Lo scorso giovedì 22 ottobre a Melegnano, il vescovo Franco Giulio Brambilla ha presieduto una messa per ricordare la figura del venerabile Carlo Bascapè nel 470° anniversario della nascita. Superiore dei Barnabiti a Milano, strettissimo collaboratore di san Carlo Borromeo e poi vescovo a Novara, Bascapé – originario proprio di Melegnano dove nacque il 25 ottobre 1550 -, guidò negli anni della riforma tridentina la diocesi di Novara, dandole impulso e vitalità pastorale.
Carlo Bascapè. Un vescovo riformatore
Omelia per il 470° anniversario della nascita del venerabile Carlo Bascapè
22-10-2020
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Nella sua omelia mons. Brambilla ripercorre proprio quegli anni novaresi, a partire dall’opera «che è una pietra miliare della storia della città di Novara»: Novaria seu de Ecclesia Novariensi.
Ecco il testo completo.
Carlo Bascapè. Un vescovo riformatore
Omelia alla messa per il 470° anniversario della nascita del venerabile Carlo Bascapè
Sono quattrocentosettant’anni dalla nascita di Carlo Bascapè (1550), al secolo Giovanni Francesco a Basilica Petri (italianizzato in Bascapè, nome di un borgo di Marignano [Melegnano], di cui la sua antica e nobile famiglia era feudataria). Celebriamo la ricorrenza natale di uno dei campioni della riforma tridentina e vescovo della Diocesi di Novara dal 1593 fino all’anno della morte (1615). Egli è ricordato soprattutto perché segretario di san Carlo, perché fu vescovo tridentino riformatore e autore di Novaria. L’opera, come scrive G. Andenna[1], si colloca nella scia dei Gesta episcoporum, con cui si era soliti ricostruire la successione ininterrotta dei vescovi. È un’opera di storia ecclesiastica scritta non solo a garanzia dell’antichità della Chiesa novarese, ma anche per rendere attuale la fecondità della Chiesa di cui era pastore nella cura delle anime.
Il mio intervento vi presenterà alcuni tratti del ministero episcopale del Vescovo della riforma a partire dal volume che è una pietra miliare della storia della città di Novara. L’opera del Bascapè Novaria seu de Ecclesia Novariensi libri duo. Primus de locis alter de episcopis Carolo episcopo Novariensi auctore, Novariae, apud Hieronymum Sessallum, MDCXII (ristampa anastatica: Novara 1993; ora in nuova traduzione del 2015)[2] si segnala per la modernità del disegno rispetto agli stereotipi precedenti. Scrive il prof. Andenna in un suo contributo: «nessun autore di storia ecclesiastica si era interessato alla struttura materiale del territorio e nessuno aveva legato gli interventi di riforma alle condizioni geografiche del suolo su cui insistevano le diverse Chiese diocesane» (p. 16).
L’acuta osservazione dello storico ci fa cogliere l’originalità dell’opera del Bascapè. Essa racconta le intenzioni, le prospettive e le gesta della Riforma tridentina, nello spirito del grande Borromeo, da cui il vescovo di Novara, entrando dai barnabiti, aveva preso il nome. Con l’Arcivescovo di Milano, infatti, Bascapè aveva lungamente collaborato in sintonia di spirito e di opere.
Questi intendimenti ci introducono allo spirito essenziale dello stile e dell’opera del Bascapè. E ce ne fanno intuire anche la “novità moderna” perché, rispetto alle indicazioni, contenute nelle decretali medievali che il barnabita ben conosceva da esperto di diritto canonico, il vescovo di Novara ne dava un’interpretazione del tutto moderna. Infatti, le indicazioni tradizionali contenute per ripensare l’organizzazione della Chiesa sul territorio prevedevano alcuni criteri stringenti: la distanza della parrocchia costituenda dalla sede battesimale; l’aumento del numero dei fedeli; la configurazione geografica da superare, tra monti, fiumi e laghi; la necessaria dotazione economica capace di mantenere il sacerdote in cura d’anime. Questi criteri ben precisi, trasmessi dalle decretali, sono riletti nell’opera del Bascapè in forma originalissima. Il vescovo dividendo il suo scritto in due libri (de locis e de episcopis), propone una sorta di “geografia antropologica” e di “storiografia spirituale”, che sono i due assi per comprendere il rapporto della Chiesa col mondo. Essi forgiano lo sguardo accurato sul mondo contemporaneo nella varietà dei suoi costumi e nella differenza delle condizioni storico-geografiche, in un cambio di secolo che sta transitando verso la modernità. Ma anche ricuperano la memoria di una Chiesa radicata nel suo territorio, quasi disegnando un nuovo anello della catena della traditio ecclesiale.
In questo sta la “modernità” dell’opera di Bascapè, che è all’origine della cosiddetta “civiltà parrocchiale”. Essa si riassume nell’attenzione tipicamente moderna a far incontrare la Chiesa e il territorio, la fede con le condizioni di vita delle persone e la storia/geografia delle diverse culture umane presenti nella diocesi di Novara. Un panorama tanto ampio e vario da mettere a dura prova qualsiasi possibilità di riforma. Era necessario rendere la cura animarum capace di edificare una chiesa pellegrinante nel tempo, presente nel forte mutamento che la cristianità, uscita dal tardo-medioevo, stava subendo sullo scacchiere sociale e politico dell’Europa, in cui l’Italia era teatro di altre dominazioni.
Lo stesso Bascapè era stato mediatore per alcune questioni con la corona di Spagna, su mandato di Carlo Borromeo, al fine di ottenere un riequilibrio tra potere temporale e potere spirituale, anticipando i problemi dei nascenti stati nazionali. Non si deve dimenticare che, allora, la diocesi di Novara era collocata nella sfera di influenza lombarda e la dominazione spagnola doveva fare i conti con le tradizioni culturali e politiche del Ducato di Milano. L’opera del vescovo riformatore, resta profondamente connotata da quella temperie ecclesiale. Tuttavia rimane un modello di lettura del territorio e delle sue componenti storico-antropologiche. Senza questo “racconto” ogni opera di riforma, ogni programma di trasformazione pastorale e sociale, restano velleitari. Alla prodigiosa opera evangelizzatrice il venerabile vescovo ha saputo accompagnare una lettura meditata dei costumi e delle attese del suo tempo, per incarnarvi il Vangelo, secondo le modalità che la riforma tridentina aveva propugnato.
Voglio proporvi ora tre sondaggi che ci presentano dal vivo l’acume storico e l’attenzione alla geografia umana e sociale del vescovo riformatore: il primo riguarda il tema della condizione del lavoro nella zona novarese con la piaga della malaria; il secondo concerne la sua capillare conoscenza delle zone montane con il problema dell’emigrazione e dei suoi effetti; il terzo presenta la riorganizzazione del territorio in Vicariati che non è stata solo una ristrutturazione ecclesiastica, ma ha cambiato il panorama di quella che verrà definita la civiltà parrocchiale. Essa durerà sostanzialmente fino al Concilio Vaticano II e ha fortemente influito sull’organizzazione civile delle nostre zone geografiche. Tralascio le innumerevoli notazioni geografiche, antropiche e storiche riguardanti la flora, la fauna ittica e i mammiferi, le forme delle coltivazioni, le vie di comunicazione, l’organizzazione delle pievi e, infine, com’è naturale tutto il patrimonio artistico e culturale della grandissima Diocesi di Novara (che è geograficamente più grande di 42 Kmq di quella di Milano) che si distende come un albero rigoglioso tra il Sesia e il Ticino. Sentiamola descrivere da lui stesso:
Il territorio della diocesi è in parte pianeggiante e in parte montuoso. Si estende per circa 80 miglia in lunghezza, e in larghezza per 15 nella parte pianeggiante e per oltre 25 in quella montuosa. Si presenta con la forma di un albero, il cui tronco è costituito dalla pianura e i rami dalle catene montuose e dalle valli. La pianura si estende per circa 10 miglia a sud della città e per altrettante e anche più a settentrione, ma alcune piccole alture scendono, come fossero radici dei monti, fino a 3 miglia dalla città, all’altezza di Proh e di Codemonte.
Il primo sondaggio riguarda la conoscenza e l’attenzione del territorio novarese, dove si stava imponendo la risicoltura con le condizioni di lavoro ch’essa comportava, soprattutto per quanto riguarda la “malaria”. La coltura del riso soppiantava quella del grano, ma la non conoscenza delle tecniche d’incanalamento e controllo dell’acqua generava gravi problemi di salute e di mortalità precoce, che il vescovo denuncia fino a stabilire una distanza di sicurezza dei campi di riso dall’abitato dei paesi.
Oggi queste sono terre redditizie per i proprietari, ma esiziali per chi vi abita a motivo della nuova coltura del riso, che ammorbando l’aria dirada la popolazione, ridotta ai soli coltivatori. Un male comune anche alle terre e ai vicariati vicini. L’acqua, infatti, dedotta dalla Sesia attraverso numerose derivazioni, stagnando nei prati e nelle risaie infetta dappertutto l’aria, tanto che molti ne muoiono, anche in tenera età, con gran danno per le coltivazioni, e così in numerosi villaggi non si ritrovano più famiglie antiche né contadini in età avanzata. Vi arrivano allora coloni forestieri o uomini che vanno errando di luogo in luogo, attratti dal guadagno o spinti dalla miseria dei luoghi da cui provengono, per attendere alla monda di questo cereale, ma facilmente si ammalano e muoiono. Va poi diminuendo la produzione del frumento, che ha lasciato il posto alla semina del riso, consumato per la maggior parte fuori da queste terre. Le coltivazioni dei campi vicini alle risaie crescono stentate a causa delle infiltrazioni sotterranee d’acqua; le piante non acquatiche periscono e i giumenti perdono rapidamente la loro forza. I complessi problemi creati dalle condotte d’acqua provocano poi moltissime liti, discordie e risse. La popolazione avventizia riesce a stento ad attendere ai doveri dell’eterna salvezza, mentre i parroci si ammalano e facilmente muoiono. Così a questa coltura legata all’irrigazione della terra, dannosa non solo ai corpi, ma anche alle anime, è necessario porre un freno.
Pensiamo che ancora nel 1896 nessuno poteva sospettare che la malaria fosse procurata dalla puntura dell’anofele, che veicolava la malattia, sedimentandosi come un parassita presente nel sangue della persona infetta. Solo nel 1897 Roland Ross scopriva il parassita malarico negli uccelli, e nel 1898 Giovanni Grassi scoprirà a Roma il veicolo che trasmetteva la malaria nella zanzara anofele. L’intervento del Bascapè, in base alle conoscenze del tempo, cercava di tamponare gli effetti devastanti del morbo, cui si aggiungevano anche le malattie delle febbri tifoidi e altri malanni connessi allo stato della risicoltura del tempo.
Il secondo sondaggio riguarda la precisa conoscenza delle popolazioni montane, che il Bascapè aveva frequentato durante le sue visite pastorali, di cui sono straordinaria testimonianza 44 tomi che raccolgono la corrispondenza e la documentazione di quell’azione pastorale che era stato il fiore all’occhiello della riforma postridentina. L’Ossola era in pieno sviluppo demografico e, se anche il Bascapè non fornisce dati, un’uguale situazione egli invece registra per la Valsesia. Riferendosi a questo territorio, Bascapè nota come in cento anni si sia passati da sette parrocchie, tante erano allora, alle 37 dei suoi tempi. E così commenta:
In questa e in altre regioni montane, infatti, la popolazione ha conosciuto e conosce uno straordinario incremento demografico, dovuto sia alla robustezza fisica degli abitanti, propria di chi vive in montagna, sia al fatto che le pestilenze e le guerre non sono arrivate in questi luoghi aspri e dalle scarse risorse.
La povertà della produzione agricola spingeva, tuttavia, al fenomeno dell’emigrazione, temporanea o definitiva, come il vescovo mette in evidenza per le popolazioni dell’Ossola.
Questa terra non riesce a produrre quanto basta a sostentare tutti i suoi abitanti, che per questo devono emigrare, per gran parte dell’anno e spesso per più anni, in diverse regioni non solo dell’Italia, ma anche di altri paesi, dove esercitando professioni artigianali o mestieri anche umili guadagnano il necessario per sé e in parte anche per le famiglie rimaste a casa. Esercitano il mestiere di calzolai, ciabattini, facchini, spazzacamini, macellai, oppure sono lavoratori dei metalli, o fanno gli osti, gli stallieri, i garzoni o altri lavori simili. Questa condizione è comune non solo agli uomini di questa valle e della nostra diocesi, ma anche a tutti coloro che abitano le aree alpine e in parte subalpine.
Ciò aveva come effetto di favorire le rimesse degli emigranti, che andavano a beneficio delle famiglie, per acquistare i cereali in pianura che assicuravano il pane quotidiano e potevano consentire anche uno sviluppo sociale e religioso, con la costruzione di chiese con i paramenti e le suppellettili necessarie e, infine, il sostentamento del parroco. Il rinascimento religioso, che ne venne, configurò i paesi, anche con la riorganizzazione del laicato attraverso le confraternite, prevalentemente intitolate al Santissimo Sacramento e al Rosario, che fidelizzavano il laicato al servizio delle parrocchie.
Ciò aveva come effetto di favorire le rimesse degli emigranti, che andavano a beneficio delle famiglie, per acquistare i cereali in pianura che assicuravano il pane quotidiano e potevano consentire anche uno sviluppo sociale e religioso, con la costruzione di chiese con i paramenti e le suppellettili necessarie e, infine, il sostentamento del parroco. Il rinascimento religioso, che ne venne, configurò i paesi, anche con la riorganizzazione del laicato attraverso le confraternite, prevalentemente intitolate al Santissimo Sacramento e al Rosario, che fidelizzavano il laicato al servizio delle parrocchie.
Il terzo sondaggio è il più interessante, perché il vescovo Bascapé partendo da queste osservazioni di geografia antropologica e collegandole con la memoria spirituale della Chiesa novarese, ne trasse una riorganizzazione complessiva del territorio. La sua attenzione demografica è una costante del suo de locis. Sentite l’elenco del numero delle famiglie presenti nelle circoscrizioni e nei maggiori centri abitati. Ad esempio: Vespolate, 350 fuochi; Trecate, 700 fuochi; Oleggio, il borgo più popolato della diocesi, 800 fuochi; Alagna in Valsesia, 160 fuochi di cultura Walser; Villa d’Ossola e Valle Antrona, 1400 famiglie; Varzo, 600 famiglie; Crevola e territorio, 300 famiglie; Montecrestese e territorio, 400 famiglie; Baceno e parrocchia, 600 famiglie; Formazza, 200 famiglie. Da qui proviene la riorganizzazione del territorio in Vicariati, un’operazione che rivela la coscienza di una governance veramente degna di un genio organizzativo. Ascoltiamolo:
tratteremo poi di ogni circoscrizione a cui abbiamo dato il nome di vicariato, dal vicario che è preposto a ciascuno di esse. Un vescovo, infatti, non potrebbe provvedere in modo opportuno e vantaggioso alla salvezza spirituale del suo popolo senza preporre a ciascuna di quelle circoscrizioni – che comprendono ognuna molte parrocchie, riunite come in una piccola provincia grazie alla facilità delle comunicazioni – un vicario che a mo’ di custode sappia vigilare sui costumi cristiani del clero e del popolo, rivolgendo loro le necessarie ammonizioni, riferendo al vescovo quanto è opportuno e curando l’esecuzione dei suoi ordini. Sebbene questi siano compiti anche dei parroci, è preferibile affidarli a vicari, che appaiono più adatti a svolgerli e a vigilare sugli stessi parroci.
Così il vescovo Bascapè «poté istituire ventidue circoscrizioni (Terminationes), alcune delle quali ricalcavano, come Intra, Vergonte, Gozzano, san Giulio e Domodossola gli antichi territori delle pievi, ma in altre situazioni il presule decise di modificare la realtà antica per adattarla alle nuove esigenze» (Andenna). Come sentiamo in modo consapevole in quest’ultimo testo che vi cito dal de locis:
se poi nel definire l’ambito territoriale dell’autorità dei vicari diventa difficile mantenere i confini delle antiche pievi, che spesso non sono neppure più conosciuti, se ne devono fissare dei nuovi e, se necessario, modificarli, perché il luogo, la persona e la giurisdizione sono a discrezione di chi li istituisce.
La visita pastorale, la residenzialità dei vescovi e la formazione nei seminari – come è noto – sono le tre scelte propugnate dal Concilio di Trento per la riforma della Chiesa. Queste tre scelte che riguardano il governo spirituale (territoriale) del vescovo, la formazione dei sacerdoti, la visita pastorale a sostegno della vita delle comunità hanno creato la grande svolta, soprattutto nel Nord Italia, seguendo il “tipo ideale di vescovo”, san Carlo Borromeo, morto nel 1584 e canonizzato a tempo di record nel 1610. Da quell’assetto religioso e sociale ne è venuto l’impianto territoriale che è arrivato pressoché simile fino alla metà del secolo XX.
Rileggendo questa storia, è necessario difendersi dalla facilità di stabilire un parallelo troppo ingenuo fra il trapasso dell’epoca dopo Trento e la transizione altrettanto vertiginosa che sta avvenendo dopo gli sconvolgimenti del Novecento e il Concilio Vaticano II. Anche ora la Chiesa deve ripensare il suo rapporto con il territorio, ma potrà farlo solo se avrà una lettura antropologica del mondo in cui opera. Una riforma della Chiesa sul territorio comporta di ripensare in profondità il rapporto con le proprie radici, con la memoria di sempre.
Carlo Bascapé, al sorgere della modernità, ci presenta uno spaccato mirabile del passaggio al Seicento, definito il “Secolo d’oro”. Ancora all’inizio del Terzo millennio, a quattrocentosettant’anni dalla nascita del venerabile vescovo di Novara, ci fa ben sperare che «Historia Caroli semper Novaria vivet». Anche la città di Melegnano può essere fiera di aver dato i natali a tanto vescovo.
+ Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara
[1] G. Andenna, «Historia Caroli semper Novaria vivet». La Novaria di Carlo Bascapè quattrocento anni dopo, in «Novarien», 41 (2012), 15-36: le citazioni sono riportate nel testo col rispettivo numero di pagina.
[2] C. Bascapè, Novaria. Terre e vescovi della Diocesi, a cura di Carlo Andenna e Dorino Tuniz, presentazione di Franco Giulio Brambilla, Novara, Interlinea 2015, 296 p.