Un’occasione preziosa per fare memoria, «perché nel XXI secolo questo segno di testimonianza della fede non è venuto meno. E non solo nei paesi che riteniamo non avanzati, ma sovente nei paesi cosiddetti evoluti». Mons. Franco Giulio Brambilla Ha spiegato così, introducendo la sua meditazione, il senso della Veglia di Preghiera in memoria dei martiri del nostro tempo promossa dalla Comunità di Sant’Egidio, che è stata celebrata lo scorso 4 aprile in cattedrale.
Cosa ci dicono i Martiri?
Meditazione alla Veglia di preghiera per i missionari Martiri
04-04-2019
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Il vescovo ha proposto tre domande, tre interrogativi «per alimentare la nostra preghiera»: «cosa ci dicono i martiri»; «cosa ci insegnano i martiri?» e «perché dobbiamo pregare con e per i martiri?».
«Il fatto che il martire “dica qualcosa”, appartiene al centro del suo essere cristiano. Il cristiano è uno che dice e dona Gesù agli altri, nella lingua degli altri – ha detto mons. Brambilla – il martire è colui che attesta proprio questo: la centralità di Cristo. La sua parola di testimonianza attesta la centralità di Gesù, rivelatore del Padre agli uomini, Il martire è disposto persino a scomparire, fino a farsi scomparire, “purché brilli la verità!” ».
Nella riflessione sulla riflessione dei martiri il vescovo ha proposto due sottolineature. La prima è stata che «I martiri ci insegnano che il male non si supera vincendolo, ma convincendolo. Si tratta – in senso letterale – di “lasciare in mano all’altro la propria pelle”. Per questo capiamo perché i cristiani devono essere totalmente diversi dagli altri, anche se tante volte sono inconsapevoli»; mentre la seconda, ispirata dalle parole del card. Martini, «Lui disse che (cito a memoria): “fin quando ciascuno non prenderà su di sé la sofferenza dell’altro, non sarà possibile superare questa situazione”. Prendere la sofferenza dell’altro su di sé, e le ragioni che provocano questa sofferenza, la violenza e la separazione, con tutte le forme tentacolari con cui si rappresenta, solo così è possibile attraversare il male e guarirlo dal di dentro».
Infine, perché la preghiera con i martiri? «Preghiamo per loro e con loro, perché loro “sono andati avanti”. Allora questa sera non è un gesto che noi facciamo per sentirci chissà chi, ma la nostra preghiera si colloca bene dentro il nostro cammino quaresimale, perché il Signore che è andato avanti prima di tutti, ci porta con sé al mattino di Pasqua».
Di seguito il testo integrale della meditazione.
Cosa ci dicono i Martiri?
Questa sera – nel ricordo, nella riflessione, nella preghiera per i Martiri contemporanei che saranno elencati, e anche per quelli che sono rimasti fuori dal nostro elenco – vuole essere un momento di memoria, perché nel XXI secolo questo segno di testimonianza della fede non è venuto meno. E non solo nei paesi che riteniamo non avanzati, ma sovente nei paesi cosiddetti evoluti.
Voglio fare solo tre piccole pennellate per alimentare la nostra preghiera, che rispondano a tre domande:
- la prima: cosa ci dicono i martiri?
- la seconda: cosa ci insegnano i martiri?
- la terza: perché dobbiamo pregare con e per i martiri?
- Cosa ci dicono i martiri?
Il fatto che il martire “dica qualcosa”, appartiene al centro del suo essere cristiano. Il cristiano è uno che dice e dona Gesù agli altri, nella lingua degli altri. E quindi il suo sforzo è di donare Gesù agli altri. Egli è così consegnato alla causa di donare Gesù agli altri, che è disposto a scomparire, purché e perché Gesù venga donato agli altri! Al prezzo persino della sua vita! Ci sono molte forme dello scomparire, perché Gesù venga donato gli altri. Si noti: si tratta di donare quel Gesù che a sua volta sta al centro e per come sta al centro: «Ecco io sono in mezzo a voi come uno che serve» (Lc 22,27). Gesù sta al centro, come uno che serve! Serve alla relazione con Dio e serve alla relazione con gli uomini.
Dunque, il martire è colui che attesta proprio questo: la centralità di Cristo. La sua parola di testimonianza attesta la centralità di Gesù, rivelatore del Padre agli uomini, Il martire è disposto persino a scomparire, fino a farsi scomparire, “purché brilli la verità!” Affermare la verità è oggi espressione che suscita inquietudine, perché sembra imporre qualcosa. Certo la verità del martire passa attraverso di Lui. Egli è come se dicesse: io posso indicare con il mio dito dove sta la verità, ma è un dito che è disposto a farsi da parte, purché la verità trovi la sua parte per voi e per gli altri.
Questo è ciò che ci “dicono” i martiri, fino al prezzo della loro vita! Il martire è la forma cristiana della verità. Una volta si diceva che la verità “si impone”, ora diciamo in modo politicamente corretto che la verità “si propone”, ma questa alternativa è ben povera cosa. No! la verità brilla! Sta al di là dell’alternativa “si impone” e “si propone”. La testimonianza della verità è molto più intensa, perché attira, affascina! Imporre e/o proporre: sono due forme con cui noi riduciamo la sua forza persuasiva. La verità affascina così tanto, che il suo testimone è disposto anche ad essere martire.
- Cosa ci insegnano i martiri?
Purtroppo il verbo “insegnare” è stato ridotto solo al suo profilo intellettuale. La parola “in-segnare”, invece, è molto bella: vuol dire segnare-dentro, segnare-nel-corpo, segnare nelle emozioni, segnare nella memoria, segnare nella coscienza, segnare nelle relazioni, segnare nei desideri, segnare nelle attese! Che cosa ci in-segnano i martiri? Questo è un po’ più difficile da dire. Lo dirò in due modi.
Il primo è legato al testo evangelico, all’esperienza più specifica della novità di Gesù e qui si sottolinea il contenuto di verità. Gesù probabilmente era stato al seguito o si era formato alla scuola di Giovanni Battista. Aveva tentato di stare con lui e di condividere la sua passione per la giustizia di Dio e quindi la sua predicazione per un rapporto giusto con Dio e tra gli uomini. Giovanni Battista però aveva un’immagine della giustizia di Dio, dove il bene e il male devono essere separati. È pure un’immagine giusta, umana, e guai se noi non separassimo il bene e il male, perché fonderli fino a confonderli, sarebbe grave. Le immagini che usa Giovanni Battista nella sua predicazione, sono esattamente due immagini di separazione: «Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco» (Mt 3,10). «Tiene in mano la pala e pulirà la sua aia e raccoglierà il suo frumento nel granaio, ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile» (Mt 3,12). Sono due immagini di separazione tra ciò che è buono e ciò che invece è scarto!
Quando Gesù inizia il suo ministero non fa così. Non recide chirurgicamente il bene dal male, ma gli passa attraverso, passa attraverso il male. Tutte le immagini di Gesù sono abitate da questo “prendere sulle proprie spalle il male”, le nostre ferite, la pecorella smarrita, la sorte dei peccatori, la dipendenza delle donne, le situazioni di separazione! Tutti coloro che nelle Beatitudini sono considerati lontani da Dio! Tanto è vero che Giovanni Battista va in crisi e manda l’ambasceria a chiedere: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?» (Mt 11,3). Gesù non risponde a questa domanda, ma rimanda i discepoli di Giovanni al suo agire: «i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo» (Mt 11,5), cioè il male è raddrizzato, ristrutturato, guarito, smontato e rimontato dal di dentro! Un esempio dei nostri tempi. Pensiamo all’aggressività di una persona, la sua violenza che genera molta sofferenza. Domando: è facile risolverla con una operazione chirurgica? Sì, si può fare così, e talvolta persino si deve fare così! Quando il nucleo cancerogeno è grande, va asportato chirurgicamente! Ma si pensi quanta cura occorre, dopo aver asportato il tumore, finché il corpo si adatti a questa violenza, e soprattutto riesca a guarire le radici rimaste. Quanta cura è necessaria! Non sempre sappiamo se va a finire bene, dopo l’asportazione chirurgica…
I martiri ci insegnano, quindi, che il male non si supera vincendolo, ma convincendolo. Si tratta – in senso letterale – di “lasciare in mano all’altro la propria pelle”. Per questo capiamo perché i cristiani devono essere totalmente diversi dagli altri, anche se tante volte sono inconsapevoli. Però sono almeno inseriti in questa intuizione, fin dagli Innocenti Martiri del Natale. Ed è anche per questo che non è corretto usare la parola martire per ogni forma di violenza subìta, perché in realtà occorre che ci sia l’attestazione che ciò avvenga, come dice Gesù, «nel mio nome» (cfr. Mt 10,22; Mt 24,9; Mc 13,13; Mc 16,17; Lc 21,12; Lc 21, 17; Gv 15,21). «Nel mio nome» significa che la testimonianza è inserita in questo dinamismo, in questa ottica che guarisce il male dal di dentro, smontandolo, guarendolo e trasfigurandolo.
Il secondo modo lo dico riferendomi al passo, nel quale Gesù fa un grande elogio di Giovanni Battista: «tra i nati da donna non vi è alcuno più grande di Giovanni, ma il più piccolo nel regno di Dio è più grande di lui» (Lc 7,28 ). “Piccolo” è esattamente chi testimonia la sua fede così, come Gesù! Per attualizzare questo, ritorno a un ricordo del cardinale Martini, nell’anno 2003 quando, trasferitosi a Gerusalemme, gli chiesero di scrivere come era stata la sua impressione dopo un anno vissuto là, in un territorio dove evidentemente lo scontro tra le religioni era molto alto. Lui disse che (cito a memoria): “fin quando ciascuno non prenderà su di sé la sofferenza dell’altro, non sarà possibile superare questa situazione”. Prendere la sofferenza dell’altro su di sé, e le ragioni che provocano questa sofferenza, la violenza e la separazione, con tutte le forme tentacolari con cui si rappresenta, solo così è possibile attraversare il male e guarirlo dal di dentro.
- Perché dobbiamo pregare con e per i martiri?
La risposta alla terza domanda diventa ora dunque più comprensibile, anche se non è facile poi da praticare. Perché dobbiamo pregare con e per i martiri contemporanei? Dobbiamo pregare con e per i martiri contemporanei perché senza questo “con”, la nostra testimonianza semplice di ogni giorno è sempre infetta e infettabile di narcisismo: faccio il cristiano, però sono “io” che lo faccio! Aiuto i poveri, però ci deve essere fuori la mia/nostra etichetta! Tutti ne hanno una! Ognuno di noi con le nostre appartenenze! Però è una cosa da cui bisogna continuamente purificarsi. Il gesto di carità, di formazione, di costruzione dell’umano vale, se è attraversato da tale trasparenza di gratuità, fino al prezzo della propria vita, fino a lasciarci la pelle! Detto così impressiona di più.
E poi dobbiamo pregare per i martiri contemporanei, perché senza di loro, iniziando da Gesù, il primo martire sulla croce – questi quindici giorni che ci portano alla Pasqua ne sono l’evidenza – noi da soli non saremmo capaci. Non si è martiri per forza propria, perché siamo bravi, perché stiamo insieme, perché abbiamo la nostra etichetta, bisogna pregare con loro, perché essi, dentro il mistero della comunione dei Santi, sono andati avanti sulla strada, che noi, con timore e tremore, dovremmo percorrere. Questa espressione che si riferisce a coloro che sono morti, e per i quali si dice che “sono andati avanti” rispetto a noi, viene dal linguaggio degli alpini. Essi “sono andati avanti”, perché troviamo sul “nostro” sentiero le “loro” tracce, come nel cammino in montagna quando finalmente, dopo un po’ che si cammina in mezzo ai cespugli o al ghiaione, si ritrova il numero del sentiero, che fa riapparire la via per la vetta.
Preghiamo per loro e con loro, perché loro “sono andati avanti”. Allora questa sera non è un gesto che noi facciamo per sentirci chissà chi, ma la nostra preghiera si colloca bene dentro il nostro cammino quaresimale, perché il Signore che è andato avanti prima di tutti, ci porta con sé al mattino di Pasqua.
+ Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara