«Il pellegrinaggio e la salita al monte»: mille anni dalla nascita di san Bernardo

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Domenica 12 giugno il vescovo Franco Giulio ha presieduto una messa solenne in occasione dei festeggiamenti per il decimo centenario della nascita di San Bernardo. La messa si è tenuta in duomo – dove sono conservate le reliquie  -, dopo che il giorno precedente al Passo del Sempione era stata inaugurata una targa di intitolazione al santo della via Francisca. Di seguito il testo integrale di una riflessione di mons. Brambilla in occasione del millenario.

 

Il pellegrinaggio e la salita al monte

San Bernardo d’Aosta nel Millennio della nascita

 

Oggi giungono a compimento le celebrazioni del Millennio della nascita di San Bernardo d’Aosta. Suggerisco alcune piste di riflessione sul “Pellegrinaggio e la salita al monte”. Il tema contiene due poli: da un lato, il pellegrinaggio come un cammino che oggi fatica a trovare una direzione e un traguardo; dall’altro, la meta a cui il pellegrinaggio tende, cioè il monte come luogo di passaggio e/o fine del cammino.

  1. Il cammino: il pellegrinaggio come “sfida” per l’identità personale

Il primo polo coordinata delinea la possibilità di vivere il pellegrinaggio come cammino nel tempo postmoderno, da proporre come “sfida” per l’identità personale.

*          La natura estroversa della ricerca di identità. In primo luogo, la pastorale del pellegrinaggio deve prendersi cura di leggere tutte le forme con cui l’uomo – per trovare la propria identità – deve attingere a una riserva di senso che colmi la sua natura estroversa, eccentrica, pellegrinante. Egli deve abitare uno spazio e un tempo “altro” e incontrare “altri” per ritrovare se stesso. La sua identità si costruisce nella sua relazione all’al­terità, la sua identità è transitiva e drammatica. L’uomo si forma nella sua relazione all’altro e si media attraverso il racconto di un’esperienza e un incontro. L’homo faber che produce e trasforma, calcola e costruisce, quantifica e accumula, ha bisogno dell’homo viator che si meraviglia e incontra, che perde tempo per trovare il proprio ritmo temporale, che esce da sé per ritrovare se stesso. Tutte le forme dell’estrover­sione, dell’uscita della casa, dell’evasione dalla vita feriale, dell’andare verso l’altro, dell’in­contro con il diverso, del confronto multiculturale, della sfida spirituale, dell’esercizio corporea, sono modi necessari per strutturare la propria identità. Anzi essi sono anche modi per ritrovare la propria identità perduta, la propria umanità ferita, la relazione infranta, la comunità frammentata, il corpo sciolto, la vita leggera e la speranza viva.

*         La forma postmoderna dell’estroversione. Ora, questa struttura fondamentale riceve una particolare configurazione nel tempo moderno e soprattutto postmoderno. Occorrerebbe descrivere, da un lato, le figure antropologiche con cui si realizzano le forme estroverse della ricerca dell’identità e, dell’altro, le possibilità di senso che esse dischiudono o rendono possibili. Certamente, la forma attuale con cui l’uomo cerca di sfuggire alle maglie della società strumentale e pianificata, razionale e produttiva, consumistica e competitiva, ha forti tratti di evasione, di interruzione dell’attività ripetitiva, di ricerca dell’esoterico e dell’esagerato, dell’esperienza-limite e della sfida all’im­possibile. Soprattutto nel campo del tempo libero, questa ricerca di esperienze estreme appare assai evidente. Sulla stessa linea anche il turismo contemporaneo, anche quello religioso, appare come la moneta battuta dal conio stressante e iperattivistico della vita moderna, così che assume i tratti dell’esotico, dello stravagante, del notturno. Pensiamo alla vacanza: ha i modi del last-minute, della vacanza breve e ripetuta, come fosse il respiro affannoso di una vita concitata e defatigante. Fatica a essere tempo dell’in­contro, della cura, della curiosità intellettuale, dello scambio culturale, dell’interes­samento ad altri modi di vita, dello spazio per la famiglia, del dialogo con il partner, dell’ascolto dei figli e, alla fine, del ritrovamento di se stessi. È un turismo (anche religioso), che ha i tratti del fenomeno di massa, dai forti aspetti mimetici. Certo esiste pure un pellegrinare che ha modi più rilassati, ma anche in quel caso si ha come l’impressione che la forza del costume vince sulla voglia di poter fare un cammino capace di percorrere gli spazi dell’anima, della relazione e della passione culturale, della coltivazione religiosa. Così avviene che abitando in un paese che non è, come si dice, un “museo” a cielo aperto, ma una “memoria viva” che ci parla, si solchino altri mari, si attraversino altri cieli, e non ci accorge di ciò che sta sotto i nostri occhi.

*         Le figure della ricerca d’identità nel tempo. Potremmo persino stabilire un confronto tra le diverse figure di uomo nella ricerca della propria identità attraverso le successive epoche della storia: l’uomo medievale è stato il “pellegrino”, perché ha coltivato la sua estroversione nella forma del pellegrinaggio; l’uomo moderno è divenuto l’“esplo­ratore”, perché ha scoperto nuovi mondi e continenti, solcando mari e visitando paesaggi inesplorati e inviolati; l’uomo del Settecento e dell’Ottocento (forse fino al Novecento inoltrato) si è fatto “viaggiatore”, accostando popoli nuovi e curiosando in culture diverse (si ricordi tra tutti il topos del “viaggio in Italia”, che ha influito persino sulla letteratura, ma anche il “viaggio in Oriente”). Nel (secondo) Novecento, a partire dagli anni ’60, dopo l’esperienza terribile delle due guerre e con l’affer­marsi del boom economico, il turismo (anche religioso) è diventato un caotico fenomeno di massa, dai forti tratti mimetici e consumistici, così che l’uomo è diventato il “vagabondo”, il “bighellone” che si sposta quasi senza meta e scopo, se non quello di divertere (evadere) dalla vita quotidiana e di divertirsi (evadere da se stesso). Egli tenta di allontanarsi dall’immagine di sé che non riesce a plasmare dentro le forme dell’agire quotidiano, ridotto a un fare tecnico senza posa e con scarso significato per la costruzione della propria identità. Anche la sua uscita da se stesso verso l’altro e verso il mondo resta senza meta, vagabonda da un luogo all’altro senza una bussola, così che l’incontro con altre culture, la visita di luoghi carichi di storia, non è capace di interrogarne l’identità e di penetrare nell’anima. In ogni epoca storica l’uomo afferma, nelle forme con cui esce dalla sua casa, dal suo paese, dalla sua patria, l’immagine di sé e la ricerca del suo destino: il “pellegrino” si rivela come bisognoso di redenzione e cerca una purificazione trascendente: l’“esplo­ratore” si comprende come l’uomo microcosmo e insegue orizzonti inesplorati; il “viaggiatore” si manifesta come un’anima sensibile e percorre i paesaggi della cultura umana; il “vagabondo” si manifesta nella sua identità fluida e si perde in un vagare senza meta.

*          L’homo viator e l’identità a caro prezzo. È a questa dinamica che deve rispondere anzitutto la coscienza cristiana con un soprassalto di speranza. Ricordando il tema scelto dal Convegno di Verona, dovremmo far scoprire che dentro le forme differenti dell’estroversione umana – e che potrebbe essere descritta con cui più cura di quanto io non abbia fatto sopra – occorre far scoprire il tratto escatologico che l’an­nuncio del vangelo ci ricorda. Noi siamo “stranieri e pellegrini” – ci ricorda la Prima Lettera di Pietro – che “dobbiamo rendere conto della speranza che è in noi” in un tempo di difficile speranza. Dovremmo quindi far scoprire, dentro le forme tentacolari e disperse con cui si vive oggi la partenza da casa e la ricerca di nuovi approdi, la nostalgia dell’homo viator, rivelare il pellegrino dell’As­soluto dentro le forme fragili e la necessità di legami profondi della vita odierna. Questa è la speranza che possiamo e dobbiamo trasmettere attraverso la “cura pastorale” del pellegrinaggio, di cui conviene inventare nuove forme culturali e spirituali, che mettano alla prova l’identità sempre da capo da ricostruire e restaurare. Per questo al pellegrinaggio è sempre stata collegata la fatica, il viaggio anche avventuroso, talvolta fino pericolo mortale. Il pellegrinaggio deve incidere sul corpo, sulla fatica, sull’immaginario, sui desideri, deve mettere alla prova perché si provi se stessi. Il pellegrinaggio ha un carattere agonistico e agonico, è sfida al tempo che passa, alla morte che affligge il nostro quotidiano corroso dal consumismo e dall’iperattivismo. Il pellegrinaggio alla fine è luogo della “conversione”, della guarigione delle ferite dell’io, della redenzione dei blocchi comunicativi, del ritrovamento dell’uomo come essere di relazione.

  1. Il Salita: il monte come ricerca del Sacro

Il secondo polo indica la mappa dell’esperienza della salita al monte, con una sorta di andata e ritorno, che fa ritrovare il mondo proprio mentre lo trascende.

*          La verticalità. La montagna è percepita nell’esperienza della salita al monte anzitutto come via più o meno ripida verso l’alto, come ascensione verso l’alto che rinvia ad un ulteriore alto, su su fino all’altissimo (che guarda caso è un nome di “dio”). Non è inutile descrivere la facile esperienza mondana del salire sempre più “in alto”, tra dossi, dirupi, erte, valloni, canaloni, creste, per sperimentare il pulsare fra traguardi, riprese, fatiche, delusioni, scollinamenti, pianori, arrampicate e conquista della vetta. Inoltre, il “salire in alto” è vissuto come fatica agonistica, come sfida alle proprie capacità (fisiche e psichiche) e alla propria identità (il racconto mitizzato della salita in vetta). Infine, il salire verso l’alto ha anche un aspetto cognitivo, come conoscenza del cielo stellato (tappa decisiva dell’evoluzione della civiltà, che fa passare dal geocentrismo all’eliocentrismo e poi va oltre).

*          Distanziamento. La montanità è un salire che comporta salti o gradi di vario livello, è l’esperienza di un’ascensione a scale (si ricordi la “scala di Giacobbe” che sale in alto [e vi scende] e La scala del paradiso di Giovanni Climaco). Qui l’esperienza della pianura mono-livellare si differenzia dalla montagna pluri-livellare. Sorge la percezione vissuta della differenza di “mondi” nel processo di abitazione del mondo, e ci fa avvicinare all’idea cruciale di un “sovra-mondo”. La montagna alta così diviene (può diventare) esperienza di una prima “soglia della trascendenza”.

*          Spaesamento. Il salire in alto si determina come un “salire in vetta”, che è l’esperienza radicale di un “fuori luogo”. La conquista della vetta è il termine dell’ascesi, è il culmine agognato e agonistico del cammino, è il vissuto che tocca la soglia del cielo, è il magnete della tensione verticale, è il sentimento della partecipazione al mondo celeste, è il raggiungere la punta della vetta. La Vetta (ma c’è vetta e vetta…) è un punto instabile, dove non si abita, dove ci si sente sopravvissuti, dove la fruizione del panorama mozza il fiato tra piccolezza della nostra maniera di abitare il mondo e finitezza del nostro mondo abitato. Infine la Vetta è anche l’esperienza della “terribilità” (tremendum) della natura che ha la prima faccia in una sorta di “sacralità” (sentimento della finitudine), testimoniata della transitorietà del nostro abitare il mondo, e l’altra faccia nella “fascinazione” (fascinosum) di non appartenere soltanto a questo mondo, ma di non rimanerne incatenati e poterlo superare. È l’espe­rienza ambivalente del “sacro”, seconda soglia della trascendenza.

*          Ritorno. Dalla vetta come “fuori luogo”, come sospensione del nostro “fare mondo”, si esce iniziando la discesa, con il “ritorno a valle”. La discesa nel mondo è vissuta come “rientro nel mondo”, come esperienza di un abbandono dell’altitudine, dell’emozione di essere saliti in alto e aver toccato il cielo, vissuto di un luogo “fuori mondo” che non si può abitare stabilmente, ma che si è costretti ad abbandonare, perché si erge come cima solo in alto, ma non è “mondanizzabile”, non può stare nel “nostro mondo”. Aggiungo che non è tuttavia “fuori-dall’umano-che-è-nel-mondo”, dall’espe­rienza integrale dell’abitare il mondo da umani, non è estranea all’universale umano.

*          Inutilità, gratuità, presenza. Il primo tratto è segnalato dalla conquista della vetta come esperienza dell’“inutile”, connotata cioè dal sentimento dell’inutilità: si conquista una meta in-utile, che non serve, che agostinianamente non appartiene al mondo dell’uti, ma del frui, cioè del sentimento della gratuità. La gratuità è la ferita, è la spezzatura introdotta nel modo di abitare solo “utilmente” il mondo, per colonizzarlo, conquistarlo, dominarlo come mondo macchina, anziché abitarlo come mondo dell’uomo e per l’uomo, come mondo “sim-bolico”, capace di “tenere insieme” utilità e gratuità. Un mondo non è solo da contemplare nella sua bellezza (non solamente la bellezza della montagna, ma anche della città), ma da condividere nel suo essere “casa comune”, nel quadro dell’“ecologia integrale” della Laudato si’ di papa Francesco. Verrebbe da dire come una Presenza che abita il mondo senza confondersi col mondo, perché può essere veduta “solo di spalle” (come accade nell’esperienza profetica di Elia all’Oreb, 1Re 19,9-13): non era nel vento, non era nel fuoco, non era nel terremoto, ma nella brezza inafferrabile, che sul limine della caverna del mondo, percepisce di spalle la misteriosa presenza di Dio. Siamo sulla “vetta del Sacro”: non si può conquistare il divino, ma si è abitati dalla sua inafferrabile e indisponibile Presenza: si può solo ospitarla nel Santo!

+ Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara