Un testo per accompagnare la riflessione personale e da condividere insieme per arricchire la preghiera in famiglia. E’ “Farò la Pasqua con Te” di mons. Franco Giulio Brambilla.
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Farò la Paqua con Te
La settimana “autentica”, la settimana delle settimane culmina nel Triduum Paschale che Agostino definiva come il “triduo del Signore crocifisso, sepolto e risorto”.[1] La sua scansione ci suggerisce anche il canovaccio per la nostra meditazione. Intendo proporre un itinerario teologico-spirituale, non con la preoccupazione di introdurre a tutte le questioni sul tema, ma di disegnare il cammino che porta alla Pasqua. Tre sono i passi che ci raccomanda Agostino. Ad essi voglio aggiungerne uno preliminare. Ciò consentirà di riprendere l’articolo del Credo Apostolico nelle sue scansioni fondamentali.
- Patì sotto Ponzio Pilato: il motivo della condanna
È interessante notare che l’articolo del Credo Apostolico sul Signore Gesù Cristo riprende la circostanza storica della passione “sotto Ponzio Pilato”. Questo sobrio accenno è decisivo. Mette in evidenza la questione del motivo della condanna a morte di Gesù. La morte che Gesù ha patito è l’esito delle consegna degli uomini, in particolare dei capi del popolo, che cercarono di farlo mettere a morte dai Romani. Ciò comportava la morte mediante la crocifissione, una pena che avrebbe gettato il discredito sulla pretesa di Gesù di essere il “messia”, l’inviato escatologico di Dio. Il tentativo di falsificare la pretesa di Gesù intendeva scagliare su di lui la condanna di Dt 21,23 «perché l’appeso è una maledizione di Dio». Se Gesù fosse morto così, sarebbe caduto sotto il verdetto della Legge, e la sua missione non sarebbe stata una missione approvata da Dio. In tal modo però veniva messa in questione anche la sua pretesa di essere il messaggero ultimo e definitivo di Dio.
Quale fu allora il motivo della condanna di Gesù? Perché il Credo con assoluta precisione ricorda che “patì sotto Ponzio Pilato”? La questione viene di solito svolta sotto il segno della domanda: di chi fu la responsabilità storica della morte di Gesù? Meno attenzione si ha al meccanismo con cui gli uomini mettono a morte “uno” perché paghi al posto di “tutti” Il motivo della condanna, la passione sotto Ponzio Pilato, apre la questione decisiva del significato di questa morte, della morte di croce. Tale significato può essere delineato attorno a tre domande.
Perché fu messo a morte Gesù? La morte di Gesù come morte di croce manifesta il tentativo subdolo di attribuire alla missione di Gesù un aspetto politico e rivoluzionario. L’accusa di sobillatore e liberatore era l’unica che potesse realmente mettere in agitazione e preoccupare i Romani. Dietro questo tentativo si celava, però, un’altra intenzione: quella di gettare un sospetto sulla pretesa di Gesù e di rifiutare il suo messaggio sul Regno. Il ragionamento dei capi del popolo deve essere stato pressappoco così: se riusciamo a far morire Gesù in croce per mano dei romani, egli non è il Messia, il profeta mandato da Dio, e tanto meno l’ultimo inviato che sta in una relazione singolarissima con Dio.
La morte di Gesù fu presentata come avversione al potere, come resistenza ai capi, come contestazione della loro immagine tradizionale di Dio. Questo primo significato della morte di croce di Gesù descrive, però, solo la sua figura esteriore, dice come fu immaginata la sua fine dai capi. La croce è effettivamente la pena del ribelle sociale o politico, comminata dai romani. In questo modo i capi e i personaggi influenti del popolo cercarono di far morire Gesù. Il motivo socio-politico è il motivo dichiarato apertamente, mentre il motivo religioso resta nascosto, ma alla fine è il motivo veramente inteso: Gesù fu messo a morte dagli uomini, e consegnato dai capi giudei; il suo sangue fu versato dagli uomini peccatori.
Gesù, in prima battuta, si sottopone all’ambiguità, non la smaschera, non fa valere storicamente la sua pretesa. L’identità e la verità della sua missione viene lasciata in balìa del rifiuto degli uomini.
Gesù ha previsto la sua morte? Alcuni hanno affermato che la morte di Gesù fu un “tragico destino”, un “malinteso grossolano” tra Giudei e Romani, un evento che si è abbattuto su Gesù. È importante, però, raggiungere una certezza sul fatto che Gesù accettò volontariamente la morte. È decisivo conoscere se il sangue versato dagli uomini, alla fine è il sangue che Gesù si è “lasciato versare” da loro. La volontarietà del “patire” di Gesù appare decisiva, perché rivela l’intenzione di Gesù e la sua carità.
Già a partire dagli annunci della passione possiamo almeno affermare che Gesù metteva nel conto una fine tragica. Infatti, l’annuncio del Regno che comporta conversione e distacco dalla logica del mondo, il suo messaggio e la sua prassi hanno visto salire una larga ondata di avversione alla sua missione di «rappresentante di Dio».
L’evento della morte o quello di una fine violenta era certamente presente alla coscienza di Gesù ed egli ha dovuto in qualche modo farsene una ragione, integrarlo nel senso della sua missione e spiegarlo ai suoi discepoli. La possibilità della sua morte poneva in discussione l’aspetto essenziale della vicenda di Gesù, cioè il legame indissolubile tra la sua missione e la sua persona. Qui si manifesta il significato che Gesù ha dato alla sua morte.
Gesù ha dato un senso alla sua morte? Egli non ha solo patito sotto Ponzio Pilato, il suo sangue non è stato solo “versato-da” gli uomini, alla fine bisogna chiedersi: egli si è “lasciato versare” il suo sangue? Egli ha donato la sua vita? È la domanda più difficile. L’ultima cena è il luogo dove Gesù ha anticipato il senso della sua morte in un’azione profetica, accompagnata dalle parole sul pane e sul calice. Nel contesto di una comunione particolarmente intima con i suoi, la cena pasquale di Gesù propone una forte tensione tra due aspetti: fra la comunione definitiva offerta nel gesto del pane spezzato/calice condiviso e la sua prossima separazione dai discepoli. Gesù propone un gesto sconvolgente in cui sembra venir meno quello che è donato: la pretesa di essere il Figlio unico del Padre attraverso la morte/separazione che è il frutto del rifiuto di quella pretesa. Qui si trova l’abisso ineffabile di come Gesù ha vissuto (e compreso) la sua morte: il morire di Gesù, e il morire di croce, è la condizione di una dedizione incondizionata di sé a Dio e di una solidarietà assoluta agli uomini peccatori, che si realizza precisamente nel non far valere la propria identità di Figlio, ma nell’affidarla radicalmente nelle mani del Padre suo. Nel gesto della cena è anticipato (realmente!) il valore della croce di Gesù e insieme l’identità del Crocifisso.
I Sinottici, Paolo e Giovanni non fanno altro che rileggere questo nucleo incandescente, ricuperando le grandi immagini dell’AT. Essi affermano che la morte di Gesù è «redenzione», «sacrificio», «riscatto». Gesù porta a compimento tutti i sacrifici dell’AT e li realizza nel gesto di dare la sua vita per la moltitudine, nell’offerta personale.
Gesù è il “redentore”, è colui che dà la sua vita in riscatto per la moltitudine, non perché sia tenuto a pagare qualcosa a qualcuno, ma perché è il volto del Dio fedele a se stesso, che non può lasciare gli uomini in balìa del peccato e della morte. Egli è il vero Redentore dell’uomo e della storia, colui che ci riscatta dalla schiavitù del peccato, colui che ci mostra l’amore tenerissimo del Padre che non vuole che nessuno dei suoi figli vada perso. Qui finalmente si realizza la parola di Luca nell’episodio di Zaccheo: Gesù è «il figlio dell’uomo venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto». Con la morte di croce egli mostra che il Regno di Dio si attua superando tutti gli schemi, secondo un disegno che solo il Padre conosce. Nella morte Gesù rende manifesto e completo il significato salvifico della sua vita.
- Fu crocifisso, morì e fu sepolto: il mysterium crucis
Sembra dunque assodato che Gesù abbia dato alla sua morte un significato. Anzi ha offerto nella sua ultima cena un gesto prezioso, in cui sono custoditi il senso e la realtà autentica del morire di croce. La cena pasquale di Gesù custodisce il senso della croce. Essa non corrisponde alle attese del nostro cuore, ma ciò non schiaccia e non allontana, bensì attira, purifica e plasma il desiderio dell’uomo trasformandolo in una libertà guarita e in una fede che s’abbandona. La tradizione cristiana ha sempre visto nell’eucaristia il corpo del crocifisso, da onorare con l’olio preziosissimo che l’amore della donna versa su di lui. A futura memoria si narrerà, come “evangelo”, ciò che la donna di Betania ha fatto per venerare il corpo del Signore. Il senso della morte va dunque trovato nelle piaghe del Crocifisso: la fede cristiana non ha al centro propriamente la croce (che è il patibolo con cui gli uomini mettono a morte), ma il Crocifisso! Qui si rivela il mysterium crucis. Il suo mistero è inesauribile, perché la morte di croce contiene un segreto che non può essere rinchiuso nella pura descrizione storica degli eventi. Infatti, il Crocifisso è il luogo dove si manifestano i volti: il volto di Gesù assume da ora e per sempre il volto del Buon samaritano, che fascia le piaghe dell’uomo ferito, versandovi il balsamo che le cura e le guarisce; il volto di Dio prende i tratti del Padre che non risparmia il Figlio suo, l’unico amatissimo, e che ci dà ogni cosa con Lui; il volto dell’uomo ritrova i suoi contorni nella figura filiale dell’obbedienza di Gesù, la quale riplasma il cuore dell’uomo mediante il dono dello Spirito. Contemplando e immergendosi nel volto del Dio trinitario, l’uomo è tras-formato e con-formato al Signore Gesù. Questi tre aspetti rivelano il mysterium crucis.
Il gesto di Gesù. Gesù vive la sua morte come il dono incondizionato di sé e del suo messaggio. La morte di Gesù ci dice che Gesù è completamente rivolto verso il Padre, affidato in modo radicale a Lui, anche e soprattutto nel momento in cui sembra messa in discussione la sua missione, la connessione tra il suo messaggio e la sua persona. Egli non fa valere se stesso neppure col pretesto di essere il rappresentante ultimo della verità di Dio, ma si affida in radicale abbandono al Padre suo, assumendo e portando persino la violenza e il rifiuto peccaminoso degli uomini. Gli uomini cercano Gesù per consegnarlo, per versare il suo sangue. Alla fine però è Gesù che si lascia versare il sangue e offre il suo corpo, assumendo il rifiuto degli uomini e consegnandosi, nella libertà dello Spirito, al Padre suo. Non è la croce o il dolore, prima di tutto, ciò che definisce Gesù, ma il suo abbandono a Dio, anche e soprattutto attraverso la croce e la sofferenza.
È come se noi dicessimo: se c’è Dio – così pensano i capi del popolo, ma forse anche Giuda e, in misura diversa, gli altri, la gente, il popolo, le donne, i discepoli, Pietro, noi stessi – non può agire così, non può abbandonare Gesù, non può non sostenere la sua pretesa, deve dar ragione a Gesù, deve confermare lo stile della sua missione… Il rifiuto di Dio si insinua nel cuore della sua manifestazione. Noi non vogliamo accettare Dio così come è in se stesso. Dio comprende, perdona, salva dal di dentro il nostro stesso rifiuto e la nostra negazione.
Il Padre porta su di sé il nostro rifiuto; mandandoci il Figlio suo, lascia che il Figlio porti il peccato degli uomini. Egli stesso, il Padre, lascia andare il Figlio nel mondo: questo “lasciar essere” – suprema rivelazione – è il volto di Dio come Padre; e il “ricevere l’essere” da Dio – suprema dedizione – è l’esistenza filiale di Gesù, che impara dalle cose patite; e lo Spirito apre lo spazio più grande possibile – suprema comunione – per attrarre tutti gli uomini e per trasformare anche il loro rifiuto. Nel Figlio suo, Dio perdona, guarisce, abbraccia, fascia le ferite, raggiunge gli uomini, dove si sono cacciati lontani da Lui.
Il volto di Dio. Allora la verità di Dio a cui Gesù si affida, manifesta la figura ultima del mistero di Dio che dona se stesso in modo insuperabile nel morire di Gesù. La vita di Dio sta tutta nel comunicarsi, mediante il dono incondizionato di Gesù, agli altri: la verità di Dio è la carità del Padre, apparsa in Gesù. In tal modo la dedizione senza condizioni con cui Gesù si affida al Padre rivela una donazione del Padre a Gesù, con cui offre la sua vita stessa, donandoci il suo bene più prezioso: il Figlio suo. E Paolo commenta: «che cosa non ci darà insieme con Lui?».
L’invocazione nostalgica del salmo: «Il tuo volto, Signore, io cerco» (Sal 27,8), la struggente attesa di Israele di vedere il volto di Dio, di entrare nell’intimità della sua alleanza, viene ora svelata sul volto sfigurato di Gesù morente, proprio nell’evento che è il frutto del suo più radicale rifiuto.
La trasfigurazione dell’uomo. Poiché l’affidarsi di Gesù avviene nell’ambito di una violenta negazione di Dio, allora si comprende perché la donazione del Padre in Gesù è il «luogo» del perdono, della riconciliazione, che supera dal di dentro lo stesso rifiuto di Dio e tutte le forme che lo rappresentano: la non-comunione, l’abbandono, il tradimento, la solitudine, la violenza e alla fine la stessa morte. La morte di Gesù diventa il luogo dell’universale riconciliazione dal momento che essa è il gesto radicale d’amore che rivela e comunica l’inaudita potenza del povero e indifeso amore del Padre. In Gesù il Padre ci ha dato la sua stessa vita, lasciandola in balìa del tradimento, dell’abbandono, della morte violenta e della sopraffazione degli uomini. Per questo Gesù muore per noi, in un duplice senso: “a causa” del nostro peccato e “a vantaggio” degli uomini. Assumendo e portando il nostro rifiuto, lo riconcilia nel luogo stesso dove noi abbiamo chiuso le porte a Dio, e lo trasforma nel suo gesto d’amore incondizionato. Lo Spirito di comunione, che tiene uniti il Padre e il Figlio anche nel momento della massima separazione, trasforma la nostra distanza peccaminosa trasfigurandola in una vicinanza risorta.
Forse solo qui, in punta di piedi, può essere posta la domanda su cui invece noi abbiamo spesso costruito interminabili discorsi. Perché era “necessaria” la sofferenza, l’inaudito dolore a cui Gesù si è sottomesso? Dio non poteva salvarci in un modo più facile, meno violento, non poteva condonarci tutto, senza la croce del Figlio? Perché una morte così? A queste formidabili domande non si può rispondere che balbettando. Gesù ci riconcilia – si sente dire – non perché soffre, ma mentre soffre. È vero: la sofferenza non è una scelta di Dio, ma una conseguenza della negazione degli uomini. La croce è il patibolo che gli uomini innalzano sempre da capo, perché è meglio che “uno muoia al posto di tutti”. Il Crocifisso è il volto della croce redenta, della sofferenza assunta, della speranza nella morte. Tuttavia, la sofferenza non è solo il luogo della riconciliazione (il “mentre”), ma anche il modo della sua realizzazione (il “come”). La sofferenza, il dolore, la croce, sono il prodotto del nostro rifiuto di Dio, la conseguenza della negazione di Dio da parte della nostra libertà.
Dio non ci salva automaticamente, non ci guarisce con un tocco di bacchetta magica, non mette una pietra sopra. Egli ricupera la libertà facendola ritornare a ritroso, si mette “al nostro posto”, non per esonerarci “dal nostro posto”, ma per far trovare “il posto” alla nostra libertà. Il ritorno della libertà ferita dal peccato richiede un lungo cammino.
Ognuno sa quanto è faticoso questo ritorno! Dio non ci salva magicamente, ma prende a cuore la nostra libertà, favorendo un ritorno di tutto l’uomo; Egli rinnova la libertà dal di dentro, ricupera il corpo, gli affetti, i desideri, le meschinità, le tristezze, le povertà.
Egli purifica il cuore indurito dell’uomo, trasfigurandolo nel cuore credente che si abbandona all’azione del suo Spirito. Egli ci offre un dono che è un “perdono”! Noi sappiamo che una liberazione autentica non solo spezza le catene, ma toglie anche le cause che le hanno prodotte, strappa le radici che soffocano il cuore e incurvano l’uomo su di sé. La morte di Gesù non è solo liberazione della volontà egoista e ribelle dell’uomo, ma è donazione del desiderio della comunione filiale con Dio e della carità fraterna. La liberazione della croce toglie il male fin nel cuore dell’uomo, fin nelle profondità di tutta l’umanità, dal primo uomo fino alla fine dei tempi. La comunione donata scolpisce i tratti del figlio di Dio, del discepolo credente e della comunità fraterna.
- Discese agli inferi: il Sabato santo
L’articolo del Credo prosegue con la menzione del descensus ad infer(n)os. È la teologia del Sabato Santo. Dal punto di vista del triduo pasquale, il Sabato santo è l’unico giorno dell’anno liturgico in cui il segno posto dalla Chiesa è l’assenza di ogni segno. È il giorno del silenzio e dell’attesa! Giorno del silenzio di Dio e della speranza della risurrezione.
La speranza della risurrezione, riposta nel cuore dell’uomo, è sospesa alla fine dei tempi quando Dio, fedele al giusto martire, lo farà sorgere dalla terra e suggellerà la sua alleanza. Per ora l’uomo può solo attendere e le donne portano i vasi degli oli, quasi per custodire i brandelli della memoria, più che per anticipare la risurrezione. Le lacrime del Venerdì santo, lo strazio di quel Sabato vuoto e lacerante non possono stare in una situazione di stallo. Il vuoto è riempito con l’affetto, ultimo rifugio del cuore umano, germe prezioso per non soffocare la speranza. L’affetto ha volto e mani di donna. Ritorna sul luogo della tomba, segno dell’assenza, anzi segno di quest’assenza, della dipartita di Gesù. Cerca il corpo esanime, per lavarne le ferite, per ungerne il costato, per avvolgerlo in lini preziosi, sempre pronti per onorare la sepoltura.
Per gli uomini, il morì e fu sepolto indica la fine della carriera del protagonista della vicenda. Gli uomini consegnano, mandano a morte e chiudono le tombe, pensando che il loro gesto ponga fine all’agire di Dio. Essi controllano il perimetro della storia, e qualche volta credono che tale potere sia sufficiente a determinare il corso degli eventi. Per loro la storia è la realtà, la cronaca ch’essi inscenano è ciò che esiste, gli eventi ch’essi misurano e iscrivono nel calendario sono la trama del loro tempo. Ormai per loro la vicenda è finita, l’obiettivo è raggiunto, la bocca che diceva parole che vengono dall’alto è chiusa nella rigidità della morte. Addirittura mettono sigilli, perché nessuno possa sfondare la dura corazza del tempo, la prova empirica della pietra che seppellisce ogni cosa. E fanno la guardia alla misura delle cose che hanno stabilito con diritto e giustizia, secondo la prova della ragione che non vede dentro e al di là, per non dover credere a ciò che sempre minaccia le loro verità necessarie ed empiricamente accertate.
Per le donne, la sepoltura è segno dell’affetto, è custodia della memoria, è intuizione dell’amore, è cura del frammento di vita contenuto anche nella morte, è grembo che può generare speranza. Per questo Gesù dice ai discepoli, a proposito del gesto della donna di Betania, che sciupa il salario di un anno e versa il profumo gelosamente tenuto per la cura di sé: «Lasciatela stare; perché le date fastidio? Ella ha compiuto verso di me un’opera buona; i poveri, infatti, li avrete sempre con voi e potete beneficarli quando volete, me invece non mi avrete sempre. Essa ha fatto ciò ch’era in suo potere, ungendo in anticipo il mio corpo per la sepoltura. In verità vi dico che dovunque, in tutto il mondo, sarà annunziato il vangelo, si racconterà pure in suo ricordo ciò che ella ha fatto» (Mc 14,6-9).
Dice Gesù: “lasciatela stare”, non importunate le donne che vanno al sepolcro, a raccogliere il filo sottile che collega la morte e la vita, il visibile e l’invisibile, la carne e lo spirito, il vedere e il credere, il sapere e l’amare. E poi Gesù aggiunge una profezia: «In verità vi dico che dovunque, in tutto il mondo, sarà annunziato il vangelo, si racconterà pure in suo ricordo ciò che ella ha fatto». La parola di Gesù è profezia di futuro, perché è sguardo sul presente: il gesto della donna “dovunque” e “in tutto il mondo” sarà “raccontato come vangelo”, perché, al centro del vangelo e alla pasqua di Gesù, sarà da ora e per sempre collegato lo sguardo della donna e la mano che versa l’olio preziosissimo, quasi lente d’ingrandimento e teca preziosa che custodiscono il Crocifisso.
Questa è la teologia del Sabato Santo, giorno del silenzio di Dio e della speranza della risurrezione. Silenzio di Dio sperimentato nell’unico giorno lasciato agli uomini che vogliono rinchiudere il mondo nelle loro evidenze empiriche: un mondo senza Dio, un mondo attraversato da un silenzio lacerante, un mondo che, sprofondando negli abissi degli inferi, diventa inferno a se stesso. Ma non è un mondo lasciato a se stesso. Quel silenzio è abitato dall’attesa di Dio e dalla speranza della vita che viene dall’alto.
L’attesa della risurrezione in tutte le culture ha la forma del culto dei morti, anzi i reperti archeologici del culto dei morti sono uno dei segni caratteristici dell’inizio della vita culturale dell’uomo. La speranza ha i tratti del prolungamento della vita, della sopravvivenza del passato e del presente di là dalla morte. L’attesa della risurrezione è un impulso irresistibile e un’attesa indomabile, ma il suo immaginario è incerto e vario, colorato dai sogni terreni con cui una cultura s’immagina Dio e il futuro dell’uomo. E anche quando, come nella nostra società moderna, la speranza della risurrezione sembra oscurarsi, allora la morte è rimossa e nascosta; la cosmesi della morte è il surrogato dell’attesa di vita tutta raccolta nell’attimo fuggente e nel frammento da possedere. Anche qui l’attesa è irresistibile anche se mascherata e sepolta sotto la rincorsa della vita, che “sen fugge tuttavia…”
- Il terzo giorno è risuscitato dai morti: il Crocifisso risorto
Approdiamo al racconto della risurrezione, che ascoltiamo secondo il vangelo di Luca. L’articolo del Credo sulla risurrezione ha la forma di un annuncio e di un racconto. Occorre seguirlo per comprendere gli aspetti della risurrezione.
1“Il primo giorno dopo il sabato, di buon mattino, si recarono alla tomba, portando con sé gli aromi che avevano preparato. 2Trovarono la pietra rotolata via dal sepolcro; 3ma, entrate, non trovarono il corpo del Signore Gesù. 4Mentre erano ancora incerte, ecco due uomini apparire vicino a loro in vesti sfolgoranti. 5Essendosi le donne impaurite e avendo chinato il volto a terra, essi dissero loro: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo? 6Non è qui, è risuscitato. Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea, 7dicendo che bisognava che il Figlio dell’uomo fosse consegnato in mano ai peccatori, che fosse crocifisso e risuscitasse il terzo giorno». 8Ed esse si ricordarono delle sue parole.
9E, tornate dal sepolcro, annunziarono tutto questo agli Undici e a tutti gli altri. 10Erano Maria di Magdala, Giovanna e Maria di Giacomo. Anche le altre che erano insieme lo raccontarono agli apostoli. 11Quelle parole parvero loro come un vaneggiamento e non credettero ad esse” (Lc 24,1-11).
Nell’aria frizzante del mattino primaverile, dopo il sabato osservato secondo il comandamento (Lc 23,56), le donne vanno al sepolcro. La strada è vuota e all’orizzonte appare il sole luminosissimo del mattino di Gerusalemme. Il luogo è conosciuto, perché poco prima l’evangelista ha detto: «Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea seguivano Giuseppe; esse osservarono la tomba e come era stato deposto il corpo di Gesù, poi tornarono indietro e prepararono aromi e oli profumati» (Lc 23,54-55). L’evangelista Marco aggiunge un interrogativo retorico di grande effetto: «Esse dicevano tra loro: “Chi ci rotolerà via il masso dall’ingresso del sepolcro?”» (Mc 16,3). La pietra tombale che gli uomini hanno posto per chiudere la carriera di Gesù è divenuta un masso opprimente. Chi rotolerà via questa grande pietra? Solo un annuncio che viene dall’alto lo può fare. È l’annuncio di Pasqua: È risorto non è qui! Possiamo articolare in tre momenti gli aspetti essenziali della fede pasquale.
La sottrazione del corpo. Le donne, arrivate al sepolcro, «trovarono la pietra rotolata via dal sepolcro; ma, entrate, non trovarono il corpo del Signore Gesù» (v. 2). La sottrazione del corpo è il primo momento dell’esperienza pasquale. Le donne non trovano più il corpo del Signore Gesù, non possono più ritrovarlo come un corpo passato, come un cadavere gelido e muto. Non debbono più cercarlo così, debbono spingersi “oltre” la loro ricerca, che vuole onorare il corpo di Gesù come si unge e s’imbalsama una vicenda “passata”. La traccia del corpo di Gesù è sottratta, e con lui sembra scomparire la memoria intensa del suo sguardo, delle carezze, della voce, del parlare alla folla, dello stare tra i suoi discepoli, del muovere i passi con decisione verso Gerusalemme. La memoria di Gesù non può essere un ricordo passato e il corpo, che ne è l’icona e la traccia, non è più lì, perché sia cercato in modo distorto. Onorare la memoria di Gesù non può esaurirsi nell’ungere il suo corpo, per quanto nel gesto d’amore delle donne vi sia l’anticipo dell’autentica memoria Jesu.
Gesù a Betania aveva detto del gesto della donna: “lasciatela stare”, ma ora la figura deve cedere il passo alla verità del riconoscimento e all’unica possibilità di ricuperare la storia di Gesù, come ricordo “presente” e non come storia passata. È questa una preoccupazione tipica dell’evangelista Luca, che nell’episodio dei discepoli di Emmaus ritornerà di nuovo su questa cronaca senza la fede nella risurrezione: «Alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; recatesi al mattino al sepolcro e non avendo trovato il suo corpo, son venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevan detto le donne, ma lui non l’hanno visto» (Lc 24,22-24). Il primo passo è ancora negativo, descrive la conversione del cuore che passa dalla meraviglia allo stupore. Si tratta di riscattare il cuore da una meraviglia incredula che si affida alle prove della storia per aprirla allo stupore che vede la storia come il possibile luogo della verità di Dio. È una notizia che raggiunge i discepoli e li tocca dopo e al di là della morte di Gesù: «alcune donne, delle nostre, son venute a dirci…».
È una notizia senza “buon” annuncio, puntigliosamente verificata da coloro che sono stati mandati per gli accertamenti del caso: «alcuni dei nostri sono andati al sepolcro», hanno visto i segni senza fede, il sepolcro vuoto senza annuncio pasquale! Tutto si conclude su questa meraviglia incredula, sospesa, ma ancora invischiata nella volontà di una verifica che si conclude con una lapidaria affermazione: «ma Lui non l’hanno visto!». È la pietra sepolcrale che cala su ogni tentativo che pretende di ricostruire una storia separata dalla fede; ma ancor di più è il velo opaco che opprime gli occhi e oscura anche lo sguardo della devozione e dell’amore. Le donne incerte trovano già tutta una serie di segni che richiedono di puntare l’attenzione “altrove”: la pietra rotolata via, il corpo assente e due uomini in vesti sfolgoranti, in figura di angeli interpreti.
La ricerca trasformata. La prima parola viene da “altrove” ed interpreta la ricerca delle donne: «Perché cercate tra i morti il Vivente? Non è qui…» (vv. 5-6). L’annuncio dei due personaggi in vesti sfolgoranti vuole distogliere le donne dal cercare tra le cose passate (“tra i morti”), per aprirla verso un’altra direzione: quella della vita presso Dio. All’inizio si tratta di un dis-orientamento del cuore. È impossibile ritrovare Gesù solo nella linea del prolungamento delle proprie attese, della speranza di una vita che si prolunghi al di là della morte, della permanenza di una forma d’esistenza nelle regioni inferiori, del ricordo che lascia traccia nel vissuto di coloro che hanno conosciuto Gesù. Il profeta crocifisso non va cercato tra i morti, non è lì! Se questa voce non scende dall’alto in vesti sfolgoranti e non comporta un risveglio dello sguardo e del cuore, non può incontrare il Vivente.
Vengono alla mente le icone che raffigurano la risurrezione di Gesù, come un descensus ad infer(n)os, una discesa negli inferi del Risorto vivente. Il Cristo in veste sfolgorante, di bianco luminosissimo orlato d’oro, scende come un angelo dal cielo, e disegna con la tunica svolazzante quasi la scia d’una meteora che viene dall’alto. Toccando terra scardina le porte dell’Ade che si dispongono in forma di croce sotto i suoi piedi: vittoria della vita e della carità di Gesù attraverso la sua morte, allusa nei segni e strumenti della passione che stanno presso le porte degli inferi. Gesù afferra le mani di Adamo ed Eva, che s’avvinghiano a Lui, quasi per essere strappati dal regno dei morti. Il primo Adamo e la Madre dei viventi sono così sollevati da Colui che è il Nuovo Adamo e il Vivente. Sullo sfondo del panorama il gruppo formato da Abele, Mosé, Davide, Salomone, il Battista e altre figure di profeti che rendono testimonianza alla venuta del Risorto. L’attesa degli uomini d’ogni tempo, fin dal primo uomo, è orientata al Cristo risorto, è risollevata dal regno della morte, è innalzata dalle braccia del Vivente. Deve abbandonare le regioni della morte, il luogo dove non brilla la fedeltà di Dio, per ascoltare l’annuncio angelico: «non cercate tra i morti, non è qui»!
Il cuore dell’uomo s’attende questo, ma da solo non può raggiungerlo, se non irrompe dall’alto l’annuncio della risurrezione. Vedere il volto di Dio nel vivente Risorto corrisponde all’attesa dell’uomo, ma non è nella sua possibilità passare dalla tomba all’incontro con Lui. Solo la mano del Risorto, segno della fedeltà di Dio, può gettare un ponte tra il desiderio dell’uomo e la visione di Dio.
È risorto il terzo giorno! Esplode l’annuncio della risurrezione: «Non è qui, è risorto!». Il Vivente non va cercato tra i morti, ma va accolto come colui che offre la sua vita per noi. Egli dona la vita per le pecore, per questo esse ascoltano la sua voce. Ora avviene il riconoscimento del Vivente come risorto, ora brilla l’identità del Risorto con il Crocifisso! L’annuncio della risurrezione produce una ripresa della memoria Jesu: «Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea, dicendo che bisognava che il Figlio dell’uomo fosse consegnato in mano ai peccatori, che fosse crocifisso e risuscitasse il terzo giorno» (Lc 24,6-7). L’evangelista Luca insiste molto sul tema del ricordo, della memoria di Gesù alla luce della risurrezione: non è solo una ripresa del passato, ma è un passato al “presente”, riletto dagli angeli interpreti, che invitano a riascoltare la parola di Gesù circa la “necessità” della sua consegna, della morte di croce e della risurrezione. Egli è l’esegeta umano del Dio invisibile. La storia che «incomincia da Mosè, attraverso tutti i profeti per arrivare sino a Lui» dev’essere sempre ripercorsa. Gesù sul cammino afferma: «non “bisognava” che il Cristo patisse per entrare nella sua gloria?» (v. 26a). Lui formula la domanda circa la “necessità” della sua morte. È l’interrogativo che attraversa ogni generazione cristiana, che si mette dinanzi alla morte di croce. Occorre riconoscere che il Risorto è il Crocifisso, ma non si può comprenderlo se non affidandosi alla parola di Gesù che ne stabilisce l’identità.
Qui la fede è sottoposta al suo punto di massima crisi. Deve accogliere la verità del volto di Dio che Gesù comunica nella sua morte di croce. Dobbiamo distaccarci dall’immagine di un Dio costruito a nostra misura, come il Dio potente che fa scendere dalla croce il suo Messia, che baratta la sfida dell’uomo per risparmiare il Figlio suo. Gesù è il testimone fedele del Dio intento alla salvezza dell’uomo, completamente rivolto a lui, perché il suo desiderio sia riscattato dalla pretesa arrogante di «conoscere il bene e il male», di decidere della qualità buona e felice della sua esistenza, senza prestar credito alla promessa che vi si annuncia. Egli ci invita a contemplare le piaghe del Crocifisso nel Risorto, a riconoscere, nella sua dedizione senza condizioni al volto di Dio, la figura insuperabile della carità di Dio. Questa è la “necessità” del dover patire di Gesù per entrare nella gloria: non è una scelta tra la vita e la morte, tra la gioia e la sofferenza. Non è un patire momentaneo per una gloria eterna, non è solo la logica “naturale” del morire per rinascere, non è un happy end, un …e vissero felici e contenti!
Il seme caduto per terra che marcisce per rinascere a vita nuova è metafora “evangelica”, quando la si capisce in rapporto a quel morire di Gesù, alla contemplazione delle piaghe del crocifisso, che rimangono nel Risorto. Le piaghe sono i segni di una dedizione sconfinata, che rimane fedele all’annuncio del regno, alla prossimità di Dio ai piccoli e ai poveri fino alla fine. Così è la croce di Gesù: il messaggero è rifiutato perché sia respinto anche il suo messaggio. Questa è la “necessità” della morte di croce, non una meccanica legge che si imporrebbe anche a Dio e al suo Cristo, ma l’insondabile gratuità dell’amore che si dilata per far spazio all’uomo, per creare i tratti della sua libertà credente, e per ricrearli quando egli si rinchiude nell’onnipotenza del suo io. Perciò Gesù ricomincia da capo, ogni volta, da Mosè, passando attraverso i profeti, a ridire la necessità dove si rivela la libertà dell’amore, del suo amore!
Per questo la risurrezione fa riandare a vedere la morte di Gesù, non come il luogo del suo fallimento, ma della carità incondizionata di Dio. Ciò è possibile solo se è risorto il Crocifisso, e se il Risorto è colui che ha finito i suoi giorni sulla croce. La vita di Dio che si comunica ai discepoli e lo sguardo dell’uomo che si converte alla memoria vivente convergono: il raggio di luce che le unisce è l’incontro con il Risorto! Nella Cappella Sistina Michelangelo ha ritratto il Cristo giudice con le piaghe del Crocifisso. Alla fine dell’esistenza Egli ci verrà incontro e noi gli diremo: «Che cosa strana e stupenda avere un Giudice crocifisso per me!» (G. Moioli).
+ Franco Giulio Brambilla
Nella Pasqua 2020
[1] «Attende igitur sacratissimum triduum crucifixi, sepulti, suscitati»: Epistula 55, par. 14, n. 24, in Opere di Sant’Agostino, Le Lettere/1, Città Nuova, Roma, 1969, vol. XXI, p. 477.