Lo scorso martedì 30 novembre il vescovo Franco Giulio Brambilla ha presieduto nella basilica di Gozzano la celebrazione eucaristica nella quale sono stati conferiti i ministeri del lettorato e dell’accolitato a a quattro seminaristi del Seminario diocesano San Gaudenzio.l ministero del lettorato sarà conferito a Beniamino Agliati delle parrocchie unite di Novara Centro; a Francesco Antonio Fittipaldi, della parrocchia di Santa Maria Vergine Assunta di Trecate, e a Vincenzo Formisano, della parrocchia di Novara Bicocca. Il ministero dell’accolitato a Lorenzo Armano, della parrocchia di San Giovanni Battista ad Alagna.
Di seguito il testo integrale della sua omelia.
La fede nasce dall’ascolto
Omelia nella celebrazione del Conferimento dei ministeri ai seminaristi
del Seminario San Gaudenzio
- L’orecchio, la bocca, il cuore
La fede nasce dall’ascolto. Questa espressione è il suggello di un lungo ragionamento di Paolo, al capitolo decimo della lettera ai Romani, ed esprime la chiamata universale alla fede, al credere, in cui, come dice l’Apostolo qualche riga sopra, non è all’opera solo l’orecchio – la fede nasce dall’ascolto ed è l’orecchio che ascolta – ma è coinvolta anche la bocca, la quale esprime la professione di fede pubblica e udibile, ed il cuore, nel quale si fonda l’altro momento interiore della fede, come un tronco con le sue radici profonde che si radica nella Pasqua di Gesù.
Dice infatti il testo di Romani:
“…Se con la tua bocca proclamerai: «Gesù è il Signore!»” (Rm 10, 9a)
È la formula di fede più breve: noi predichiamo che è il Vivente – predicato nominale – questo Gesù, proclamiamo la signoria, la centralità di questo Gesù, che è morto, anzi è morto crocifisso! Il mio maestro di cristologia diceva che quando si pronuncia quel verbo “è” (che peraltro non si trova nel testo originale – Kύριον Ἰησοῦν – perché è sottinteso), dovrebbe esploderci la mente! Infatti, noi affermiamo che questo frammento di storia, rappresentato da Gesù, è il senso, la mèta, il centro gravitazionale, addirittura la vita e la sorgente – il Vivente – della storia. E possiamo fare questo come un atto di fede presente, solo perché esso è radicato nella Pasqua di Gesù, perché il rimando alla Pasqua di Gesù è raggiunto – nello Spirito (1Cor 12,3) – dal cuore dell’uomo. Infatti, col cuore si crede:
“…e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo”. (Rm 10, 9b)
Come ho già accennato, si tratta probabilmente della formula di fede più antica, anche rispetto all’homologhia nominale Kύριος Ἰησοῦς, perché riporta la reazione immediata delle donne e dei discepoli alle apparizioni del Risorto. «Dio lo ha risuscitato dai morti»: se sostituiamo il pronome lo del versetto 9 con il nome di Gesù otteniamo una dichiarazione di fede di questo tenore: “Dio ha risuscitato Gesù dai morti!”. Sembra la reazione immediata all’apparire del Risorto, che modifica la fede nella risurrezione dell’Antico Testamento, che professava “la resurrezione dei morti” – τῶν νεκρῶν -, con la preposizione “dai morti” – ἐκ νεκρῶν -: il genitivo di separazione attesta che Gesù è separato dal regno dei morti, anticipatamente rispetto al destino universale di tutti nella resurrezione finale. La formula “dai morti” risulta essere così un’espressione della singolarità cristologica. Gesù viene sottratto al destino di morte ed è ricondotto in vita! Egli è il Primo, la primizia, il primogenito di molti fratelli.
La fede nasce dall’ascolto
Omelia nella celebrazione del Conferimento dei ministeri ai seminaristi del Seminario San Gaudenzio
30-11-2021
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La professione di fede che attestava la presenza vivente di Gesù Risorto ha la sua collocazione liturgica probabilmente prima della proclamazione Vangelo. Ne troviamo eco in un testo che Plinio il Giovane, governatore della Bitinia, invia all’imperatore Traiano, per sapere come comportarsi. Quando Plinio manda la sua “polizia” ad indagare sulla vita e sulle usanze delle nuove comunità di cristiani per vedere come agiscono, descrive la situazione in modo lapidario così: “avevano l’abitudine di riunirsi in un giorno stabilito prima dell’alba e di cantare fra loro a cori alterni un inno a Cristo, come a un dio”. (cfr. Lettera 96 di Plinio il Giovane a Traiano). È la foto dall’esterno della riunione della comunità, che ci sorprende per la precisione, siamo infatti solo nel 112-113 d. C.!
La fede dunque nasce dall’ascolto, ma si esprime sia con la bocca che con il cuore, così che tutto l’uomo sia coinvolto nell’atto della fede. Una tale affermazione è molto importante perché permette a Paolo, con una serie di affermazioni in crescendo, di introdurre la frase successiva:
“Ora, come invocheranno colui nel quale non hanno creduto?
Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare?
Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci?
E come lo annunceranno, se non sono stati inviati?
(…) Dunque, la fede viene dall’ascolto e l’ascolto riguarda la parola di Cristo”.
(Rm 10,14-15a.17)
Voi tre amici che chiedete il ministero del lettorato, oggi fate un passo tra i più preziosi anche in prospettiva della vita sacerdotale, come anche l’altro amico che ha chiesto il ministero dell’accolitato. L’uno custodisce il corpo della Parola, l’altro il corpo dell’Eucaristia: sappiamo che il corpo dell’Eucaristia comprende tutto il corpo della Parola; non sono due corpi distinti, infatti, la celebrazione della Messa è fatta per gran parte di parola (sacramentale).
Vorrei dunque indicare a voi oggi che ricevete il Lettorato, ma anche a tutti gli altri qui presenti che hanno l’occasione di rinnovare il loro impegno e il loro proposito che noi siamo anzitutto ministri della Parola. L’essere ministri della Parola, perché sia ascoltata con l’orecchio, apra la bocca a confessare che Gesù è il Signore e dischiuda il cuore, perché sia radicato non su venticelli che passano, ma sulla radice non sradicabile della Pasqua di Gesù, comporta che si abbia una custodia profonda della Parola! In termini pratici potremmo chiederci quanto tempo dedichiamo alla lettura della Sacra Scrittura in una settimana, non dando mai per scontato che basta una certa conoscenza dei testi… Dobbiamo dedicare tempo alla Parola, avere la custodia della Parola come qualcosa che ha un valore grande nella nostra vita.
Qualche giorno fa ho fatto riascoltare il messaggio registrato del card. Montini che avevo inviato come augurio natalizio lo scorso anno. Era il 1960, avevo 10 anni e mezzo e ricordo che tale messaggio era diffuso come commento di sottofondo al presepe dell’oratorio del mio paese, allestito dal coadiutore con i mezzi artigianali che aveva a disposizione allora. In quell’anno l’Arcivescovo di Milano, card. Giovanni Battista Montini, anziché per iscritto, aveva diffuso una registrazione che ho potuto recuperare. L’ho fatta ascoltare anche al direttore di Sat 2000 che è rimasto scioccato per la potenza e la forza del suo linguaggio! Nel novembre 2020 ho riscoperto questo testo grazie a monsignor Leonardo Sapienza, reggente della Prefettura della Casa Pontificia, che da tempo raccoglie gli originali scritti a mano di Montini/Paolo VI (Paolo VI, Non esistono i lontani, a cura di Leonardo Sapienza, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2020, 19-27). Il messaggio con il caratteristico tono grave della voce di Paolo VI esordisce con la frase emblematica: “Uomo d’oggi io ho un messaggio per te…”. Otto minuti di messaggio, nel quale l’Arcivescovo non fallisce una parola, non ha un inceppo linguistico e con grande potenza si rivolge all’uomo moderno. Adatto per quell’epoca, ora potrebbe essere ritradotto tenendo davanti agli occhi l’uomo d’oggi, della nostra epoca, che non è tanto il non credente, che professa un’ideologia che si sostituisce alla fede, ma piuttosto l’indifferente, l’inappetente.
Così è la situazione di chi annuncia oggi: egli porta dentro il fuoco della Parola, ma pochi sono gli ascoltatori, pare che non abbiano il desiderio di sentire la (una) parola… Noi, invece, dobbiamo custodire, innanzitutto, il principio che la Parola che noi proclamiamo è di Dio, non è mia, non è nostra, non è una cosa che possiamo manipolare, che possiamo forse riferire a persone concrete, anche se essa viene sempre da altrove. Una seconda cosa che dobbiamo custodire è che non solo è una Parola che ci sovrasta, che viene da altrove, ma è una Parola che ci chiama, che è un appello, che lascia lo spazio per meditare, che sta al tuo fianco e che ti suggerisce…
San Filippo Neri fu un gigante dell’educazione e non ha lasciato nulla di scritto, anzi prima di morire bruciò ogni sua opera. Il suo biografo racconta che nella cerchia di coloro che avevano preso a seguirlo aveva scelto alcuni che, insieme con lui, facessero opera di predicazione e catechesi. Così Filippo iniziava un sermone, una catechesi, e nell’intento di non accentrare su di sé l’attenzione, lasciava ai suoi discepoli di continuare in tono familiare l’istruzione cristiana, per rendere possibile l’ascolto della parola come appello ad onda lunga.
Anche il Manzoni nei Promessi Sposi riferisce al cap. XXIV un episodio legato al cardinale Federigo Borromeo – che storicamente fu figlio spirituale di san Filippo Neri, insieme ad altri cardinali il cui il card Baronio e molti vescovi – quando in visita pastorale pronuncia l’omelia che porterà il suo frutto nel gesto del sarto che, ospitando Lucia appena liberata dal castello, con i suoi modi e le sue parole dà seguito alle parole del Cardinale.
Qui [il sarto] interruppe il discorso da sé, come sorpreso da un pensiero. Stette un momento; poi mise insieme un piatto delle vivande ch’eran sulla tavola, e aggiuntovi un pane, mise il piatto in un tovagliolo, e preso questo per le quattro cocche, disse alla sua bambinetta maggiore: – piglia qui –. Le diede nell’altra mano un fiaschetto di vino, e soggiunse: – va’ qui da Maria vedova; lasciale questa roba, e dille che è per stare un po’ allegra co’ suoi bambini. Ma con buona maniera, ve’; che non paia che tu le faccia l’elemosina.
Non sappiamo se il Manzoni conoscesse che il cardinale Federigo fosse stato discepolo di san Filippo Neri e quindi costruisca l’episodio del sarto come exemplum del modo di ascoltare il Vangelo dei suoi discepoli. Ciò che intendo sottolineare è che la custodia dell’ascolto deve lasciare lo spazio perché l’altro ascolti a sua volta, sia provocato ad ascoltare, lo lasci meditare, gli lasci il gusto del non detto e di ciò che la Parola invita a fare.
- La prontezza del cuore
La fede che viene dall’ascolto non è rivolta solo generalmente a tutti i cristiani, ma anche singolarmente ai discepoli. Lo troviamo raccontato nel Vangelo che abbiamo ascoltato oggi nella festa di sant’Andrea. Il testo è fatto di due episodi paralleli: in un primo momento Gesù chiama Simone e Andrea, suo fratello.
“(Gesù) vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. 19E disse loro: «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini»”. (Mt 4, 18-19)
Qui la fede che nasce dall’ascolto prende la forma di un “venire dietro a me”, si potrebbe dire ha la figura della sequela. C’è una frase fulminante nel libro di Dietrich Bonhoeffer “Sequela” che recita: “Solo chi crede segue, e solo chi segue crede”. (D. Bonhoeffer, Sequela, Queriniana, Brescia 2004, 50-51). È il problema più radicale che abbiamo noi, soprattutto la nostra generazione inappetente che aspetta di credere e capire tutto per poter seguire! Ecco invece: per credere bisogna anche seguire, occorre muoversi, bisogna “venire dietro a me”. Mettersi tra coloro che seguono!
A te, Lorenzo, dico questa l’altra cosa: mi riferisco all’altra custodia, la custodia del Corpo di Cristo che è anche il corpo della Chiesa. Non esiste il corpo di Cristo senza il corpo della Chiesa, perché il Corpo di Cristo è dato per edificare il corpo della Chiesa: potremmo dire che il programma che porta l’Eucaristia è di edificare la Chiesa. Occorre dirlo con maggiore intensità che il modo esatto e bello di celebrare l’Eucaristia è che faccia la Chiesa. Come dice anche il famoso canto: “Tu da mille strade ci raduni in unità e per mille strade poi dove Tu vorrai noi saremo il seme di Dio” (P. Sequeri, Symbolum ’77, quarta strofa, conclusione). Se la Chiesa non convoca e non invia, non è l’Eucaristia di Gesù!
Bisogna custodire il corpo della Chiesa, perché l’Eucaristia porta in sé il programma spirituale per edificare la Chiesa. E, allora, come celebriamo? Perché è nel gesto pratico che è custodita l’intenzione profonda. Nella mia vita ho potuto capire teoreticamente perché è importante il pratico. Senza pratica non si va da nessuna parte. Infatti, si può amare una persona senza la pratica dell’amore? Assolutamente no! Si può amare il Signore senza la pratica della sequela?! Assolutamente no! Noi abbiamo bisogno di cimentarci con lo slancio pratico di adesione al Signore.
Mi ha sempre fatto impressione che nella seconda parte del brano di Vangelo si fa menzione anche del padre:
“Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo, figlio di Zebedeo, e Giovanni suo fratello, che nella barca, insieme a Zebedeo loro padre, riparavano le loro reti, e li chiamò. Ed essi subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono”. (Mt 4, 21-22)
È interessante notare che vengono lasciati il padre con la barca. E non è nient’altro che il commento, l’evocazione, della grande frase dell’Antico Testamento: “Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre…” (Gn 2,24a). Il modo con il quale noi lasciamo, partiamo da casa, è la maniera con cui costruiamo la nostra identità futura. Mi ha sempre impressionato questo “subito” che non ha valore temporale, ma che vuole piuttosto indicare la prontezza. Possiamo allora concludere ed è anche il mio augurio per voi: coltiviamo noi veramente questa prontezza dentro il nostro cuore?!
+Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara