Una casa di preghiera, consolazione, ospitalità

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Una casa di preghiera, una casa di consolazione e una casa di ospitalità. Sono le tre parole sulle quali mons. Franco Giulio Brambilla ha scandito la sua omelia per la solennità di San Giulio, nella messa celebrata all’Isola mercoledì 31 gennaio.

«La preghiera è il luogo dell’attesa, la preghiera è il luogo della fiducia, e per questo, in questi quarant’anni, sono venute qui all’Isola tante persone ad attaccare la loro spina… per trovare l’energia della loro vita; per ritrovare qui una casa di preghiera», ha detto il vescovo, riferendosi al monastero Mater Ecclesiae che da oltre quattro decenni è ospitato sull’isola e ne ha fatto uno dei più importanti centri di spiritualità nel nord Italia.

Poi il vescovo ha parlato della casa di consolazione: «Dipende dalla casa di preghiera, ma la casa di preghiera diventa una casa di consolazione quando l’opera di Dio è capace di penetrare nelle opere degli uomini e delle donne e diventa un’opera che consola, che ascolta, che accarezza, che dà tenerezza, che concede prossimità, che vive vicino e che sa aspettare ed attendere».

Infine l’ospitalità: «un giovane mi ha suggerito che questa deve diventare una casa, ma adesso diremo una città, un lago, un bacino, una conca, la conca d’argento del Cusio, deve diventare una casa di ospitalità! Vorrei che quest’anno la mano pubblica, l’istituzione pubblica, educasse le persone ad essere ospitali, a stabilire una circolarità buona, per cui uno quando viene qui da noi, si possa sentire a casa».

Di seguito il testo integrale, scaricabile in pdf anche da questo link.


LA CASA SULLA ROCCIA

 

Due segni, ieri, mi hanno accompagnato al mio arrivo qui all’isola di San Giulio, suggerendo in me una traccia per le parole che volevo dirvi questa mattina.

Il primo segno è questo: sono arrivato quasi su una scialuppa, portato da un parroco con una barca bassa, che sfiorava appena il pelo dell’acqua. Mi ha fatto rivivere l’esperienza di San Giulio, il quale è arrivato su un mantello. Pressappoco eravamo nella stessa condizione, tanto è vero che all’imbarcadero si è creato il problema di come scendere… Ho rivissuto l’approdo, a cui è arrivato, oltre 1650 anni fa circa, san Giulio!

E il secondo segno è stato l’incontro con il nostro fratello Timoteo, che saluto fraternamente e che arriva proprio dall’Isola di Egìna, la patria natale di san Giulio. Riflettevo a cosa passasse per la mente di chi, come san Giulio, ha lasciato la sua terra, tanti secoli fa. È partito attraversando tutta l’Italia, a metà tra un rifugiato e un perseguitato – dice la biografia che ho riletto ieri sera – e poi trasformandosi in evangelizzatore. Fermatosi a Roma, chiese le credenziali all’imperatore, per arrivare poi alla periferia dell’Impero ed annunciare il Vangelo. Probabilmente quando san Giulio è approdato all’isola del Cusio, ha ripensato alla sua isola di partenza, sentendosi un po’ di casa!

Questi due segni mi hanno fatto trovare il filo di ciò che volevo dirvi quest’anno. Il pensiero va all’isola di San Giulio, questa stupenda perla del Cusio. San Giulio ha fatto costruire qui una chiesa, lungo la storia registriamo la continuità di questa chiesa per diciassette secoli, e – sorpresa tra le sorprese! – 44 anni fa è avvenuto un salto di qualità, quando la lungimiranza del mio predecessore, monsignor Aldo Del Monte (1915 -2005), ha accolto un manipolo di sorelle che aveva “sciamato” da Viboldone, a sud di Milano, in cerca di un luogo dove costruire una casa di preghiera. Questa enorme struttura, il seminario minore di Novara ha ripreso vita, passando il testimone, e ha ritrovato la linfa della preghiera, della consolazione e dell’ospitalità. Ecco le tre parole, una casa di preghiera, una casa di consolazione e una casa di ospitalità: queste espressioni vorrei fossero il messaggio per questo “San Giulio 2018”!

 

Una casa di preghiera

Le suore hanno costruito qui una casa di preghiera. Qualche volta ci domandiamo cosa ne sarebbe, se questo ambiente fosse stato abbandonato. L’isola sarebbe morta, la speculazione probabilmente avrebbe aggredito anche la trasparenza di cuore dei nostri sindaci, che – ne sono sicuro – non muovono un sasso se non per il bene della gente, e sarebbe diventata ancora un’“isola di serpenti”.

E invece alcuni – all’inizio ne sono bastate sei – ci hanno creduto veramente e hanno trasformato l’isola, riscoprendo la sua vocazione più profonda, quella di edificare sulla roccia una casa di preghiera. Perché è importante che almeno una volta – è il sesto anno che vengo all’Isola – riscopriamo la dimensione più propria di questo luogo!

La preghiera che qui fanno le suore, scandendo il giorno e iniziando alle quattro e venti del mattino, viene chiamata l’Opus Dei, che tradotto in italiano significa l’Opera di Dio! Perché la preghiera è un opus, è un’opera, è un ergon? Perché la preghiera è quel gesto che lavora dal di dentro il cuore, la vita dell’uomo, per trasformarla in un grembo accogliente. Ieri sera abbiamo fatto un simpatico incontro con le sorelle – quando viene il Vescovo vogliono sentire la voce del diletto e quindi mi invitano sempre – in cui parlo loro delle cose belle della teologia. Per esempio, ieri sera, erano persino di scena i salmi imprecatori.

Questa è una casa di preghiera e lo vedevo nell’esile figura della Madre, che ieri, superando qualche difficoltà di salute, era presente, e che è stata lungo 44 anni l’anima di questa casa di preghiera. Vorremmo ringraziare lei, particolarmente in quest’anno: una persona sola può diventare l’anima di una cosa inimmaginabile!

Noi abbiamo paura di cambiare due o tre cose. La madre è divenuta “anima” nella misura in cui è stata così esile, così trasparente, così ricettiva, così capace di far spazio al dono del Signore. E dicevamo ieri sera una cosa molto bella che è emersa dalle domande delle suore: il nostro mondo sta perdendo ciò che si scopre solo nel contesto della preghiera, il “senso del limite”. Il senso del limite, già nella coppia, è quella percezione per cui io so che non devo occupare tutto lo spazio e che ho un confine, un limite, e quindi rimango aperto, disponibile all’altro. Rimane uno spazio che occupi tu. Si può occuparlo con le cose; si può occuparlo con la psiche; si può occuparlo con i sentimenti; si può occuparlo con la parola e con i gesti. E così tutte le altre forme con cui noi sperimentiamo il nostro limite, sperimentiamo la bellezza, la presenza, l’importanza dell’altro.

Ecco la preghiera è il luogo per scoprire l’altro. Prima quello che ci sta intorno; poi occorre scoprire l’altro, in quanto lo possiamo attendere, e non subito “manipolare”, perché l’altro non si può “mani-polare”, tenere sotto mano, ma l’altro invece si può solo ri-conoscere, conoscere in un modo nuovo. La preghiera è il luogo dell’attesa, la preghiera è il luogo della fiducia, e per questo, in questi quarant’anni, sono venute qui all’Isola tante persone ad attaccare la loro spina… per trovare l’energia della loro vita; per ritrovare qui una casa di preghiera.

Vi ringraziamo di tutto questo, dopo tanti anni, e non perdete la certezza, perché questa è una certezza, che questo è il vostro compito più importante, perché è l’Opus Dei, è l’opera di Dio!

 

Una casa di consolazione

La seconda dimensione che si scopre qui, come dice la prima lettura e come descrive la lettera di San Paolo Efesini, è della casa di consolazione.

Sto riflettendo in questi tempi su un aspetto che mi è stato fatto notare da molte persone: quando sono venuto in questa diocesi forse mi sono mosso con braccio forte e disteso, come si usa dire, ma ora sento che è giunto il momento di una seconda fase. Dopo aver scritto le tre o quattro cose che servono per crescere nei prossimi anni e per non morire, si apre il tempo della consolazione.

Per far scoprire questo, mi piace rileggere il brano che avete ascoltato, come seconda lettura, tratto dalla lettera agli Efesini. Questo passo appartiene a quei testi – ce ne sono cinque o sei nelle lettere di Paolo – sempre nella seconda metà delle lettere, la parte che viene chiamata “parenetica”, esortativa, morale, in cui Paolo rincuora la vita della gente, e che non parla delle cose da fare, ma di un clima da far crescere.

Vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. (Ts, 4,1-5)

Ecco questa è la consolazione! Dipende dalla casa di preghiera, ma la casa di preghiera diventa una casa di consolazione quando l’opera di Dio è capace di penetrare nelle opere degli uomini e delle donne e diventa un’opera che consola, che ascolta, che accarezza, che dà tenerezza, che concede prossimità, che vive vicino e che sa aspettare ed attendere.

 

Una casa di ospitalità

C’è, poi, la terza e ultima dimensione che volevo richiamare soprattutto a coloro che si dedicano alla vita pubblica. Anche questo me l’ha suggerito un giovane. Il Signore parla anche attraverso il fratello più giovane, dice la regola di San Benedetto (cfr RB III,3). Il giovane mi ha suggerito che questa deve diventare una casa, ma adesso diremo una città, un lago, un bacino, una conca, la conca d’argento del Cusio, deve diventare una casa di ospitalità!

Da quando si è chiuso l’accesso al Nord Africa, per i fatti che tutti noi conosciamo – molti avevano comprato la casa a Sharm-el-Sheikh o Hurghada – il turismo è rifluito qui da noi: in Italia, in Liguria, sui nostri laghi. Gli indicatori parlano di un 15-20% di presenze in più. Dobbiamo dire una volta per tutte che sono loro che fanno un piacere a venire da noi, e non noi che facciamo un piacere ad accogliere loro. Questo si deve tradurre anche in gesti, in segni, in iniziative, in prossimità, in capacità di interpretare il genio del popolo italiano. Si può dire tutto del popolo italiano: sarà un po’ confuso, un po’ praticone, pressapochista, ma certamente è un popolo ospitale! Talvolta viene a mancare, per i nostri piccoli o grandi personalismi, per l’invidia che attraversa anche noi nella Chiesa, una bella capacità di ospitalità. Quanto sta succedendo coi migranti ne è un segno particolare: li accogliamo in quanto sono una risorsa, e  non per la loro dignità di persone svantaggiate e in cerca di una casa ospitale.

Vorrei che quest’anno la mano pubblica, l’istituzione pubblica, educasse le persone ad essere ospitali, a stabilire una circolarità buona, per cui uno quando viene qui da noi, si possa sentire a casa.

Per fare questo bisogna che quelli di casa sappiano fare spazio dentro di loro. E noi pur avendo un turismo, e comunque un flusso di persone che è molto vario, anche durante le stagioni dell’anno, siamo fortunati, perché il Signore ci ha dato questa piccola e magica Isola, perché fosse un punto di riferimento per tutta la zona del nord della diocesi di Novara.

Il Cusio è la perla della diocesi di Novara, noi dobbiamo tenerla sempre brillante e luccicante: Con tanti auguri per questo 2018!

 + Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara