Deum et animam scire cupio

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Mercoledì 27 aprile, nella basilica di San Pietro in Ciel d’Oro di Pavia, mons. Franco Giulio Brambilla ha tenuto una lezione sul tema della conversione di Sant’Agostino, presentando il nuovo libro di padre Armando Genovese – membro della congregazione dei Missionari del Sacro Cuore, patrologo e docente alla Pontificia università Urbaniana – dal titolo “Moriar ne moriar. Un itinerario di discernimento con Agostino” (Urbaniana University Press, Roma 2022, pp. 218).

Pubblichiamo di seguito il testo integrale del suo intervento.

Deum et animam scire cupio

A. Genovese, Moriar ne moriar. Un itinerario di discernimento con Agostino,
Urbaniana University Press, Roma 2022, pp. 218.

 

2.7  Soliloquiorum Libri duo 2.7  I Soliloqui
A. – Ecce oravi Deum (Lv 19, 18).
R. – Quid ergo scire vis?
A. – Haec ipsa omnia quae oravi.
R. – Breviter ea collige.
A. – Deum et animam scire cupio.
R. – Nihilne plus?
A. – Nihil omnino.
A. – Ecco ho pregato Dio.
R. – Che cosa dunque vuoi sapere?
A. – Tutte queste cose che ho chiesto nella preghiera.
R. – Riassumile in poche parole.
A. – Desidero avere scienza di Dio e dell’anima.
R. – E nulla di più?
A. – Proprio nulla.

All’inizio dei Soliloquia, che sant’Agostino scrive nella quiete di Cassiciacum durante l’inverno che va dal 386 alla Pasqua del 387, quando riceverà il Battesimo a Milano, ricorre il dialogo che vi ho appena letto e che descrive bene il momento spirituale a cui era arrivato il giovane retore, approdato nella capitale occidentale dell’impero in cerca di fortuna. Tuttavia, le illusioni giovanili di una carriera fulminante di professore di retorica s’erano fatte sbiadite ed era emerso prepotente il desiderio di ricerca della verità, dopo la sofferta e per certi versi drammatica parentesi del periodo manicheo. Ormai egli stava arrivando alla fede cristiana, forse gli mancava ancora di trovare la maternità della Chiesa con i suoi sacramenti. S’era concesso una pausa a Cassiciacum, vivendo alcuni mesi con un circolo di amici cercatori della verità. Ambrogio, a cui Agostino si era rivolto, l’aveva affidato a Simpliciano, punto di riferimento del circolo dei neoplatonici di Milano, prete saggio a cui Agostino dedicherà poi con gratitudine un’opera scritta nel 397.


Deum et animam scire cupio
Presentazione del libro di A. Genovese “Moriaria ne moriar”
27-04-2022
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Che cosa vuoi sapere? Gli domanda la ratio. Deum et animam scire cupio. E nulla di più? Null’altro! Sono cinque parole fulminanti che mi hanno sempre guidato per comprendere il cuore vivo e pulsante della figura e del pensiero del Santo d’Ippona. Si possono leggere nel loro duplice verso “Dio e l’anima sapere desidero”, oppure: “Bramo conoscere Dio e l’anima”. “Assolutamente nient’altro!” Si tratta di due verbi (bramare e conoscere) e di due sostantivi (Dio e l’anima) strettamente congiunti da quella et che sarà come il ritornello della circolarità della conoscenza e dell’amore tra Dio e l’io. Non si tratta solo di un cammino di conoscenza, ma dell’eros del desiderio che fa conoscere Dio come il sommo Bene dell’anima e l’anima come capace di attingere al mistero santo di Dio. Cupio (desidero ardentemente) e scire (sapere, nel duplice senso di conoscere e gustare) Dio nell’anima e l’anima in Dio. Cupio è al presente e indica una passione insopprimibile, scire è all’infinito e rivela una postura interminabile: sono due azioni che si compenetrano per scoprire la forza inesauribile del sapere Dio che rischiara la vita dell’anima, e la gioia incontenibile dell’interiorità dell’anima quando accede a Dio. Molto si potrebbe dire su queste cinque parole, ma il loro commentario più bello è il libro di non grande mole, ma ricco di prospettive e significati, che vi presento.

L’opera di p. Armando Genovese, docente di Patrologia all’Università Urbaniana, già affermato conoscitore di sant’Agostino, è nata da una circostanza che ne spiega il genere letterario. Si tratta di un vademecum scritto per l’amico appena diventato vescovo, per accompagnarlo nel momento in cui assume la sarcina episcopalis (Serm. 339), rispondendo alla sua richiesta di criteri per il discernimento del tempo presente. P. Genovese riprende la tradizione di molti Padri che hanno scritto le cose migliori per onorare l’amicizia, e lo fa pensando che l’itinerario personale di Agostino «può essere un’ottima guida di discernimento per la vocazione episcopale, e al contempo di un cammino di conversione, crescita e maturazione, esemplare per tutti» (p. 9). Piccolo manuale di discernimento pastorale e guida per il cammino di conversione spirituale per ogni credente: questo è il taglio con cui va letto questo bel testo, non consumandolo con voracità curiosa, ma sorseggiandolo come un buon vino d’annata. Il testo, pur molto informato sui nodi della grande teologia di Agostino e delle controversie che egli sostenne, non è interessato a rendere ragione del pensiero dell’Ipponate, ma come eventualmente quella teologia e quelle discussioni siano state alimento per la storia spirituale di colui che è divenuto l’anima dell’Occidente cristiano. Per questo l’opera che fa da guida per ricostruire l’itinerario spirituale e intellettuale di Agostino sono le Confessioni, che sono lo spartito su cui P. Armando scrive la partitura della sua operetta.

Infatti, l’A. stesso nella preziosa conclusione (pp. 205-218) ci illustra i sette momenti di tale itinerario spirituale e pastorale, che unisce pastori e credenti nel cammino di discernimento e di conversione. Li prendo come punti di riferimento, integrando gli apporti di grande ricchezza che ricorrono nello svolgimento del volumetto.

Cupio: la profondità del desiderio. La strada non scontata, che Agostino dovette compiere per arrivare alla fede cristiana, l’ha reso cosciente del carattere insopprimibile del desiderio, vero e proprio motore e bussola della sua ricerca inesausta di Dio. Il desiderio ha platonicamente la forma dell’eros della conoscenza che è però conoscenza salvifica, cioè ricerca della felicità: l’uomo desidera semplicemente la felicità. Verità e Sommo Bene si identificano, così come ricerca della verità e desiderio della felicità sono circolari. Solo che il desiderio «ha una geometria variabile», dice con felice espressione p. Genovese, e si espone a una lotta corpo a corpo con la verità-felicità, perché è mosso da un duplice amore (eros appunto!): l’amor sui e l’amor Dei. Qui l’esperienza personale di Agostino colorerà con il tratto del suo contrastato cammino l’esperienza e la comprensione del desiderio come “inquietudine”. È un desiderio sempre pronto a sbilanciarsi e a deviare dalla strada della ricerca del Bene Sommo, per cercare surrogati nei beni finiti, che sono elevati ad essere beni ultimi, ma non possono sopportare il peso di colmare l’abisso insopprimibile del desiderio. L’inquietudine diventa così bussola a non rassegnarsi mai ai beni transeunti, perché la brama di felicità si rivela una sorta di abisso incolmabile, che può diventare un orrido in cui si precipita. Nel contempo il desiderio stesso manifesta una sporgenza verso l’oltre che invoca sempre un’autentica ricerca della vera felicità. Di qui il carattere ambivalente del desiderio: per un lato, esso è sempre bramoso di provare esperienze immediate di godimento nelle creature (il desiderio concupiscente); per l’altro lato, la delusione che sovente ne deriva, fa nascere sempre da capo un’esigenza di autenticità (il desiderio benevolente) che trova riposo (quies) solo in Dio. Se sostiamo anche solo un momento, notiamo il tratto forse più riconoscibile per il quale l’esperienza e il pensiero di sant’Agostino hanno ispirato tantissimi cercatori della verità e della felicità dell’Occidente. Il fascino di Agostino sta tutto qui, di là dalle molte e talvolta tormentate risposte che egli ha dato, perché da allora e per sempre la cultura occidentale dovrà misurarsi sulla singolarità del soggetto desiderante e cercatore della verità.

Scire: il cammino dell’interiorità. P. Genovese ci guida con la mano sicura dell’e­sperto a riconoscere tutti i binomi presenti in Agostino: esterno ed interno (foris et intus), inferiore e superiore (inferior et superior), mondo e Dio (creature e Sommo Bene). Ed è qui che l’esperienza e il pensiero di Agostino prendono la loro curvatura inconfondibile: l’esteriorità del mondo delle creature (cose e carne) assume la sua figura ambivalente rispetto all’affidabilità dell’interiorità, dello spazio interiore dell’anima, che ha nella facoltà della memoria il suo organo infallibile per sentire la presenza di Dio. Memorabile è il Libro X delle Confes­sioni, che p. Armando ci fa ascoltare: «Nell’enorme palazzo della mia memoria… là incontro anche me stesso e mi ricordo degli atti che ho compiuto, nel tempo e nel luogo in cui li ho compiuti, nei sentimenti che ebbi compiendoli» (Conf 10,8,14). L’esterio­rità del mondo guidata dal senso della carne allontana l’uomo nella regione della dissimilitudine, l’interiorità della facoltà conoscitiva della mente lo porta nello spazio intimo della somiglianza dell’anima con Dio, come risuona nell’espressione più famosa dell’Ippo­nate: «Tu eri più dentro di me della mia parte più interna e più alto della mia parte più alta» (Conf 3,6,11: interior intimo meo et superior summo meo). Questa sintesi tra metafisica neoplatonica e spiritualità cristiana è il marcatore del pensiero di Agostino, e p. Genovese ce ne fa apprezzare tutta la forza, perché «la verità dell’esistenza si trova nel cuore di ogni persona» (p. 207), custodisce la singolarità di ciascun soggetto, non è riducibile a una visione sentimentale del cuore, ma è un vero e proprio programma di cammino spirituale e di ricerca intellettuale, perché il “cuore” – qui l’istanza biblica è pienamente onorata – è il luogo segreto dove abita la verità. Sentiamo la bellezza di questa citazione che segna di sé tutta l’anima dell’Occidente: «Gli uomini vanno ad ammirare le vette dei monti, le onde del mare, le correnti amplissime dei fiumi, la circonferenza dell’Oceano, le orbite degli astri, mentre trascurano se stessi» (Conf. 10,8,15). Questo “ritornare al cuore!” è il timbro singolare della via Augustini, che affascinerà tanti grandi pensatori, ma rivela anche il suo limite nell’esteriorizzazione del mondo. In ogni caso sarà disegnato come cammino dell’anima e della conoscenza: una vera e propria strada per arrivare a Dio, che va dall’e­sterno all’interno, dall’inferiore al superiore, e in certa misura anche dal mondo a Dio. Agostino – afferma p. Genovese – paragona «l’anima alla scala di Giacobbe, e scopr[e] nel suo intimo la misteriosa presenza di Dio, una trascendenza nell’immanenza» (p. 208).

Deum: la priorità della grazia. Notiamo che nella formula agostiniana dei Soliloquia il termine e la realtà di Dio sta all’inizio. Se nell’ordo desiderandi et cognoscendi Dio sembra venire alla fine, nell’ordo revelandi et percipiendi Egli è il polo d’attrazione del movimento dell’anima che desidera e dello spirito che ritrova se stesso, anzi è la presenza che si annuncia nel processo di interiorizzazione della persona: noverim me, noverim te (Conf. 4,1,1). Deum et animam dice la circolarità e la reciprocità dell’attestazione di Dio nel sacrario della coscienza. L’et non accosta solo due realtà, ma dice che le due grandezze sono direttamente proporzionali: più cresce lo spazio e la presenza di Dio nell’uomo, più la sua anima s’interiorizza e il suo desiderio si affranca da una schiavitù concupiscente per diventare un desiderio liberato dalla charis e libero per la charitas. A questo punto emerge prepotente il primato, anzi la priorità della grazia: perché l’anima non potrebbe raggiungere la profondità beata di sé che riposando in Dio, ma la presenza del Dio di misericordia dischiude uno spazio più profondo nell’anima da colmare con la sua somma Bontà.

Uso volutamente un linguaggio qualificato dallo schema metafisico neoplatonico, perché di questo beneficerà un filone che ha affascinato la cultura occidentale, nel mettere in luce la potenza della reciprocità di Dio e anima, di grazia e libertà. Ma ne importerà insieme anche il limite strutturale: quello di considerare esteriore il mondo e la storia. E sappiamo con quanta fatica Agostino ha cercato di correggere la rigidità dello schema, trasformandolo lentamente da struttura metafisica in grammatica adatta a recepire e interpretare le tre grandi mediazioni storico-mondane della priorità della grazia: la Sacra Scrittura, l’Incarnazione del Verbo e la mediazione della Chiesa come Christus totus. Ma prima di arrivare a questo non possiamo non raccogliere tutto il fascino della percezione agostiniana del primato della grazia, come ce lo illustra P. Genovese. Basterebbero due citazioni che egli trascrive per farcene assaporare tutta la forza e l’energia: «Ammonito da questi scritti a tornare in me stesso, entrai nell’intimo del mio cruore sotto la tua guida: e lo potei perché divenisti il mio soccorritore» (Conf. 7,10,16); e ancora: «Per mezzo di Cristo ci cercasti mentre non ti cercavamo, e ci cercasti affinché ti cercassimo» (Conf. 11,2,4): si senta la bellezza della lingua del retore, ma si noti ormai che si annunciano le grandi mediazioni della Scrittura e di Cristo.

Ancora, mi sembra opportuno ricordare che il guadagno della priorità della grazia è per p. Genovese la ragione radicale della controversia antipelagiana, che Agostino ha condotto come una battaglia senza quartiere, subendone in qualche modo anche l’impostazione un po’ pregiudicata. Giustamente p. Armando afferma che non è il confronto con Pelagio che fa guadagnare il tema della priorità della grazia, ma è l’esperienza e la conoscenza di tale primato che rende radicalmente insufficiente la teologia di Pelagio e di Giuliano d’Eclano, una concezione tutto sommato esteriore dei doni della grazia rispetto alle risorse della libertà. P. Genovese vi dedica un lungo capitolo, molto accurato (pp. 133-154), per mostrare che i pelagiani avevano un modo estrinseco d’intendere la grazia come aiuto dato alla libertà che per l’essenziale sarebbe in grado di vivere una vita morale buona. Di fronte alla domanda tipica della cultura romana imperniata sulla virtus, personale e sociale, Pelagio dava una risposta “facile”, perché affermava che l’uomo “può”, se vuole, “fare il bene”, pur con l’aiuto esemplare delle mediazioni storiche della grazia (legge, profeti, Cristo, sacramenti). Agostino, invece, dava una risposta più esigente nella nuova situazione culturale del mondo romano incentrato sulla prassi: senza la grazia, l’uomo “non può” fare il bene, ma con la grazia, se vuole, “può fare il bene”. Perché se la grazia è esterna alla libertà, può rimanerle estrinseca, mentre se la grazia è interna alla libertà (la precede, accompagna e segue) diventa delectatio victrix, che guarisce ed orienta al bene. L’espressione è stata talvolta abusata, intesa quasi come grazia che sbaraglia la libertà, ma i testi che ne parlano vanno meglio letti dentro il gioco linguistico della controversia.

Et: le mediazioni della charitas. Il legame intimo tra Dio e l’anima, espresso dalla congiunzione “e” viene svolto, dopo la conversione di Agostino, attraverso un serrato approfondimento delle tre grandi mediazioni storiche della grazia, per così dire i tre corpi della grazia: il corpo della Scrittura, il corpo del Cristo, il corpo della Chiesa. Possiamo farci ancora una volta aiutare da p. Genovese sul senso di queste mediazioni quando, nella ricostruzione che fa dei momenti del cammino di conversione dell’uomo e di conoscenza di Dio, egli parla di segni esterni col tema dell’admonitio e ricorda la necessità del discernimento col tema del maestro interiore. La sintesi finale di p. Armando, infatti, tiene la barra dritta sul motivo per cui ha scritto questa operetta. È facile però collegare questi temi e questa istanza alle tre mediazioni che ho evocato e a cui l’A. dedica la parte più ampia della sua ricostruzione dell’i­tinerario spirituale e pastorale di Agostino.

Provo a ricostruirne l’ordito. Dopo la conversione nel 386-387, Agostino si confronta con il triplice “corpo” della Scrittura, di Cristo e della Chiesa. Inizia la storia del suo diventare prima cristiano (387), poi sacerdote (391) e, infine, vescovo di Ippona (396). La cattedra episcopale è il luogo principe nel quale il Santo si misura con il corpo della Scrittura: si pensi a quante volte commenta il testo della Genesi e la Lettera i Romani, ma forse la storia dirà che il momento più emozionante per la bellezza del suo pensiero è, oltre ai Discorsi durante l’anno liturgico e occasionali, il suo commento ai Salmi. P. Armando vi dedica il secondo capitolo, decisivo nel percorso spirituale del Vescovo d’Ippona (pp. 25-38): un cammino che va dall’iniziale “prendi e leggi” ai testi della Confessioni nei quali esclama: “Ho preso fuoco al loro tocco!”. Vi assicuro: il fatto di commentare per iscritto i testi della Bibbia sottopone la mente e il cuore a una conversione anche del più refrattario dei pensieri, persino di quello apparentemente più funzionale al pensiero biblico come sembrava essere quello neoplatonico.

Più ancora Sant’Agostino si conforma al “corpo” di Cristo mediatore e medico (pp. 39-52), divino commerciante (pp. 53-65), umile (pp. 67-79): il cristocentrismo di Agostino, pur avendo come centro il Redentore, non tralascia di strutturarsi attorno all’incarnazione del Verbo, il punto più alto della correzione dello schema platonico, nei memorabili commenti al Vangelo e alla Prima lettera di Giovanni, con la focalizzazione sulla charitas trinitaria. I capitoli che p. Genovese dedica al cristocentrismo del percorso spirituale di Agostino sono i più intensi e fruttuosi per il cammino del pastore e del cristiano. Infine, con la riflessione sul Christus totus Agostino ricupera la necessità della storia, perché la vita cristiana si immerge in una comunità credente, nei suoi santi misteri e nella sua fraternità. Un’attenzione questa, presente trasversalmente nell’itinerario di p. Armando.

Animam: le conversioni del cristiano. Seguendo la formula lapidaria dei Soliloquia al termine ritroviamo l’anima, restituita alla sua più profonda interiorità, che la rende capace però del desiderio benevolente, della dilectio cristiana. Se eravamo partiti dal desiderio e dalla ricerca della verità e della felicità, ora Agostino sembra pacificato perché può disegnare l’intero arco dell’umanità redenta. Il nostro p. Armando ne disegna le tappe: il peccato del mondo, tema controverso e cruciale in Agostino (pp. 81-94): il senso del tempo, con le tre coordinate di memoria, visione e attesa, impreziosite dagli svolgimenti geniali dell’Ipponate (pp. 109-122); i momenti della figura spirituale del cristiano (pp. 123-132). Il cammino spirituale e pastorale prende poi concretezza in tre percorsi pratici: la trasmissione della fede, un capitoletto delizioso (pp. 155-173); la vita cristiana comunitaria dei monaci (pp. 175-189); per svettare sulla speranza, compimento della felicità (pp. 191-204). Nell’economia del genere letterario praticato da p. Armando, e cioè quello di un itinerario di discernimento pastorale e di vademecum spirituale per la vita cristiana, il momento comunitario e apostolico sono due direzioni essenziali della forma pratica dell’esperienza religiosa, per la quale Agostino ebbe a scrivere una memorabile Regula ad servos Dei, che fece da modello per innumerevoli generazioni di futuri credenti.

Deum et animam scire cupio. Il “nulla di più” con cui il giovane neofita rispondeva arditamente alla domanda della coscienza (ratio) nei Soliloquia si è sottoposto al lungo apprendistato della vita cristiana e della ricerca intellettuale, per arrivare alla fine della sua vita a poterlo dire forse ancora con le stesse parole, arricchite da oltre 35 anni di immersione nel mistero della charitas che viene incontro all’uomo nella Scrittura, nella carne del Verbo e nel corpo sacramentale della Chiesa. Al termine che cosa, Agostino, ha vissuto e compreso di più? Forse la bellezza dell’incontro/confronto con il mistero dell’Agàpe trinitaria. Per questo consiglio di terminare la lettura con il capitolo sull’amore della bellezza (pp. 96-107), che l’A. colloca quasi al centro del suo itinerario spirituale e pastorale. Non è forse questo il segreto della vicenda di sant’Agostino? Per questo siamo grati a p. Genovese per la sua innamorata fatica. La si avverte con forza alla fine della lettura!

+ Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara