Sabato 24 giugno, il vescovo Franco Giulio Brambilla ha presieduto la Celebrazione eucaristica in occasione della professione dei voti perpetui di suor Maria Irene del Cuore Immacolato, nel monastero della Santissima Trinità delle benedettine dell’Adorazione perpetua di Ronco di Ghiffa. Di seguito, il testo integrale della sua omelia.
La Chiesa corpo di Cristo
Carissima sorella Irene,
celebriamo con solennità la tua professione perpetua alla presenza della comunità che ti ha generato alla fede. In questo caso tale riferimento assume un significato particolarmente pregnante proprio perché, come mi hai scritto nella pagina in cui parli di te, la famiglia e la parrocchia sono state il grembo nel quale è fiorita la tua vocazione. La tua, possiamo dire allora, è proprio una bella vocazione parrocchiale! E di questi tempi è quasi un miracolo, se la confrontiamo con altri percorsi di vita meno lineari e più tortuosi. La tua vocazione con radici parrocchiali ci riconcilia con la vita.
La Chiesa corpo di Cristo
Omelia per la professione perpetua di Suor Maria Irene del Cuore Immacolato
24-06-2023
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Naturalmente non si lascia il primo amore se non se ne trova un altro. Ciò corrisponde, per definizione, al processo necessario per diventar grandi. Infatti, come ci ricorda ed evoca anche il libro della Genesi: “L’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne” (cfr Gn 2, 24). Ciò vale non solo per l’uomo, ma anche per la donna. Non si può, infatti, lasciare il primo amore che ci ha generati, la casa, la famiglia, i genitori, se non si trova un amore più grande, altrimenti ci si mette a rischio. Purtroppo, molti matrimoni anche oggi non funzionano e falliscono, perché sono il ritorno a casa di una cattiva partenza, non essendosi mai realmente allontanati dalla casa, emancipati con una giusta partenza dalla famiglia d’origine.
Oggi ti accoglie definitivamente la tua nuova comunità, nella quale hai già fatto i primi passi di introduzione e inserimento, e che oggi conferma con te, come ha detto il cappellano, il caro don Tarcisio, il tuo santo proposito. Sei passata da un amore all’altro amore! Salutiamo allora la Comunità monastica che ti riceve definitivamente e, con essa, la nuova Priora per la quale questa è la prima professione perpetua, e salutiamo le altre sorelle monache che ci ascoltano dalle altre case.
La Parola di Dio che ci è stata offerta è molto ricca e, a motivo della sua abbondanza, il commento potrebbe durare a lungo. Ho scelto una via breve, “catturando” tre espressioni, per così dire di passaggio, che risuonano nel testo in qualche modo impreviste. Con esse vorrei poi regalarti, e regalarci, tre altre espressioni che diventano il vero messaggio d’augurio.
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Si coprì il volto – Il sussurro d’una brezza leggera
Nella prima lettura (1Re 19,9-13) l’espressione che ci colpisce si trova al termine del famoso racconto che dà avvio alla grande esperienza profetica disegnata sul calco della fondante esperienza mosaica. Infatti, le due esperienze si richiamano: “La Legge i profeti dicono che…”. La Legge è data sul monte Sinai con il dono delle tavole di pietra, mentre l’esperienza profetica nasce sul monte Oreb attraverso l’incontro con Dio, che manifesta un carattere misterioso e inaccessibile. Noi moderni sottolineiamo che Dio è inaccessibile e incomprensibile, ma Dio è tale, cioè inaccessibile e incomprensibile, perché innanzitutto è inesauribile. Così è la vita monastica: non è nient’altro che l’intuizione di questo mistero, del Dio inesauribile, il cui accesso pertanto non si esaurirà mai, non finirà mai come il fuoco del roveto ardente. Non basta nemmeno l’intero corso di un’esistenza per attingerlo, perché l’amore di Dio è inesauribile. Dio è invece inaccessibile e incomprensibile per chi intende in qualche modo possederlo – metterselo in tasca! – come fa l’uomo moderno che vuole carpirlo e disegnarlo a misura del suo io. Non è l’io che si apre a Dio, ma è Dio che è rinchiuso nel mio io.
Ecco, questo episodio molto bello svetta con un’espressione inconsueta di cui ti faccio dono e che dice:
“Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello…”. (1Re 19,13)
Per vedere Dio bisogna coprirsi il volto, perché in questo modo la Scrittura ebraica esprime nell’Antico Testamento l’inaccessibilità e l’invisibilità di Dio, per cui anche quando si rischia di vederlo persino di spalle, occorre coprirsi il volto con il mantello. Per difendersi dall’incontro bruciante con il mistero santo di Dio, per non correre il rischio di restarne in qualche modo accecati, bisogna coprirsi il volto con il mantello.
Soprattutto voi che provenite da Binzago, esperti nel fare mobili – mi siete familiari e conosco un po’ la vostra mentalità, essendo vissuto per un certo tempo a Seveso, anzi, dal 1978 ho iniziato a Cesano Maderno la mia attività di conferenziere in collaborazione con un giovane sacerdote ivi presente in quel tempo – vi domanderete: quale vantaggio c’è, quale guadagno c’è nello spendere l’esistenza nella vita monastica? Forse pensate persino che la vita così sia persa?! Ma vi chiedo: tutto il vostro lavoro, tutta la vostra fatica, tutto il vostro lottare, tutto il vostro amore e le vostre attività, come fanno a stare in piedi, a diventare consistenti, se non si misurano con il mistero santo di Dio? Perché tutto si corrompe in fretta… Chi ha qualche anno in più ha magari assistito alla vicenda di ditte familiari, molto affermate, crollate ad opera della cattiva gestione non più dei nipoti, ma ora spesso già dei figli. Occorre coprirsi il volto con il mantello perché, per vedere il mistero santo di Dio, non bisogna avere uno sguardo possessivo, ma – ed è il primo messaggio per te e tutte voi sorelle – quando venite qui a pregare durante la liturgia o durante l’adorazione eucaristica, pur non vedendo il mistero di Dio, potete sentirne la voce e la forza suadente (“Come l’udì, Elia si coprì…).
L’incontro con Dio non è dell’ordine del vedere, benché tutta la tradizione greca e patristica usi il verbo theorèin/θεωρείν, ma è dell’ordine dell’udire, si colloca nella sfera dell’ascolto. Cosa dice, infatti, anche il Prologo della Regola benedettina? “Obsculta, o fili, praecepta magistri/Ascolta, figlio mio, gli insegnamenti del maestro” (RB Prologus 1). E cosa si ascolta? Lo deduciamo dal testo, riandando anche al versetto precedente con il quale il profeta si distacca dall’idea che Dio si possa incontrare nelle manifestazioni fragorose e potenti della natura (vento, terremoto, fuoco,) che sono peraltro le stesse immagini presenti nella rivelazione dell’Esodo. Dice infatti il testo:
“Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento”. (1Re 19, 11b) E così prosegue: “Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. 12Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco”. (1Re 19, 11c-12) Si noti che sono gli elementi nei quali ogni religione antica identifica il manifestarsi di Dio, reso con immagini eclatanti. Elia, e con lui la tradizione profetica, percepisce Dio solo nella brezza leggera. Anzi dice il testo: “(Nel) sussurro di una brezza leggera”. (1Re 19, 12b)
La vocazione monastica custodisce la capacità di ascoltare il divino sussurro della brezza leggera! E quando si può sentire? Magari ci si ferma in preghiera ore e ore, e sembra che nulla accada. Poi mentre ci si allontana si sente il sussurro di una brezza leggera… Provate! Date fiducia a queste mie parole! Dio non può essere visto, ci si deve coprire il volto con il mantello, ma può essere ascoltato – sebbene l’ascoltare sia oggi una disposizione difficile e dimenticata – solo in profondità. Soprattutto così dev’essere per chi vive lo stato di consacrazione.
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Sparì dalla loro vista – Resta con noi perché si fa sera!
La seconda espressione proviene dal Vangelo che avete scelto (Lc 24,13-35). Qui è contenuta un’espressione scioccante nel racconto dei discepoli di Emmaus, che rappresenta il “racconto perfetto”, per forma e contenuto, di tutta la Sacra Scrittura! (Nulla è fuori posto, nessun narratore di ieri e di oggi avrebbe potuto scrivere una narrazione così ben fatta nella sua composizione). Eppure, come anticipavo prima, c’è un’espressione che colpisce. Dapprima i due ascoltano il personaggio misterioso che non avevano riconosciuto: eppure erano stati suoi discepoli, lo avevano seguito da vicino; di seguito avevano ascoltato anche la testimonianza delle donne di ritorno dal sepolcro.
“Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto”. (Lc 24, 22-24)
Poi Gesù continua il cammino con loro e dopo averli ascoltati a lungo reagisce:
“Disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui”. (Lc 24,25-27)
E quindi il racconto introduce un elemento di sorpresa:
“Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano”. (Lc 24,28)
Evidentemente si richiama qui la parabola dei talenti (Mt 25, 14-30). Anche in quel caso il padrone se ne va in un paese lontano. E ancora san Paolo nella prima lettera ai Corinzi al capitolo 7 ci ricorda che “il tempo si è fatto breve” (1Cor 7, 29). E aggiunge: “passa la scena di questo mondo!”. (1Cor 7, 31).
Finalmente i due discepoli arrivano al villaggio ed entrano alla cena e Gesù compie i gesti eucaristici. Al termine, improvvisamente, è detto:
“Ma egli sparì dalla loro vista” (Lc 24, 31b).
Ecco la seconda espressione, presa dal vangelo, di cui ti faccio dono. Perché, secondo san Luca, nel momento culminante Gesù sparisce dalla vista dei discepoli? Dobbiamo ammettere che secondo il nostro modo di vedere, così come per i discepoli di tutti i tempi, siamo tentati di pensare che noi, al posto dei due di Emmaus, l’avremmo riconosciuto! Anche perché l’evangelista all’inizio del testo dice in modo enfatico che è Gesù in persona – nel testo originale greco è ancora più enfatico: καὶ ⸀αὐτὸς Ἰησοῦς/autòs Jesùs, “Gesù, proprio Lui” – ma nella dinamica del racconto una tale certificazione, tenendo presente che i discepoli lo avevano visto morire in croce, non serve. Non serve ai personaggi che si sappia fin dall’inizio che il viandante sia Gesù, anzi non lo riconoscono.
“Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo” (Lc 24,15-16).
Tanto è vero, ed è interessante notarlo, che c’è un bellissimo gioco delle parti che è stato usato persino nel cinema. Uno dei due dice:
“Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?”. (Lc 24, 18)
Gesù appare sì come un forestiero che però fa raccontare ai due discepoli il Vangelo “in miniatura”. Se noi leggessimo il rotolo del testo di Luca, ormai alla fine (siamo infatti al termine del Vangelo), troviamo incastonato il sommario di tutto quanto è avvenuto prima! È un racconto messo sulla bocca dei discepoli che fanno memoria distesamente della vicenda di Gesù. Vi aggiungono persino gli eventi accaduti dopo la morte (“Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti…”), ma tutta la narrazione si conclude in modo drammatico così:
“… ma lui non l’hanno visto!”. (Lc 24,22)
Ritorna il tema del vedere. Il narratore fa notare in maniera sconsolata: ma Lui non l’hanno visto! Nonostante le donne avessero raccontato gli eventi al sepolcro e poi anche i discepoli avessero costatato la veridicità della testimonianza delle donne, Gesù risorto non si vede. Perché accade questo? Perché finora quello dei discepoli è (stato) un racconto senza la fede! A questo punto Gesù prende la parola, ripercorrendo la storia della salvezza, a partire da Mosè e dai profeti, ma in modo essenziale il racconto mette in bocca a Gesù l’ermeneutica dell’unica cosa necessaria:
“«Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui”. (Lc 24,26-27)
Gesù mette il sigillo su tutta la storia della salvezza. È a questo punto che il testo sembra deviare il filo del racconto:
“Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano” (Lc 24,28).
Come è possibile vederlo quando Egli, nel pane spezzato e nel calice condiviso, sparisce dalla loro vista? Così come accade anche durante la celebrazione eucaristica, nessuno di noi vede Gesù in persona, perché si sottrae alla nostra vista concupiscente, cioè ad uno sguardo che vuole prendere, afferrare, indagare, possedere, e non sa entrare invece nella dimensione dell’invocazione orante. Di fronte a Gesù che vuole andare oltre, per un’altra strada, i discepoli reagiscono formulando – senza saperlo – quella che nei due millenni della storia cristiana è divenuta la preghiera di tutta la Chiesa, musicata in ogni stile:
“Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto”. (Lc 24,29)
È il tempo della Chiesa! È il tempo del tramonto! È il tempo dopo la Pasqua, è il tempo che volge al declino (secondo la traduzione precedente), perché passa la scena di questo mondo! (1Cor 7,31). Di fronte a Gesù che sparisce dalla loro vista noi dovremmo essere come le nostre sorelle Adoratrici dell’Eucaristia! Ma di quell’Eucaristia che risuona dentro di noi e riscalda il cuore e la vita, perché noi possiamo diventare coloro che semplicemente pregano supplicando: “Resta con noi perché si fa sera! Resta nell’ora del tramonto, nel tempo che viene dopo la luce sfolgorante della Pasqua!”.
Fin da stamattina ho viaggiato attraversando le nostre montagne e i nostri laghi dedicando la giornata a visitare i monasteri. Stamattina ero all’Isola di San Giulio; sono poi passato sopra Premeno e finalmente sono arrivato qui. Ed è stato uno spettacolo indimenticabile di colori e di paesaggi! Questa luce luminosissima serve per far germinare la Parola da questo grembo di preghiera.
In sintesi, allora, “catturiamo” due espressioni prese dal Vangelo: “Egli sparì dalla loro vista” – ed è scioccante! –. “Resta con noi perché si fa sera” – ed è l’espressione che scalda il cuore.
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Così anche il Cristo – Le membra soffrono e gioiscono insieme
E finalmente, considerando lo spirito delle Monache benedettine, secondo la spiritualità di Mectilde de Bar con l’adorazione perpetua del santissimo Sacramento, ci riferiamo al testo della seconda Lettura (1Cor 12,12-26). È il famoso capitolo 12 della prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi. Anche in questo caso c’è un’espressione che nessuno mai commenta contenuta nel primo versetto:
“Come infatti il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo” (1Cor 12,12)
Probabilmente nella conclusione della frase saremmo stati tentati di scrivere “così anche la Chiesa!”. Mentre san Paolo scrive: “Così anche Cristo!”. Perché noi siamo molto impressionati dal seguito del brano in cui Paolo esercita una retorica molto forte. Tanto è vero che egli in modo surreale quasi immagina un dialogo tra gli organi del corpo che non possono gli uni fare a meno degli altri per un funzionamento armonico del tutto. Per questo pensiamo che l’immagine del corpo proposta da Paolo sia l’unità molteplice e complementare delle membra. Tuttavia, questo modo di pensare riguardo al corpo è influenzato dalla cultura classica, espressa in modo esemplare nell’episodio famoso di Menenio Agrippa (cfr. Tito Livio, Ab Urbe condita, Libro II, 32). Se in una società, in un paese, in un comune, in una famiglia, un membro va da una parte, e l’altro membro va dall’altra parte, se uno strato sociale “si arrocca sull’Aventino”, il corpo della società si divide e si sfascia. Il corpo ha bisogno di concordia, cioè di complementarità nell’unità e di ciascun membro con le sue caratteristiche. Ma questa è la visione ellenistica del corpo. Nel seguito del testo san Paolo vi fa riferimento ampiamente, mediante un lungo svolgimento rivolto a interlocutori greci in grado di comprendere anche attraverso una drammatizzazione: c’è l’immagine del corpo come insieme coordinato di membra.
Tuttavia, all’inizio del brano san Paolo dice che il corpo, secondo la mentalità semitica, non è tanto e solo l’insieme concorde e complementare delle membra, ma è il segno con cui l’“io spirituale”, che nessuno vede, entra in contatto con il mondo. A occhio nudo voi non vedete il mio “io spirituale”, ma lo vedete attraverso la mediazione del mio corpo, che è composto di molte membra, dalla mia voce, dai gesti, dalla fisiognomica, della conoscenza che avete di me ormai da dieci anni. Il corpo è il segno sintetico dell’io, e si esprime prima di tutto per ciò che ci unisce, prima che per ciò che ci distingue. Per questo Paolo può dire che il corpo è Cristo. La Chiesa sussiste non per dire innanzitutto che: “io ho bisogno di te e tu hai bisogno di me, che io porto le tue sofferenze e tu porti le mie”: certo essa significa anche questo, ma tale valenza è successiva. La Chiesa c’è e sussiste per testimoniare che Cristo può essere detto nella sua ricchezza, anch’essa inesauribile, solo da tutti noi insieme, nell’unità del corpo, nell’unico segno con cui noi lo possiamo dire al mondo. L’unità dei membri dice e comunica l’inesauribilità del mistero di Cristo, nessuno da solo, ma solo tutti insieme!
La gente crede se vede che noi siamo uniti da Lui e in Lui. Questo primo versetto è sorprendente, perché descrive l’inesauribilità di Cristo che non può essere detto in modo esaustivo nella sua interezza da nessun papa, vescovo o teologo, religioso o laico, ma ha bisogno dell’unità e della molteplicità di molte figure e di molte membra. Tale è la vera necessità della Chiesa, perché nessuno da solo può pensare di essere e di dire unilateralmente e in modo esclusivo il Signore Gesù!
Concludo con un’ultima frase, che vuole essere il ricavo positivo con cui leggere bene la vostra vocazione:
“Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui”. (1Cor 12,26)
Solo in questo modo noi riusciamo a dire la ricchezza inesauribile di Gesù. Perché se io soffro con te e tu, a tua volta, soffri con la sorella, con i genitori e con tutti gli altri, ma anche, e ugualmente, se onori l’altro, il fratello, l’amico e il parente, anche così esprimiamo la ricchezza del Corpo che è Cristo. Non siamo solo membra sofferenti, ma siamo anche membra gaudiose. Sarebbe triste un cristianesimo ridotto sempre e solo ai misteri dolorosi. Dare onore al corpo, richiama all’uomo di essere stato creato a immagine di Dio e figlio di Dio. L’uomo è più del suo peccato ed è oltre la sua malvagità, ed è solo perché l’uomo eccede la condizione di miseria che può recuperare il suo peccato, può avvertire che la sua sofferenza è lenita e guarita.
In conclusione, ti auguro cara sorella Irene, che le tre espressioni su cui abbiamo meditato:
“si coprì il volto”;
“sparì dalla loro vista”;
“così anche il Cristo”.
siano capaci di suscitare in te le altre esperienze:
“il sussurro d’una brezza leggera”
“resta con noi perché si fa sera”
“le membra soffrono e gioiscono insieme”
Noi oggi gioiamo con te, con tanti auguri!
+Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara