. Mi ha colpito, la scorsa domenica, un’intervista a un filosofo, che è stato dei nostri, ma poi ha preso la sua strada, il quale ha dichiarato: «Noi corriamo il rischio di morire di nichilismo, cioè di quell’atteggiamento per cui facciamo le cose e sappiamo che non ci nutrono, che non ci danno vita, che ci annoiano. Per sentirmi vivo devo sballare, fare qualcosa di strano, di straordinario». Secondo questo filosofo, siamo noi adulti che non siamo stati in grado di trasmettere quei gesti che facendo crescere, diventano riti di iniziazione. Egli propone questa soluzione, soprattutto ai giovani: a diciotto anni fuori di casa, a mille chilometri di distanza, con un anno di servizio civile. Per ragazzi e ragazze. A noi forse basta almeno andare un po’ fuori dal grembo materno verso qualcuno. Ricordo con gioia coloro che quest’estate sono andati in missione, dopo aver ricevuto il mandato alla Route dei giovani. Vorrei ricordare accanto a questi, tutti coloro che hanno dedicato il loro tempo per i nostri Grest. Perché tutte queste scelte rappresentano il “noi” che saremo, l’“eccoCi” con cui costruiamo il nostro futuro. Più si diventa grandi, e più la base della nostra piramide di relazioni si restringe. Il numero degli amici, man mano che passano gli anni diminuisce, e s’impoveriscono anche le possibilità della vita.

Il “noi che saremo”, il “noi” futuro, deve essere un noi arioso, un “noi” con un orizzonte vasto. Facciamo questo proposito: una sera alla settimana, lasciamo che i nostri giovani, i nostri adolescenti, vadano in giro, ascoltino le altre persone, leggano un libro, in modo che il loro orizzonte si dilati e si arricchisca. L’”eccoCi” del come “noi saremo” ha bisogno di tale orizzonte più ampio. «Né uno può essere tutti, né ciascuno può essere il tutto, ma solo l’unità di tutti è una totalità. Questo è l’eídos della Chiesa cattolica!». Altrimenti si muore asfissiati e assiderati. E noi non vogliamo morire così!

+ Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara