Curare e avere cura del malato. La sofferenza, una sfida per lo spirito

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A pochi giorni dalla Giornata Mondiale del Malato che ricorre il prossimo 11 febbraio pubblichiamo una riflessione del vescovo Franco Giulio proposta agli operatori del Centro di Riabilitazione Villa Beretta di  Costa Masnaga. (Qui tutte le proposte della diocesi e dell’ufficio nazionale per la pastorale della salute della Cei per la Giornata del Malato 2021).


Curare e avere cura del malato. La sofferenza, una sfida per lo spirito
Incontro con gli operatori sanitari di Villa Beretta
11-01-2021
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«Attraverso l’esperienza della malattia dobbiamo incontrare il malato. È decisiva l’immagine che noi gli restituiamo, per esempio, con la nostra cura e la nostra prossimità. È necessaria tutta la tecnica, tutta la competenza, ma ancor più è decisiva la nostra relazione e prossimità. Noi riteniamo queste due cose alternative, invece più si differenzia il nostro approccio alla sofferenza, più la dimensione della prossimità diventa importante, soprattutto in situazioni che si definiscono croniche», ha detto il vescovo.

Di seguito il testo integrale.

 

Curare e avere cura del malato. La sofferenza, una sfida per lo spirito
Incontro con gli operatori sanitari di Villa Beretta

 

Un po’ di tempo fa preparando una relazione sulla bioetica, sono andato a riprendere la definizione di “salute” dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. È del 1947, e quindi non era ancora passata attraverso le differenziazioni avvenute in seguito, come ad es. la cronicizzazione della malattia. La definizione dice: «La salute è una condizione di perfetto benessere fisico, mentale e sociale, e non significa soltanto assenza di malattia». Questa definizione ci dice che siamo tutti… malati! È una definizione un po’ mitologica. Probabilmente può essere compresa in un contesto storico dove la differenza, la complessità e anche la messa a fuoco delle diverse situazioni di malattia era molto più semplice e schematica.

Partiamo da una domanda: qual è l’atteggiamento prevalente di chi cerca di porre domande per illuminare il nostro approccio alla malattia, al dolore, alla sofferenza? Padre Carlo Casalone, in un suo recente intervento, afferma che la differenza tra dolore e sofferenza è la differenza che si colloca tra danno e senso. Il dolore segnala un danno alla vita della persona che impone di trovarne il senso. Si potrebbe aggiungere una terza parola: non basta affermare solo la differenza tra danno e senso, ma anche il rapporto che s’instaura tra dolore e sofferenza. Il dolore è un campanello d’allarme per l’uomo. La sofferenza è la nostra percezione del dolore, che non è solo conoscenza di un cambiamento della nostra condizione, ma essa apre lo spazio anche alla nostra risposta e alla nostra reazione.

Ora, nella cultura diffusa dell’ultimo secolo, le reazioni sono state fondamentalmente due. Esse per certi versi hanno camminato parallelamente. Credo che anche i medici qui presenti e molti operatori che hanno di fronte il paziente – detto appunto “paziente” perché in prima battuta non è attivo, ma è passivo – devono fare i conti con due atteggiamenti, che per certi versi sono simultanei: uno ha radici più antiche e uno invece ricorda atteggiamenti più recenti. Il primo atteggiamento è quello della rassegnazione (passiva) e il secondo è quello della reazione (attiva).

Ciascuno di noi quando si pone di fronte alla malattia, alla paura e all’attesa di un esame clinico, a come dovrà reagire, si trova a coltivare dentro di sé questi due atteggiamenti: il primo più tradizionale è la rassegnazione passiva; l’altro, forse più moderno e figlio del primo, e la reazione attiva, che può camminare in modo parallelo al primo. Il secondo atteggiamento, quello della reazione attiva, è stato nel Novecento anche il motore della ricerca medica. Noi mettiamo sovente in campo questi due atteggiamenti, la rassegnazione passiva e la reazione attiva. È interessante che anche le parole cristiane della predicazione sono andate a coprire il primo con la parola “croce” e il secondo con la parola “risurrezione”, formulando due tipi differenti di risposte. La parola della croce è stata spesso sovrapposta, forse in modo precipitoso, alla rassegnazione, tanto che “rassegnarsi” voleva dire portare la croce. Dall’altra parte, reagire attivamente voleva dire che il cristianesimo favoriva la ricerca, promuoveva un atteggiamento proattivo, per cui la lotta alla malattia diventava persino un compito etico, una forma alta di carità.

Che cosa manca in ambedue le posizioni, evidentemente speculari? Qual è il bersaglio che questa duplice reazione fallisce di fronte al dolore? All’origine c’è un errore filosofico-antropologico comune (teorico e pratico insieme). La sofferenza è vista come una “cosa” del malato, la malattia è una cosa che il malato ha, è una realtà che non tocca la persona. La lingua francese ha un bella espressione (que nous affecte), che in italiano si traduce “che ci tocca”, ma a ben vedere è un “toccare” che ci spreme dentro, che diventa una prova per lo spirito. La malattia è trattata come una cosa, viene oggettivata, clinicizzata. Di fronte ad essa bisogna disporsi o nel gesto della “reazione” o in quello della “rassegnazione”, ma la sofferenza non diventa un interrogativo per la coscienza. Quindi non pone il problema del senso.

Padre Casalone sottolinea nell’intervento ricordato sopra anche un’altra bella realtà che fa parte dell’esperienza di tutti noi. Quando una persona deve fare un esame clinico, quando entra nei giorni della malattia, il tempo cambia di qualità…. Dobbiamo metterci in fila, c’è sempre qualcuno che arriva prima, e così il tempo assume un’altra dimensione. In questo modo si riduce lo spazio della nostra libertà. In realtà si riduce l’esperienza della libertà attiva, ma facciamo esperienza di un altro tipo di libertà, per cui una persona può incontrare un altro, può parlare, può pensare a se stesso, insomma scopre un altro modo di vivere la libertà. Certamente la malattia ci ricorda che l’uomo non è soltanto un “homo faber”, un uomo produttore, un uomo che trasforma, che capitalizza e che consuma.

Allora una via d’uscita della questione posta potrebbe essere questa: al di là della parola della rassegnazione e della croce o della parola del progresso e dell’ottimizzazione, sarebbe necessario vivere la sofferenza oltre l’alternativa tra soccombere e combattere. Questa alternativa non si può superare se non con l’intervento dello spirito. Dello spirito dell’uomo e dello Spirito di Dio!

La malattia spesso è censurata come una seccatura, un intralcio, un evento fastidioso, una cosa opaca di fronte alla quale non si pone il problema del significato, ma soprattutto cambia il nostro modo di agire. Bisogna pensare a un agire di altro tipo: quello che ci fa entrare dentro una dinamica nuova, un’azione che ci pone in relazione nuova con gli altri. Qui emergono i diversi compiti: quello del paziente, del medico, dell’operatore sanitario, del parente, dell’amico. L’agire assume una duplice valenza: la malattia non comporta soltanto un reagire o un soccombere, ma, usando un’espressione del grande filosofo e teologo Bonhoeffer, apre uno spazio di “resistenza e resa”.

Di “resistenza” attraverso tutte le dinamiche che si creano, anche belle, di cura, di attenzione e prossimità; e di “resa” solo a quella vita che bussa alla porta della coscienza, attraverso l’esperienza della sofferenza, e che chiede di avere accanto una persona che ci rassicuri e che speri stando vicino a noi e accompagnandoci con la sua presenza.

E, allora, quali sono i compiti che ne vengono? Essi sono compiti umani e cristiani. Attraverso l’esperienza della malattia dobbiamo incontrare il malato. È decisiva l’immagine che noi gli restituiamo, per esempio, con la nostra cura e la nostra prossimità. È necessaria tutta la tecnica, tutta la competenza, ma ancor più è decisiva la nostra relazione e prossimità. Noi riteniamo queste due cose alternative, invece più si differenzia il nostro approccio alla sofferenza, più la dimensione della prossimità diventa importante, soprattutto in situazioni che si definiscono croniche.

In termini più chiari bisognerebbe introdurre una relazione etica e spirituale: l’attesa dell’altro, anche quella del parente, restituisce un’immagine affidabile (o meno) al paziente. Quando andiamo all’ospedale, non sappiamo cosa dire all’amico, soprattutto se è giovane, e dirottiamo il discorso sulla domanda: “cosa ha detto il medico!”. Nessuno gli chiede: “Cosa stai imparando?”. Sarebbe una domanda troppo diretta e al senso comune appare sconveniente. Attraverso la malattia, possono cambiare anche le relazioni familiari. Le esperienze che si vivono attorno al letto di un malato possono aprire uno spiraglio alla speranza, possono far condividere un senso che va oltre la rassegnazione passiva e la reazione attiva. È un atteggiamento col quale la sofferenza diventa luogo del senso e della buona relazione ritrovata e rinnovata. Esso fa apprendere una cosa che stiamo dimenticando tutti: l’esperienza che siamo “limitati” e “finiti”.

L’esperienza del limite è l’esperienza attraverso la quale la gestione della sofferenza diventa sapiente, il che significa che non si vuole né sottovalutarla (mi rassegno), né sopravvalutarla (ti sconfiggerò). Da questo atteggiamento ne beneficerebbero tutti coloro che vivono l’esperienza della malattia: è il vero approccio spirituale, per cui non si può guarire – sembra un paradosso – senza l’intervento dello spirito. Dobbiamo sentire la malattia come una sfida per lo spirito e dello Spirito santo!

Concludo richiamando un’opera d’arte che si trova a Colmar  in Alsazia (Francia), la pala di Isenheim, dipinta da Matthias Grünewald: non è soltanto una bellissima immagine da guardare, ma è una macchina terapeutica, con le ante che si aprono alla vista del malato. Con questa macchina si permetteva al malato di imparare a convivere con la realtà, con la dimensione della sofferenza, illustrata dai misteri del Natale e della Pasqua. Ed è attraverso quest’azione, che possiamo uscirne migliorati, noi e gli altri, la nostra famiglia e la società. Grazie.

 

+Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara