Don Simonpietro e don Liborio: «Preti per un tempo nuovo»

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Siate «preti per un tempo nuovo». E’ l’auspicio e l’augurio che il vescovo Franco Giulio ha fatto a don Simonpietro De Grandis e don Liborio Lanza, i due diaconi ordinati sabato 13 giugno in cattedrale, durante la sua omelia. Un tempo segnato da una pandemia che ha messo in luce la forza e le potenzialità della comunità cristiana, ma che ha anche reso più urgente vivere il ministero presbiterale nel segno “della cura”. Cura delle fragilità delle persone, delle ferite profonde che ognuno porta su di sé, e della comunione, che fonda e anima la Chiesa e l’Ordine sacro.


Preti per un tempo nuovo
Omelia per l’Ordinazione presbiterale
13-06-2020
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Un augurio che il vescovo ha svolto con «tre provocazioni che sono significate dai tre santi segni» che attraversano la liturgia di ordinazione diaconale e presbiterale: la Parola, l’Olio crismale e l’Eucaristia.

Ecco il testo integrale:

 

Preti per un tempo nuovo

Omelia per l’Ordinazione presbiterale

 

Carissimo Liborio e carissimo Simonpietro,

i vostri nomi hanno come patrono il Principe degli Apostoli e un vescovo. Simonpietro deriva da un nome composto, che indica l’uno l’origine e l’altro la vocazione del primo degli Apostoli. Liborio fu vescovo di Le Mans e morì l’anno prima di Sant’Ambrogio nel 396 ed è il patrono di Paderborn in Germania. È forse per questo che voi siete stati chiamati non nei verdi anni, ma un po’ più avanti nel tempo e comunque da strade molto diverse. Siete venuti ad arricchire la presenza ministeriale nella Chiesa di Novara. Simonpietro fin dal 2000 è stato mio alunno alla Facoltà teologica di Milano e Liborio ha fatto diverse esperienze ecclesiali nell’Italia settentrionale.

Cercando un filo conduttore per illustrare il percorso che si apre davanti a voi come preti della chiesa di Novara, mi è parso bello e giusto trovarlo nella circostanza da cui stiamo faticosamente uscendo. Potremmo intitolare questo filo conduttore così: siete ordinati “preti per un tempo nuovo” Esso dovrà essere soprattutto il tempo della cura! Attorno al tema della cura possiamo raccogliere tre provocazioni che sono significate dai tre santi segni che attraversano la liturgia di ordinazione (il primo lo riprendo dal diaconato e gli altri due dalla liturgia del presbiterato).

  1. Cura che prende parte alle debolezze della gente

La prima espressione felice e molto bella proviene dalla seconda lettura tratta dalla Lettera agli Ebrei:

“Infatti noi non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze” (Eb 4,15a).

Partiamo da questa prima dimensione della cura: dobbiamo prendere parte alle debolezze della gente, del popolo di Dio che ci è affidato, delle persone che incontreremo, anche verso i confratelli con cui saremo chiamati a lavorare insieme. La debolezza, la fragilità, o come si usa dire in questi giorni, la vulnerabilità, esprime non solo il fatto che l’uomo è creatura limitata. Forse nel progresso inarrestabile della scienza avevamo dimenticato questo aspetto, e invece in questi mesi drammatici abbiamo sperimentato anche il confine. Tuttavia, il confine non è solo quello della persona, ma è il confine dei legami, della società, del progresso e del mondo. Il limite non è solo qualcosa che ci contiene, ma anche qualcosa che possiamo attraversare, ma mai totalmente lasciarci alle spalle. Se non osserviamo il limite – la famosa esperienza del limite – come qualcosa che costituisce la nostra dignità, e non solo la nostra povertà, noi non sapremo prendere parte alle debolezze delle persone che ci sono affidate.

Prendere parte, mettersi dalla loro parte, prendere sulle spalle, camminare un passo avanti, che non perde di vista con la coda dell’occhio chi ci è affidato, per non lasciarlo troppo indietro: questo è il tratto della cura. E questo è anche il primo grande segno che vi è già stato consegnato fin dal diaconato, attraverso il Libro della Parola. È un segno che permane anche nel vostro presbiterato. Il modo di prendere parte oggi alla sofferenza, alla debolezza, al limite, alla contingenza della vita umana e delle persone che la esprimono, è esattamente quello di dire e donare una Parola che sia capace di interpretare il momento in cui la gente vive. Pensiamo in questi tre mesi alle parole che abbiamo dette o non dette e che potevano aiutare a interpretare le nostre paure, le nostre ansie, le nostre difficoltà!

È stata data una bella testimonianza anche da parte di molti sacerdoti che sono qui: la gente ha potuto riconoscere il ministero del prete, non solo perché diceva messa, ma perché a partire dalla messa che purtroppo doveva dire da solo, ha potuto dire e donare parole che aiutassero ad aprire finestre e spiragli di speranza. Dovremo essere preti della cura per un tempo nuovo, capaci di dire parole che interpretano e aprono il vissuto. Si dovrebbe dire che fanno l’ermeneutica del desiderio: – ermeneutica vuol dire essere capaci di unire la terra al cielo, unire la vita allo sguardo e alla luce che viene dall’alto. Questo è il primo grande segno!

Noi invece non abbiamo molta fiducia nel fatto che la Parola, non tanto quella gridata, non quella esibita, per cui si esiste in quanto si parla, ma quella suadente, capace di sussurrare all’orecchio, di interpretare la vita e il cuore sia davvero una Parola che fa crescere, che edifica. Come dev’essere, ad esempio, l’omelia? Edificante! Al contrario, noi altaleniamo tra omelie apocalittiche, incombenti e omelie che sono racconti della nostra esperienza, sono chiacchiere sulla pubblica piazza. L’omelia deve edificare, non deve attrarre su di sé, ma deve condurre al Signore. Non deve essere spettacolare, ma capace di curare l’anima. L’omelia cura l’anima. Questo è il primo grande segno: prendere parte alle debolezze della nostra gente.

  1. Cura che lenisce le ferite

La seconda dimensione della cura ci è offerta dalla lettura del profeta Isaia, tratta dalla seconda parte del suo libro, attribuita al cosiddetto terzo Isaia. È una pagina così famosa e importante, perché è il canovaccio della prima predica di Gesù a Nazareth, nella quale Egli cita la prima metà del brano che abbiamo ascoltato, troncandolo su questa espressione:

“a promulgare l’anno di grazia del Signore” (Is 61,2a)

Voi siete mandati per un tempo nuovo, che è un tempo di grazia. E questo anno di grazia, viene poi declinato con una sequenza di verbi che sono come le facce di un prisma, di un poliedro ed indicano esattamente questa seconda dimensione della cura, quella significata dall’olio del crisma con cui saranno consacrate le vostre mani.

“Per consolare tutti gli afflitti,
per dare agli afflitti di Sion

una corona invece della cenere,
olio di letizia invece dell’abito da lutto,

veste di lode invece di uno spirito mesto.
Voi sarete chiamati sacerdoti del Signore,
ministri del nostro Dio sarete detti.
Io darò loro fedelmente il salario,
concluderò con loro un’alleanza eterna…”. (
Is 61,2-3.6.8b-9)

La seconda dimensione della cura è questa: lenire le ferite. Le ferite non sono solamente le paure, ma le paure che restano impresse nella carne, nel corpo, e il cui percorso di guarigione è molto lungo! Si possono cicatrizzare le ferite, ma sotto di esse può suppurare ancora l’infezione. Curare le ferite è un processo lungo, perché la malattia si può fermare anche in fretta, ma la cura, la convalescenza che conduce fuori dalla prova è molto lunga. Per questo c’è dato l’olio di salvezza, il balsamo profumato che ridona all’uomo la possibilità di curare non solo l’anima, ma anche tutte le dimensioni del corpo, delle relazioni, ecc. È un processo disteso nel tempo, non facile e che non avviene come per magia. Non basta una buona confessione e tutto torna come prima! Un tempo la Chiesa aveva una lunga pratica penitenziale per guarire l’anima nel corpo e il corpo come il grande segno dell’anima. Essa imponeva l’olio che non solo profumava, ma leniva l’infiammazione e talvolta la purulenza della ferita.

Dovrete dunque essere preti per un tempo nuovo che curano soprattutto questo aspetto, non solo nei giovani – data la vostra età non rientreranno nel vostro ambito di azione pastorale, anche se un po’ di ministero tra i giovani farebbe bene perché porta a diventare giovani – ma in tutte le persone adulte e in particolare, in questo tempo di pandemia, negli anziani. Nel giorno della messa crismale ho detto a tutti i nostri sacerdoti di visitare quelle case che hanno fatto l’esperienza della morte di un anziano, per portare una parola di consolazione, anche con tempo ampio, poiché abbiamo un anno intero e poi perché non sappiamo come sarà l’uscita – l’exit strategy, come si usa dire adesso – da questo tempo della prova!

Ecco come dev’essere quest’olio – olio di letizia invece dell’abito da lutto – dev’essere una cura che dona gioia, consolazione, forza, che non solo lenisce, ma che fa anche recuperare pian piano le forze!

  1. Cura che crea la comunione

Infine, il Vangelo. È uno dei vangeli della Resurrezione, secondo Giovanni, nel quale Gesù appare e annuncia lo Shalom pasquale: Pace a voi! (Gv 20,19b), poi mostra le mani e il costato e “i discepoli gioirono al vedere il Signore(Gv 20,20b). È interessante notare come i discepoli vedono il Signore nelle piaghe del Crocifisso, il Crocifisso risorto! Non vedono il Signore come il profeta che avevano conosciuto prima, morto tragicamente, e poi ricomparso nello stesso modo di prima. No, Gesù mostra le mani e il costato, è il Crocifisso che è risorto! È una vita spesa così fino alla fine. Anzi è un amore che è stato donato, anche quando viene rifiutato, anzi soprattutto perché è stato rifiutato. E fino al rifiuto più radicale di Gesù che è la presenza stessa di Dio in mezzo a noi. Noi dovremo essere coloro che presentano Gesù come il Crocifisso risorto!

Anche in questo caso ci sono dati due segni, che diventano il luogo della presenza stessa del Figlio di Dio: il pane e il vino. Sono due segni pasquali, segni di misericordia e di vita nuova! Non per nulla la liturgia pasquale, al culmine della grande veglia pasquale, presenta i segni del pane e del vino, come segni di tutto il mistero pasquale di morte e risurrezione!

Il sacerdote è riconosciuto per questo, ma voi dovrete essere riconosciuti perché date il pane e vino consacrati come il Corpo e il Sangue del Signore, e lo date come forma della cura!

«Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». (Gv 20, 22-23)

La terza dimensione della cura è la dimensione della comunione! Oggi abbiamo bisogno di trovare persone che non siano divisive, ma che siano capaci di costruire legami. Il Signore ha dato la sua vita per non perdere questi legami. Proprio nel momento in cui v’era chi lo tradiva, altri che lo abbandonavano, altri che fuggivano, mentre solo le donne erano rimaste da lontano a guardare, Lui donava se stesso!

È la dimensione della cura: custodire il corpo e il sangue del Signore che è il corpo della Chiesa. In questo periodo una cosa che mi ha ferito è stata la retorica che non ha aiutato a comprendere che l’Eucaristia è per la Chiesa, fa la Chiesa, edifica la comunione vivente! Non si è prete da soli. Chi è prete da solo, non è realmente prete! Sarà un guru, uno sciamano, un rappresentante del sacro… ma se ci si recide dalla comunione, non si è prete secondo il cuore di Cristo.

Vi auguro dunque di custodire anche questa terza dimensione della cura che edifica. Ci dovremmo sempre chiedere se i gesti che poniamo in atto costruiscono o lacerano il corpo della chiesa, perché così afferma Paolo al capitolo 11 della prima lettera ai Corinzi. Quando egli rileva che alcuni usano la cena, quella normale, come contraffazione e maschera della cena del Signore, usa parole durissime perché la cena del Signore – il Kyrios – è invece la Cena dove carità, comunione, legame fraterno e Corpo del Signore vanno insieme in perfetta trasparenza l’uno sull’altro.

Ecco queste tre dimensioni della cura vi faranno – è l’augurio del vostro vescovo – preti per un tempo nuovo!

+Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara