Eusebio di Vercelli e la crisi ariana del IV secolo

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Pubblichiamo il testo integrale della relazione di mons. Franco Giulio Brambilla in occasione del 1650° anniversario di Sant’Eusebio (1° agosto).  L’intervento del vescovo (nel video) ha aperto il Convegno nazionale di studi sul santo, tenutosi in seminario a Vercelli sabato 8 ottobre 2022.
Durante il Convegno è stata presentata la nuova Edizione critica degli scritti di e su sant’Eusebio del professor Renato Uglione, Eusebio di Vercelli. Lettere e antiche testimonianze, Loescher, Torino 2022, 360 p.

 

L’opera di Eusebio di Vercelli nel quadro della crisi ariana del IV secolo

 

Eusebio di Vercelli (Sardegna, 283 circa – Vercelli 1° agosto 371) è stato il vescovo della città piemontese e campione dell’ortodossia nicena contro gli ariani. La felice pubblicazione delle Lettere e delle Antiche testimonianze sulla sua figura, curata dall’impareggiabile edizione critica del prof. Renato Uglione, costituirà l’Editio princeps per il secolo XXI. Dal presente Convegno, che celebra il 1650° anniversario della morte di Eusebio, non ci si attende di eguagliare il grande affresco del Convegno internazionale celebrato nel 1995, con il concorso di insigni studiosi, quanto di fare una sosta di metà centenario, mettendo a frutto l’accostamento con le emozionanti testimonianze dirette e indirette del Protovescovo di Ver­celli.


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Alla mia relazione è affidato il compito di delineare il profilo teologico della figura e dell’opera di Eusebio. Se l’opera scritta appare esigua, la sua figura è strategica, almeno in Occidente, nella battaglia contro l’eresia ariana. Basti ricordare che a Milano, la città imperiale del Nord Italia, si dovette attendere l’elezione di Ambrogio (374) per invertire la tendenza della proteiforme corrente teologica che fa capo ad Ario. Si comprende allora l’a­spet­to pionieristico dell’intervento di Eusebio. Quando dico profilo teologico non intendo semplicemente mostrare i motivi di attualità del pensiero eusebiano, perché la ricostruzione di una prospettiva non va subito messa in corto circuito con le nostre preoccupazioni odierne, ma va scavata nella sua profondità, per illustrare il significato dell’atto di tradizione del Simbolo di Nicea (325) e della teologia che lo sostiene. È sintomatico il fatto che al Concilio di Milano del 355, un Eusebio riluttante a parteciparvi e arrivato ad assise già iniziata, chieda anzitutto che sia proclamato il Simbolo dei 318 padri. Gli storici fanno due ipotesi per spiegare come mai il Concilio di Nicea non sia stato riconosciuto agevolmente nell’arco del Mediterraneo: le comunicazioni non erano veloci nonostante le facilitazioni date da Costantino ai vescovi per l’uso del cursus publicus; e vi furono problemi di valutazione in Occidente per il riconoscimento dell’importanza dell’assise, a cui si aggiungeva il sospetto latino verso le sofisticate discussioni orientali (cfr. Mi, 109-110).

Proviamo tuttavia a porre le domande cruciali: quando noi professiamo che la persona di Gesù è “della stessa sostanza del Padre” (homooúsios, consubstantialis) che cosa intendiamo dire? Professiamo solo la sua uguaglianza di sostanza con il Dio dei Padri oppure occorre dire che proprio il termine “consustanziale”, la parola chiave di Nicea, opera un discernimento della cultura greca circa la sua immagine di Dio e il suo rapporto con il mondo? Il mondo greco concepiva Dio come arché (principio) del mondo, in cui non era pensabile una qualche differenza, se non subordinata alla sua monarchia. Ma tale mono-archía di Dio (di cui Ario era rigido interprete) non riusciva a far spazio al kéryg­ma biblico della storia di Dio con il suo popolo e del suo inviato escatologico Gesù, se non in un quadro monocratico che subordinava Cristo alla sua funzione di demiurgo del mondo. Se l’unicità del principio non sopportava alcuna differenza, come rendere il senso della rivelazione biblica tutta incentrata sull’alle­anza di Dio con l’umanità e sul suo Mediatore? Il Cristo era vero Mediatore della nuova ed eterna alleanza, tramite della comunione con gli uomini, non solo nel suo agire, ma nella sua stessa persona, oppure era solo un demiurgo “intermediario” per la produzione del mondo?

L’impronta cosmologica dell’ontologia greca si presentava all’inizio del IV secolo alla sua sfida cruciale, dopo alcuni tentativi precedenti di leggere il mistero di Cristo nel quadro della “teologia del lógos” (ad esempio la Logostheologie di Giustino o di Origene): dire il senso della fede nel Dio di Gesù Cristo, senza perdere l’aspetto comunionale del mistero trinitario e la destinazione antropologica della sua venuta nella storia. Questa era la posta in gioco della crisi ariana e della lotta senza quartiere dei vescovi di fede nicena! Diciamo subito fin dall’inizio il punto di arrivo della crisi ariana. Il suo esito fu caratterizzato da un guadagno e da una perdita: il guadagno portò a consolidare, pur con il linguaggio della cultura greca, il volto comunionale del mistero trinitario, vero spartiacque della fede cristiana (Dio è uno nella differenza delle persone); la perdita, o almeno la povertà, portò a sottovalutare la media­zione del Logos nella creazione, riducendola alla mediazione redentrice per salvare l’uomo. Infatti, la mediazione cosmica del Figlio era divenuta problematica per l’utilizzo subordinazionista fattone da Ario, ma con il suo uso pericoloso, venne gettato via anche il senso di Cristo per la vita del mondo. Da qui in poi la teologia prende una piega singolare: Cristo interviene nella storia non perché è la chiave di volta della creazione, del senso del mondo e dell’uomo, ma soprattutto per riparare il mondo degli uomini dalle sue ferite e dal suo peccato. La sua opera fu intesa per noi uomini e per la nostra salvezza, e questo ben prima di Agostino.

Per raggiungere questo livello di interrogazione critica delle vicende del IV secolo, che videro il nostro Eusebio come uno fra i protagonisti, è utile procedere con un triplice passo: 1) il primo cerca di collocare l’opera e gli scritti di Eusebio nel quadro della grande crisi ariana che attraversa tutto il IV secolo e si scioglie sostanzialmente poco prima della ripresa del Simbolo di Nicea nel Concilio di Costantinopoli (381); 2) il secondo passo fa un ingrandimento della vicenda pastorale e spirituale del vescovo di Vercelli e del suo tribolato esilio, su cui si staglia la Lettera II, il testo più importante dei suoi scritti; 3) il terzo tenta di illustrare il significato teologico dell’homoousía nicena istituendo il rapporto tra discernimento di fede e concettualità teologica. Al centro c’è l’immagine cristiana di Dio e la destinazione antro­pologica della salvezza portata da Cristo, nel passaggio tra la mentalità biblica e il mondo greco. Prendo avvio da tre citazioni della Lettera 14 di Sant’Ambrogio del 396 alla comunità di Vercelli, scritta per spronare quella Chiesa all’elezione del nuovo vescovo. Con questi brani (non poteva essere diversamente da parte di un vescovo ambrosiano) introduco ciascuno dei tre passi della mia relazione.

  1. La crisi ariana del IV secolo: tappe e protagonisti

«…il santo Eusebio uscì dalla sua terra, abbandonò i suoi parenti e alla quiete della sua casa preferì le peregrinazioni. Per fede scelse le asprezze dell’esilio, accomunando il suo destino a quello del santo Dionigi di santa memoria, il quale rinunciò all’amicizia dell’imperatore per preferire il volontario esilio. E così quegli uomini degni di essere ricordati, quando, circondati da armati e scortati dall’esercito, venivano trascinati via dalla chiesa, riportarono un trionfo sul potere imperiale, poiché con le offese terrene acquistavano la fortezza d’animo e la potestà di un re: essi, cui le schiere dei soldati e lo strepito delle armi non riuscirono a strappare la fede, sottomisero la crudeltà di un animo belluino, che non fu in grado di recare nocumento a questi santi» (S. Ambrogio, Lettera 14, Extra coll., n. 68).

La prima citazione del grande vescovo di Milano parla di sant’Eusebio che lascia la sua terra e descrive il suo esilio sulla falsariga di quello subito da Dionigi (morto esule in Cappadocia nel 362). Il confronto di Ambrogio che assimila la testimonianza di Dionigi a quella di Eusebio è singolare: perché Dionigi durante il Concilio di Milano del 355, convocato dall’imperatore Costanzo II su richiesta di papa Liberio, per giudicare la dottrina trinitaria di Atanasio, passò dalla parte del vescovo di Alessandria e dei legati pontifici, quando Eusebio raggiunse Milano e fece domanda di sottoscrivere anzitutto il simbolo di Nicea. Secondo il racconto di Ilario di Poitiers, allorché Dionigi, pur essendo amico personale dell’Imperatore, si decise a firmare il testo della professione di fede nicena, Valente, vescovo di Mursa, contestò tale procedura. La maggior parte dei vescovi presenti si sottomise alla condanna di Atanasio, mentre Dionigi, Eusebio e Lucifero, che si rifiutarono di aderirvi, furono deposti e condannati all’esilio. Si comprende bene, allora, il parallelismo di Ambrogio tra la sorte di Dionigi e quella di Eusebio: Eusebio converte Dionigi alla fede nicena, mentre poi lo stesso Dionigi non vorrà più tornare dall’esilio, quando il successore di Costanzo, Giuliano, ne permetterà il rientro. In questo ritratto singolare, abbozzato nella Lettera 14 di Ambrogio, il destino dei due difensori della fede nicena viene accomunato, quasi a parti inverse, perché sembra che sia Eusebio a seguire Dionigi (nell’esilio), mentre fu Eusebio a convincere Dionigi (della fede nicena), ed entrambi subirono l’allontanamento dalle loro Chiese a motivo dell’intervento dell’imperatore, avversario di Atanasio e dei niceni.

In questo “fermo immagine” risaltano le tre costanti che entrano in gioco nella crisi ariana e nella grande controversia che ne seguì, tra eusebiani, semiariani, omeousiani, ecc.: il primo elemento è la questione trinitaria, il cui testo dirimente è il simbolo di Nicea e la sua reinterpretazione successiva: i padri di retta fede nicena si sostennero a vicenda e non defletterono per nessun motivo, nonostante che qualche loro intervento pratico fosse discutibile e alcune personalità fossero piuttosto spigolose; il secondo elemento è l’implicazione ecclesiologica della fede trinitaria, perché chi prevaleva, spesso con la complicità dell’imperatore regnante, provocava un terremoto nelle comunità cristiane, con invio in esilio e ritorno a casa dei vescovi (Atanasio lo fece per ben cinque volte ad Alessandria), o persino creando la tragica situazione di più vescovi nella stessa sede (tre addirittura ad Antiochia nell’anno 362); il terzo elemento è la rilevanza politica della crisi ariana, che ha visto gli imperatori o opportunisti (come Costantino, 306-337), o interventisti (come Costanzo II, 337-361), o indifferenti (come Giuliano, 361-363) o, infine, neutrali come Valentiniano (364-375), mentre non lo furono Valente (364-378) e Graziano (375-383). La rete intricata di queste tre componenti, ma soprattutto la diversa postura dell’imperatore in carica riguardo alla fede nicena, determinerà le diverse fasi della controversia.

Ciò indica che fede trinitaria, implicazione ecclesiale e risvolto sociopolitico sono profondamente embricati. Se alla superficie sembra che l’interesse politico (oscillante tra la preoccupazione per la pace religiosa nell’impero e la facile sintonia del potere politico con il subordinazionismo ariano) determini le diverse fasi della crisi, non meno importante appare lo scontro tra arianesimo e fede nicena sotto il profilo della spiritualità e della teologia, ma anche le tensioni tra varie sedi (Alessandria e Antiochia) e tra i due mondi (Oriente e Occidente), nonché le gelosie tra forti personalità che rappresentavano i due fronti avversi. Tre sono le grandi fasi della controversia ariana, che fanno da sfondo all’entrata in scena di Eusebio di Vercelli.

1.1 Verso il discernimento del Concilio di Nicea (320-325)

La prima fase della crisi ariana è introdotta dall’opera e dalla predicazione del prete Ario di Alessandria, la cui teologia apparve forse non subito, ma presto pericolosa per l’integrità della fede. Ario sembrava collocarsi nel filone monarchiano della scuola alessandrina, che riprendendo gli apologisti del II secolo presentava Cristo come lógos, sapienza, immagine di Dio, soprattutto come intermediario tra Dio e il mondo, in una prospettiva decisamente cosmologica, senza troppe preoccupazioni di distinguere tra le persone della Trinità. A tale filone, abbastanza diffuso sia in Asia che a Roma, reagì la Logostheologie di Ippolito e Tertulliano, difendendo la sussistenza del Logos accanto al Padre. Essa dispiegava l’articolazione della Trinità in tre persone, fondando l’unità sulla potenza divina (dynamis, Ippolito) o sulla sostanza, intesa come sostrato unitario (Tertulliano): ma la derivazione del Figlio e dello Spirito dalla sostanza del Padre conservava un tratto “monarchiano”. La prospettiva si ritrova in Origene che colloca «il Logos Figlio di Dio come intermediario tra il Padre e il mondo della creazione» (S1, 11), mentre lo Spirito fa da intermediario nella ispirazione delle Scritture e nella santificazione dei fedeli. Egli utilizza la terminologia delle tre “ipostasi” (che diverrà tradizionale in Oriente), ma la avvicina ad “essenza” e “sostrato” che hanno in lui ancora un significato individuante: ne viene una immagine della Trinità, in cui «Padre e Figlio e Spirito santo sono caratterizzati da ipostasi proprie ben distinte tra loro e disposte in ordine digradante di dignità e potenza: è la dottrina delle tre ipostasi» (S1, 12). Decisivo poi in Origene è il processo di derivazione del Figlio dal Padre «come generazione eterna e continua, come perenne fluire di vita divina dal Padre al Figlio» (ivi). Alla linea alessandrina che, contro i monarchiani, poneva l’accento sulla distinzione delle ipostasi, faceva da contraltare a Roma un’impostazione monarchiana di fondo che non accettava la distinzione sul presupposto dell’equivalenza tra hypó-stasis e sub-stantia, per cui scandalizzava sentir parlare di tre sostanze nella Trinità, dopo che Tertulliano aveva imposto l’idea dell’una substantia dei. Del resto nella controversia origenista, il punto di contestazione era il modo della derivazione del Figlio dal Padre, che Origine considerava come ingenerato (innatum). Questa sarà anche la critica rivolta non solo da Ario, ma anche da Eusebio di Cesarea (pure di ispirazione origeniana) al Patriarca Alessandro. In tal senso l’arianesimo nasce all’interno della stessa controversia origenista, circa il modo di intendere la derivazione del Figlio dal Padre, che Ario interpreterà in senso subordina­zionista.

La data di nascita del movimento ariano si colloca intorno al 320: Ario prete di Alessandria, uomo influente e buon conoscitore delle Scritture, già ormai anziano, preoccupava il patriarca Alessandro (313-328) per la sua predicazione che, nella linea alessandrina, interpretava la derivazione del Figlio come una subordinazione al Padre, riducendolo a livello di creatura, per quanto privilegiata ed eminente. La teologia ariana, al di qua dei problemi interpretativi (cfr. Mo, 149-154), può essere ricollegata a due principi: a) l’unico ingenerato (agénnetos) è Dio Padre, anteriore al Verbo, perché altrimenti vi sarebbero due principi; ciò minerebbe l’unità divina e la sua trascendenza; b) una generazione in senso stretto, comporterebbe un mutamento in Dio, perché la generazione comporta di per sé la comunicazione di realtà che appartengono alla natura. Se Dio generasse dovrebbe trasmettere la sua sostanza, sarebbe divisibile e soggetto a cambiamento. Perciò il Figlio non è generato secondo natura, ma per grazia di adozione. Ciò che esiste al di fuori di Dio Padre è frutto della sua attività creatrice. Da questi due principi derivano le seguenti conseguenze riguardo alla figura del Figlio: 1) Il Verbo di Dio è «creatura», prodotto per creazione dalla libera volontà del Padre: la parola «generare» significa «fare», «creare» in senso figurato; 2) Il Figlio, in quanto creatura del Padre, proviene dall’essenza di Dio, non partecipa della sua natura; 3) In quanto creatura, il Verbo Figlio ha avuto un principio, non è eterno come il Padre: è nato prima del tempo, perciò è creatura perfettissima, ma non è eterno, perché ciò significherebbe ammettere due principi ingenerati; 4) In quanto creatura il Verbo è soggetto al cambiamento, è mutevole sia fisicamente che moralmente. Ario, nondimeno, sostiene l’eccezionalità esemplare di Gesù, come creatura, in rapporto alle altre realtà create.

Il radicale subordinazionismo di Ario si collocava in un’impostazione monarchiana, ma la portava all’estremo enfatizzando la funzione cosmologica del Logos, come chiave di lettura della “derivazione” del Figlio dal Padre, per poter affermare la differenza delle persone in un modo che non minacciasse l’unità della sostanza divina. Ario interpretava la derivazione del Figlio dal Padre, nei termini di un’“effezione”, cioè di una creazione del prototipo in vista dell’emanazione del mondo creato. La prospettiva cosmologica che nel mondo greco connota il rapporto Dio e mondo, diventa la lente di lettura (deformante) della vita trinitaria, in cui la differenza delle persone è dispiegata sul calco della emanazione del mondo. La concettualità metafisica Dio-mondo è pensata sulla falsariga del rapporto Principio immutabile e realtà mutevole che diventa la gabbia in cui è rinchiusa la vita di amore della Trinità divina, che viene dislocata a motivo della sua funzione di creare il mondo: il Figlio (e lo Spirito) sono spostati sul lato dell’emanazione del mondo, per risolvere il problema della loro derivazione dall’unità di sostanza divina, senza minare la rigida concezione dell’unicità di Dio. Il monoteismo monarchiano viene salvato al prezzo di espungere il Figlio e lo Spirito dalla ricchezza comunionale della vita trinitaria, mentre sono proiettati in modo funzionale nell’economia della creazione e della salvezza. La comunicazione di Dio al mondo non rivela e comunica Dio com’è in sé stesso, ma solo delle sue emanazioni!

La pericolosità del pensiero di Ario fu subito avvertita dal suo patriarca Alessandro, anche se egli non condivideva la reazione degli avversari più accaniti di Ario, e dopo un tentativo di conciliazione lo scomunicò con i suoi seguaci. Ciò costrinse Ario ad abbandonare Alessandria e a trovare riparo presso Eusebio di Cesarea, in Palestina, facendo appello anche ad altri che riteneva suoi alleati, come Eusebio di Nicomedia. Ma fu soprattutto l’adesione del primo Eusebio, lo storico della chiesa, che arrise al successo del partito ariano, anche se fu il secondo che animò l’arianesimo come un partito, tanto che presto fu definito degli eusebiani. Da lui Ario trovò successivamente riparo, e da qui iniziò una campagna di diffusione presso le chiese di Oriente che non poteva non impensierire Costantino, nel frattempo diventato unico imperatore, una volta sconfitto Licinio (324). Il suo primo intervento parve mantenere l’imparzialità tra Ales­sandro e Ario, rimproverandoli di aver ferito l’unità della Chiesa, su una questione considerata «di minimo conto»: egli considerava sottigliezze teologiche i motivi della divisione, preoccupato com’era della divisione nelle chiese, di potenziale pericolosità per l’unità civile e politica dell’impero. Avendo messo in campo come pacificatore Ossio, vescovo di Cordova, confidente ecclesiastico dell’imperatore, a missione fallita, maturò l’idea di un concilio della Chiesa universale, forse anche su consiglio dello stesso Ossio. Prima fissato ad Ancira, sede episcopale di Marcello, accanito antiariano, il Concilio fu poi spostato a Nicea, e ne venne fissata la data per il maggio 325.

In quel mese molti vescovi di Egitto, Palestina, Siria, Fenicia, Asia Minore, cominciarono a convergere a Nicea. Ad essi si aggiunsero rappresentanze dalla Grecia e Macedonia, nonché sei membri dell’Occidente latino: oltre a Ossio di Cordova, anche i preti Vito e Vincenzo, rappresentanti di Silvestro, vescovo di Roma. Non mancarono persino rappresentanti di vescovi fuori dai confini dell’impero, da Persia e Mesopotamia: il numero effettivo dovette essere intorno ai 270, perché i 318 Padri del numero tradizionale è computato in riferimento a Gn 14,14. Fu chiamato anche Ario per chiarimenti, vi furono anche alcuni filosofi, e soprattutto assistette da giovane diacono Atanasio, il futuro successore di Alessandro ad Alessandria. La solenne inaugurazione è raccontata con enfasi da Eusebio di Cesarea, che riferisce del discorso di Costantino sul tema della pace religiosa da ristabilire per il bene dell’impero. Lo svolgimento delle sessioni del Concilio è poco documentato. Pare che, sulla base di una lettera di Eusebio di Nicomedia, si chiarì l’insostenibilità della posizione degli ariani, che negavano la generazione reale del Figlio dal Padre. Si doveva però fissare in positivo la dottrina ortodossa: Atanasio annota la difficoltà di dirimere la controversia solo con espressioni prese dalla Scrittura, perché gli ariani erano abili nel volgere a loro favore i testi biblici. Si pervenne perciò alla decisione di ricorrere a un termine (homooúsios) che gli ariani non potevano accettare, e che fu inserito sul testo base del simbolo della Chiesa di Cesarea, proposto da Eusebio. Anche se vi sono dubbi sull’effettiva intenzione di Eusebio, che era stato sostenitore di Ario, per quanto in modo più moderato, il Simbolo niceno, oltre al termine homooúsios, rinforza la posizione antiariana con tre aggiunte al simbolo precedente, che i Padri avevano preso come testo base per la Professio fidei del Concilio: “Dio vero da Dio vero”; “generato, non creato”; “della stessa sostanza del Padre” (questa espressione ripetitiva, rispetto al “consustanziale”, sarà eliminata nel simbolo niceno-costantinopolitano). Il Concilio si concluse con 20 canoni su varie questioni pastorali, come ad esempio la determinazione della data della Pasqua, l’invalidità dello spostamento dei vescovi da una sede all’altra, la proibizione di ricevere preti girovaghi e la soluzione dello scisma meleziano.

1.2 La difficile ricezione dell’homooúsios niceno (325-337)

Desta meraviglia il fatto che, poco dopo la celebrazione del Concilio di Nicea, si affermasse un movimento di reazione antinicena (S1, 100-134), che portò al cambiamento di atteggiamento di Costantino e alla riabilitazione di Ario, fino all’esilio di Atanasio e alla deposizione di Marcello di Ancira. Se è plausibile attribuire il cambiamento dell’imperatore, «allorché si accorse che le decisioni di Nicea non avevano ottenuto lo scopo di riportare la pace religiosa in Oriente» (S1, 102), è più difficile comprendere il riposizionamento dei vescovi di Oriente rispetto all’homoousía nicena, perché alcuni di essi «scorgevano nel simbolo niceno una professione di fede pericolosamente aperta verso il monarchianismo sabelliano» (ivi), timore rinforzato dall’uso radicale della formula fattone da Marcello di Ancira. Sembra che il perno della reazione antinicena sia stato Eusebio di Cesarea. Alieno sia da un arianesimo radicale, sia da un nicenismo rigido, propendeva per un’interpretazione monarchiana del simbolo. Siccome Costantino rimase fedele fino alla morte a Nicea, la reazione antinicena, sia dell’imperatore, sia dei vescovi a lui vicini, si espresse con una sottile guerriglia, sia dottrinale verso i niceni sospettati di sabellianismo, sia disciplinare verso altri vescovi più interventisti contro gli ariani. Un caso del secondo tipo fu la campagna antinicena contro Eustazio di Antiochia, che fu emblematica del modo intrigante di agire di Eusebio di Cesarea. Molti altri condivisero la stessa sorte.

Sull’altro fronte l’elezione di Atanasio nel 328 ad Alessandria schiera in campo un niceno di sicura fede ortodossa. La prima fase del rapporto tra Atanasio e l’imperatore fu molto contrastata: da un lato, Atanasio fu oggetto di accuse poi rivelatesi infondate per il suo atteggiamento nei confronti dei meleziani, una lunga vicenda di tristi sospetti e insinuazioni, dalle quali il nuovo patriarca si difese strenuamente di fronte all’imperatore; dall’altro lato, egli si trovava sempre in mezzo ai contrasti e alle lotte che travagliavano le chiese di Egitto e di Libia, così che era facile tirare la conclusione che l’ostacolo fosse la sua persona. Ci fu un primo appello in un sinodo che egli disertò, ma nel 335 era stato convocato un concilio a Tiro che si prevedeva non favorevole al patriarca. Il vescovo di Alessandria ebbe subito l’impres­sione che l’assise fosse stata organizzata per approdare alla sua condanna, perché l’alleanza tra meleziani ed eusebiani (ariani moderati) voleva toglierlo di mezzo. Le accuse portate si riferivano allo stile di intervento del patriarca. Egli si difese con energia e persuasione ottenendo una commissione di inchiesta sulla questione meleziana ma, ve­dendo svolgersi gli eventi a suo sfavore, egli abbandonò di nascosto la città, riser­vandosi di conferire personalmente con l’imperatore. Intanto il Concilio condannò in contumacia Atanasio e poco dopo si chiuse, perché i vescovi erano stati invitati a Gerusalemme per inaugurare la nuova basilica del Santo Sepolcro. Nell’occasione del trentesimo del suo regno, Costantino voleva portare a termine l’opera di pacificazione della Chiesa e lo fece con la riabilitazione di Ario (S1, 115-124), anche se questi non ne trasse frutto perché morì improvvisamente prima di rientrare ad Alessandria. Dopo esser stato deposto, Atanasio ottenne dall’imperatore il 30 ottobre successivo di riaprire la partita del Concilio di Tiro, ma il suo tentativo fu inane e venne inviato in esilio a Treviri. Questa fase sembra concludersi con la rivincita degli ariani o almeno degli eusebiani antiniceni. L’imperatore aveva cercato di tener fede alla sua politica di sostegno della pace religiosa, combattendo gli estremismi, al prezzo però di molti sotterfugi e senza favorire l’approfondimento della questione teologica.

1.3 La discesa in campo degli occidentali (337-350)

Sembra un paradosso ma, dopo la riabilitazione di Ario, la sua improvvisa morte (335) consentì agli eusebiani di distinguere meglio la loro posizione da quella dell’eresiarca. D’altra parte la messa fuori gioco di Atanasio, con il suo invio in esilio a Treviri, pareva inaugurare un possibile periodo di pace religiosa, quando il 22 maggio 337 moriva Costantino. La successione dei tre figli fu contrastata, ma già nel 340 l’impero era diviso in due grandi parti, Costante a Occidente e Costanzo in Oriente. Essi non potevano più intervenire negli affari religiosi con l’autorevolezza di Costantino, così che la spartizione dell’impero in due parti ha favorito anche la polarizzazione religiosa tra i vescovi occidentali e orientali. Ciò spiega, da un lato, la discesa in campo dei vescovi occidentali e, dall’altra, la politica di Costanzo a favore dei vescovi orientali, tra i quali era dominante il partito filoariano, almeno nella versione eusebiana. Costanzo non poteva non sostenere il partito filoariano moderato per tutelare la pace religiosa che il padre aveva imposto con metodi drastici.

Costantino II, il primo figlio che uscirà di scena in pochi anni (340), il 17 giugno 337 aveva autorizzato Atanasio a ritornare in Patria, con una scusa artefatta, così come aveva favorito il rientro di altri niceni, tra cui va segnalato Marcello di Ancira. Il motivo della scelta di Costantino II si può solo ipotizzare, perché la sua prematura scomparsa non gli consentì di spiegarne le ragioni. In ogni caso se il ritorno di Atanasio fu indolore, perché la sede di Alessandria era ancora senza successore, negli altri casi i rientri furono occasioni di tensioni e violenze. Il patriarca tuttavia tentò di ingraziarsi anche Costanzo, che incontrò per ben tre volte in diverse città, perché Atanasio invece di rientrare in sede per mare, fece un lungo giro per terra cercando alleanze e appoggi. La nuova intraprendenza del patriarca alessandrino mise in pensiero Eusebio di Nicomedia, che si rivalse sugli altri vescovi rientrati dall’esilio, fino a guadagnare la sede di Costantinopoli, che per lungo tempo divenne filoariana. Eusebio si apprestò ad inviare anche a Roma una delegazione, per tirare dalla sua parte il Papa, che ora poteva sentirsi meno legato all’Oriente, a motivo della presenza di due imperatori. A Roma incontrò una consimile delegazione alessandrina, che Atanasio aveva inviato per portare la lettera sinodale, con cui egli si difendeva da accuse varie da parte degli eusebiani. Questo fu un periodo in cui Atanasio estese la sua autorità, soprattutto con l’aiuto del monachesimo e di Antonio abate, di fatto producendo una identificazione tra la questione nicena e la sua persona.

Tutto ciò spiega il contrattacco di Eusebio di Nicomedia, che sentendosi appoggiato da Costanzo, convocò ad Antiochia un sinodo per contestare la validità dell’ordinazione di Atanasio e suggerì un successore, di nome Gregorio, che fu insediato il 18 marzo 339, cacciando Atanasio dalla sede patriarcale. Verso la fine del 339 Atanasio approdò Roma, dove trovò altri esuli, e cercò di convincere papa Giulio, a convocare un concilio per dirimere la questione. Il Papa mandò ad Alessandria una lettera, con due legati, per raccogliere la documentazione necessaria al discernimento. Eusebio di Nicomedia, che si sentiva chiamato in causa, tergiversò perché ormai la sua posizione era diventata comune in Oriente e per giunta aveva ormai diffuso la sua influenza sulla sede alessandrina: non aveva alcun interesse di farsi giudicare da Roma. Anzi ritenendo legittima la sua azione, in particolare la destituzione di Atanasio, passava al contrattacco, capovolgendo le accuse su Roma, che accettava il partito atanasiano. Il concilio di Roma del 441 prese le difese di Atanasio, discusse la dottrina di Marcello, si difese anche dall’obiezione eusebiana di riaprire i conflitti già giudicati dai concili di Tiro e Costantinopoli. In tal modo l’assise romana rivestì il significato decisivo del primo intervento dell’Occidente, e in particolare della Sede romana, nella controversia ariana. La presa di posizione di Giulio, in favore della componente nicena e atanasiana, suscitò il riflesso antalgico della fazione eusebiana, maggioritaria in Oriente, che così diventava anche antioccidentale. Forse Roma non si rendeva conto della complessità variegata della questione filoariana in Oriente, e la riabilitazione di Marcello di Ancira, niceno dai tratti radicali, non aiutava a riconoscere un ruolo di mediazione alla Sede romana.

La forte presa di posizione di papa Giulio richiedeva una risposta solenne. Ciò avvenne nel 341 in occasione della dedicazione di una nuova Chiesa ad Antiochia, che Costanzo aveva portato a compimento. Essa fornì il motivo per convocare un’assise di vescovi e pronunciarsi sulla dottrina nicena. La formula antiochena del 341 propone una rilettura di Nicea, cercando di sfuggire al pericolo di monarchianismo, che poteva anche essere sospetto di sabellianismo (come veniva rimproverato a Marcello), e accentua «al massimo la sussistenza delle ipostasi divine, mentre l’esigenza dell’unità passa in secondo piano» (S1, 157). La formula venne ritenuta il primo tentativo dottrinale del partito antiniceno di darsi una base comune almeno per l’Oriente, pur trattandosi di un fronte molto composito. L’abilità di Eusebio di Nicomedia trovò qui il suo massimo successo, proprio quando pochi mesi dopo egli venne a mancare. In ogni caso gli eventi che vanno dal 339 al 341 hanno significato la discesa in campo dell’Occidente nel dirimere la diatriba tra niceni ed eusebiani. Ciò spiega l’ambasceria del partito degli eusebiani mandata a Treviri da Costante nei primi mesi del 342. Tuttavia gli orientali insistevano su una formula di compromesso dottrinale, mentre per gli occidentali era forte la questione personale degli esuli, cioè la deposizione dei vescovi avvenuta nel 349. Nacque l’esigenza di un concilio per mediare tra le istanze dottrinali degli orientali e quelle disciplinari degli occidentali. Fu convocato da entrambi gli imperatori a Serdica (Sofia) nel 443 con la presenza di quasi cento occidentali, tra cui spiccava Ossio, di stretta osservanza nicena, oltre agli esuli del 339 ora riabilitati, mentre gli orientali si facevano attendere. Quando arrivarono, la presenza dei vescovi esuli, tra cui Atanasio, fece naufragare la barca del Concilio e fallire una seconda volta, dopo la riunione di Roma, il confronto tra Occidente e Oriente. Né un tentativo successivo degli orientali di spiegare le loro posizioni nel 345 a Milano presso l’imperatore Costante sortì migliore effetto (S1, 189-198), anzi favorì il rientro di Atanasio ad Alessandria. La morte del suo successore Gregorio, il 25 giugno 345, fu colta come un’occasione da Costanzo per venire incontro al fratello Costante, ed ebbe l’effetto di convincere Atanasio a tornare ad Alessandria, con un viaggio che toccò Treviri, Roma e Antiochia, al fine di incontrare i due imperatori e il Papa. Egli arrivò ad Alessandria, dopo sette anni, trionfalmente accolto il 21 ottobre 346. Questi anni burrascosi terminarono con una sorta di armistizio tra Oriente e Occidente, che perdurò fino alla morte di Costante.

  1. L’opera di Eusebio di Vercelli: pioniere e campione della fede nicena

«…se nelle altre Chiese si ha tanta ponderazione nell’ordinare un vescovo, quanta maggiore cura si richiede nella Chiesa di Vercelli, dove sembra che si esigano dal vescovo due qualità nello stesso tempo: la continenza, propria del monastero, e la disciplina, propria della Chiesa! Tali qualità, infatti, diverse tra loro, per primo seppe congiungere Eusebio, di santa memoria, nelle regioni d’Occidente, cosicché, pur vivendo in città, mantenne le regole monastiche e governò la chiesa con la sobrietà del digiuno. Grande vantaggio, infatti, ricevono la reputazione e il prestigio di un vescovo, se egli riesce ad attrarre i giovani alla pratica dell’astinenza e al proposito della continenza, distogliendo così i giovani che dimorano entro le mura cittadine dalle abitudini della vita della città» (S. Ambrogio, Lettera 14, Extra coll., n. 66).

La situazione mutò improvvisamente nel 350 con l’uccisione proditoria di Costante in seguito ad un’insurrezione militare in Gallia che insediò il generale Magnenzio. Il fratello Costanzo rifiutò qualsiasi compromesso con l’usurpatore, e lo sconfisse a Mursa, il 28 settembre 351. A campagna terminata (353), per la prima volta dalla morte di Costantino, l’impero era di nuovo riunito sotto un solo imperatore. Tuttavia, l’impero riunito politicamente si trovava diviso religiosamente in due parti. I contrasti tra chiese di Oriente e di Occidente non erano solo dottrinali, ma anche disciplinari. La sensibilità e l’interesse di Costanzo non potevano non mettere al centro della sua politica ambedue gli aspetti della questione religiosa. Costanzo rimasto da solo a capo dell’impero puntò prima sulla questione disciplinare, anche perché, mentre l’Occidente era compattamente niceno, l’Oriente, pur condividendo un affetto filoariano, era tutt’altro che omogeneo nella sua formulazione trinitaria. Il bersaglio di Costanzo divenne direttamente Atanasio: dopo alcune schermaglie tra l’imperatore e il patriarca, alla morte di papa Giulio il 12 aprile 352, gli successe il diacono Liberio, che appoggiò Atanasio. Il nuovo Papa mandò ad Arles da Costanzo, ormai vincitore di Magnenzio, una delegazione per chiedere un concilio ad Aquileia e risolvere sia la questione dottrinale che disciplinare (Atanasio). L’imperatore accolse la richiesta, ma volle che l’assise fosse ad Arles (353) sotto il suo controllo, e cercò di piegare i vescovi presenti, non molti e in maggioranza della Gallia, alla condanna di Atanasio. Liberio si oppose e trattenne i vescovi italiani dall’aderire alla condanna del patriarca. Fra i vescovi italiani che presero posizione contro il deliberato di Costanzo, oltre a Lucifero di Cagliari, atanasiano convinto e niceno rigido, ci fu Eusebio di Vercelli. Qui entra sulla scena della grande storia il nostro presule, che papa Liberio invita a recarsi a Milano, insieme a Fortunaziano di Aquileia, perché egli aveva pregato l’imperatore di riprendere il Concilio, per trattare di nuovo la questione dottrinale e disciplinare. L’assise fu indetta a Milano per il 355. Qui dobbiamo interrompere il nostro racconto per percorrere in flashback la vita del vescovo di Vercelli, prima di narrare il modo con cui egli partecipò al Sinodo di Milano e poi metterci al suo seguito nell’esilio a Scitopoli. Al concilio milanese è dedicata la Lettera I di Eusebio inviata a Costan­zo e le pressanti Lettere I-IV di Liberio ad Eusebio, a cui si aggiungono la Lettera sinodale, la Lettera dei legati papali, la Lettera dell’imperatore Costanzo per l’adesione alle deliberazioni del Concilio; al periodo dell’esilio, invece, è da ascrivere la Lettera II di Eusebio alle comunità di Vercelli, Novara, Ivrea, Tortona, vero capolavoro dell’intrepido pastore niceno.

2.1 Il pastore, il testimone e il campione di Nicea

Al nostro scopo è sufficiente rimandare alla limpida ricostruzione della biografia pastorale e teologica di Eusebio, che si trova nell’introduzione all’edizione critica delle Lettere eusebiane e delle Testimonianze antiche su di lui (U. 40-64). La citazione di Ambrogio, in esergo a questa seconda parte del mio contributo, delinea il senso dell’opera di Eusebio. Il vescovo di Milano elogia la linea pastorale del vescovo vercellese: Eusebio «per primo seppe congiungere [due qualità nello stesso tempo: la continenza, propria del monastero, e la disciplina, propria della Chiesa]… nelle regioni d’Occidente, cosicché, pur vivendo in città, mantenne le regole monastiche e governò la chiesa con la sobrietà del digiuno». L’osservazione di Ambrogio è perfetta sul contenuto, ma ha il sapore del senno di poi sulla tempistica, perché indica la scelta del cenobio cittadino, che molto probabilmente Eusebio introdusse a Vercelli al ritorno dall’esilio, come il marcatore pastorale della chiesa eusebiana. È ben vero che Ambrogio parla di un “congiungere due qualità diverse tra loro… nelle regioni d’Occidente” (Haec enim primus in occidentis partibus diversa inter se… coniunxit), la vita monastica e la vita presbiterale, nel cenobio sito nella città, ma agli storici sembra che questo non appartenesse al tratto primigenio dell’opera pastorale eusebiana, ma fosse un guadagno spirituale della sua tragica esperienza da esule. È necessario tratteggiare brevemente, rimandando alla ricostruzione dell’editore critico, le tre tappe dell’episcopato di Eusebio.

–          Vescovo di Vercelli fino al Concilio di Milano: la fase evangelizzatrice (345-355). Eusebio, sardo nato da famiglia agiata, proviene da Roma, come vescovo in pectore, inviato da papa Giulio I nel 345 a Vercelli, una delle piazzeforti militari dell’Italia nordoccidentale, con forte presenza ariana. Si comprende perché Vercelli a quel tempo fu scelta come prima e unica sede episcopale di quella regione, dopo Milano. La formazione del futuro vescovo avvenne a Roma, come lettore in preparazione al sacerdozio, stimato per la sua cultura e padronanza della lingua greca. Questa stima motiva il suo mandato a Vercelli, dove venne accolto con una entusiasta elezione, che non si comprenderebbe se non fosse stata preceduta dalla sua buona fama e dalla raccomandazione della comunità dell’Urbe. Ne è controprova il fatto che Liberio, diventato papa nel 352, lo indicò come suo plenipotenziario al Concilio di Milano. Il primo decennio del suo episcopato fu dedicato alla spinta propulsiva dell’evangelizzazione del Piemonte, da Ivrea a Novara e Tortona, e più tardi fino ad Aosta.

A questo punto la storia particolare del vescovo vercellese s’innesta su quella universale, perché nel 350, come abbiamo visto sopra, Costante viene ucciso da Magnenzio e nel breve volgere di tempo l’impero si trova sotto un unico capo, Costanzo. All’unità politica dell’impero non corrisponde però l’unità religiosa delle Chiese. Dalla morte di Costantino molta acqua era passata sotto i ponti, e l’animo dell’imperatore d’Oriente, ora unico e incontrastato capo politico, era di sentimenti filoariani, per quanto moderati. Il Concilio di Milano (355) fu lo snodo della politica ecclesiastica di Costanzo, che lo proiettò ad essere partigiano dell’Oriente, a scapito della possibilità di comporre anche l’anima occidentale che andava confermando con sempre più sicurezza la sua fede nicena. Pur non prendendo di petto la questione dottrinale, Costanzo, con furbizia politica, cercò di togliere di mezzo chi era l’ostacolo per eccellenza: Atanasio. Il fallito tentativo del Concilio di Arles, peraltro in risposta alla richiesta di fare un’assise sinodale del nuovo papa Liberio, sembrava trovare una possibilità più sicura nel Concilio di Milano, allora sede imperiale. Ma Eusebio subodo­rava il tranello. Perciò nonostante i ripetuti appelli del Pontefice (le quattro Lettere di Liberio, la Lettera dei legati papali), a cui si aggiungeva la Lettera sinodale dei vescovi riuniti a Milano, contenente già l’indicazione della condanna di Atanasio, per il vescovo di Vercelli era ormai chiaro che l’assise milanese fosse un tentativo per circuirlo a sottoscrivere la censura di Atanasio, ma questo avrebbe comportato la sconfitta della ripresa delle fede nicena, in atto nella parte occidentale dell’impero. Eusebio resistette sia agli inviti del Papa, che forse ingenuamente pensava di prevalere a Milano con la presenza del battagliero Lucifero di Cagliari e il soccorso sapiente dello stesso vescovo di Vercelli, sia alla forte pressione di Costanzo (Lettera a Eusebio), reticente sulla sua reale intenzione.

Finalmente, Eusebio giunse a Milano a Concilio già iniziato, forse più per le minacce dell’imperatore che per la lettera angosciata di Lucifero e dei legati papali, e vi arrivò quando i lavori registravano un’attiva propaganda dei vescovi filoariani, capeggiati da Ursacio, Valente e Germinio. Questi spingevano i vescovi presenti a sottoscrivere la condanna di Atanasio, trascinando nel loro proposito lo stesso vescovo di Milano Dionigi. Il partito filoariano si sentiva così forte non solo da piegare Dionigi, ma aveva appunto mandato Germinio a Vercelli, per tirare dalla propria parte Eusebio, a motivo del suo prestigio e della sua autorevolezza. Se la delegazione fallì il suo proposito, l’approdo a Milano di Eusebio avvenne per il precetto dell’imperatore, che peraltro gli fece fare anticamera per dieci giorni, prima di ammetterlo nella basilica maggiore dove si svolgevano i lavori del Concilio. E qui avvenne il capolavoro di Eusebio, che smascherò le vera intenzione e rivelò i cuori dei filoariani: non solo attirò nella propria orbita Dionigi, che pareva disponibile al compromesso, ma mise in difficoltà i filoariani con un colpo di genio: «con sorpresa di tutti, egli propose astutamente all’assemblea che la sottoscrizione della condanna del patriarca di Alessandria fosse subordinata all’accertamento dell’ortodossia dottrinale dei padri conciliari, ognuno dei quali avrebbe dovuto proclamare solennemente la professio fidei di Nicea» (U, 45). Il tumulto che ne seguì, con l’intervento del popolo che veniva finalmente a conoscere le vere intenzioni degli antiniceni, costrinse l’imperatore a trasferire il Concilio nel palazzo imperiale, facendo prevalere la fazione filoariana, mentre solo Lucifero ed Eusebio e, alla fine, lo stesso Dionigi conquistato alla fede nicena, si rifiutarono di sottoscrivere la condanna di Atanasio. Ciò comportò per tutti e tre l’invio in esilio.

–          Dalla condanna all’esilio fino al ritorno: la fase testimoniale (355-362). La prassi introdotta da Costantino di inviare in esilio i vescovi condannati in un’assise sinodale fu subito eseguita: Eusebio fu mandato a Scitopoli in Palestina (oggi Beth Shean) sotto la custodia del vescovo di quella città, Patrofilo, fervente ariano, presente a Milano; Lucifero di Cagliari fu inviato a Germanicia in Siria e Dionigi in Armenia. La presa in carico di Eusebio a Scitopoli, città strategica vicino alla valle del Giordano, sulla via del Mare, da parte di Patrofilo fu particolarmente dura. Nel saggio introduttivo del prof. Uglione è ben descritta la condizione in cui venne a trovarsi Eusebio (U, 45-46), perché la collocazione palestinese era particolarmente iniqua per la durezza del trattamento e la violenza della pressione al fine di ridurre l’esule alla sottomissione e al silenzio. In realtà la custodia di Patrofilo sortì l’effetto contrario, perché il presule vercellese dal suo carcere diede una testimonianza luminosa, di cui è testimone impressionante di umanità, di ecclesialità e di dottrina, la Lettera II di Eusebio.

Non solo per i molti contatti con i vercellesi, presbiteri, diaconi e laici che dimorarono con lui – tra cui il nostro Gaudenzio, che poi fu rinviato a casa – ma Eusebio fu ammirato anche per la sua carità operosa verso i poveri della città che dalla sua cella non smise di servire, in felice contrasto con la protervia e la ricchezza di Patrofilo. Tanto che questi arrivò sino ad isolare Eusebio nel suo palazzo episcopale, con maltrattamenti e vessazioni, che vennero persino travisati con la diceria di un possibile suicidio, mentre Eusebio contrappose un risentito “sciopero della fame”: della fiera resistenza del vescovo di Vercelli è toccante testimonianza il Libellus ad Patrophilum inserito nel corpo della Lettera II, sulla quale torneremo per l’approfondimento teologico e pastorale.

L’assidua assistenza dei vercellesi al loro vescovo consigliò di trasferire il prigioniero in località più lontana, prima in Cappadocia, meno accessibile che la Palestina, e più tardi nella Tebaide, dove era approdato anche Lucifero dopo varie traversie. In tal modo Eusebio e Lucifero si trovarono nello stesso luogo dell’Alto Egitto, dove pure Atanasio aveva trovato riparo presso i monaci della Tebaide sottraendosi alla caccia di Costanzo: i tre campioni di Nicea si trovarono riuniti nella regione dove fioriva il monachesimo anacoretico di Antonio, che insieme a quello cenobitico di Pacomio, fornirà ispirazione per il rientro a Vercelli di Eusebio. La morte di Costanzo nel 361 sciolse inaspettatamente le catene dei tre intrepidi difensori del Credo niceno, perché il giovane cugino Giuliano, che gli succedette, lasciò liberi tutti gli esuli, dal momento che egli aveva in animo di restaurare l’esangue paganesimo.

–          Il cenobio di Vercelli e la battaglia antiariana: la fase cenobitica (362-371). Il 9 gennaio del 362 Giuliano concesse la libertà a Eusebio e Lucifero che, una volta liberi, cercarono di costruire contatti con gli esuli niceni. Mentre Eusebio accettò l’invito a partecipare al Concilio di Alessandria indetto da Atanasio per la primavera di quell’anno, Lucifero non andò ad Alessandria, ma preferì dirigersi ad Antiochia, per vedere di persona la situazione di quella importante comunità, e ripristinare l’unità tra le due fazioni della comunità di fede nicena. Ma il vescovo di Cagliari, che non aveva la sapienza e l’abilità di Eusebio, non tenne conto che il vescovo legittimo di intonazione omeousiana era stato anche lui mandato in esilio e invece favorì l’altra fazione rigidamente nicena, capeggiata dal prete Paolino, che Lucifero ad un certo punto ordinò persino vescovo, dividendo inopportunamente la comunità di Antiochia, così che ambedue i due partiti erano rappresentati al Concilio di Alessandria del 362. Il Tomus ad Antiochenos è il documento di questa assise sinodale, inviato ai vescovi d’Italia, Egitto, Libia e Arabia. In testa alla lista figura proprio il nostro Eusebio, che era l’unico occidentale presente.

Fu in questa circostanza che si pose per la prima volta la questione cristologica, introdotta dal niceno Apollinare di Laodicea, che dall’impostazione trinitaria deduceva precipitosamente una decurtazione dell’umanità di Cristo. Atanasio, di fronte alla nuova questione, se la cavò egregiamente, con una formula ellittica. Invece, Eusebio intervenne in modo singolare: la sua firma di sottoscrizione del Tomus contiene una clausola cristologica di grande rilievo e di chiaro sapore antiapollinarista: il Figlio di Dio è divenuto uomo, avendo assunto tutto dell’uomo vecchio: se non è assunto tutto l’uomo vecchio, non può essere salvato l’uomo nuovo. La statura del pastore non era inferiore alla lucidità del dottore.

Terminato il Concilio, Eusebio fu inviato ad Antiochia, come latore del Tomus, e vi trovò la comunità fortemente divisa dall’improvvida opera di Lucifero. Ma non si fece coinvolgere nella diatriba, e con la sua saggia prudenza, non entrò in comunione con nessuna delle due parti, congedandosi dalla città. Per il ritorno non scelse di rientrare via mare, ma, circonfuso della fama di confessore della fede trinitaria e cristologica, percorse la via di terra passando per l’Asia Minore, la Tracia, l’Illiria, in modo da far conoscere i deliberati di Nicea e di Alessandria alle comunità incontrate sul cammino. Tra queste è nota la sosta di Eusebio a Sirmio, con il proposito di conquistare alla sua causa il vescovo Germinio, un’antica conoscenza filoariana del Concilio di Milano. L’incontro con Eusebio è ricordato nella controversia successiva con il laico Eracliano, che si può leggere tra le antiche testimonianze dell’attuale edizione critica (U. 257-266). L’altro episodio notevole (364), che apprendiamo da Ilario di Poitiers nel Contra Auxentium (U. 291-297), è quello di un blitz fatto a Milano per cercare di deporre il vescovo di quella città, rimasta l’unico centro di professione ariana di grande rilievo per la sede dell’imperatore, il neutrale Valentiniano. Aussenzio si difese davanti all’imperatore evocando la deposizione di Ilario ed Eusebio sotto Costanzo e professando la sua fede nella divinità di Cristo. Soprattutto mise in guardia dai disordini suscitati nella città dai due niceni, così che l’imperatore mantenne Aussenzio sulla sua sede e ingiunse ai due di allontanarsi da Milano. Si dovrà aspettare l’arrivo di Ambrogio per vincere la partita (374).

Il ritorno a Vercelli, dove il vescovo fu entusiasticamente accolto, è connotato da due tratti: il primo dall’opera di diffusione dell’ortodossia nicena, ben oltre i confini della sua diocesi, con la felice sintonia nata con Ilario di Poitiers, come ho testé raccontato; il secondo con l’istituzione del coenobium eusebianum che, come abbiamo sentito dalla citazione di Ambrogio, rappresenta il marchio di fabbrica dell’azione pastorale di Eusebio. Gli storici hanno discusso se tale forma pastorale sia anteriore o posteriore all’esilio, ma con ogni verosimiglianza è facile pensare che Eusebio abbia fatto tesoro delle esperienze dell’ultima tappa del suo esilio in Tebaide, costellata dal monachesimo antoniano, senza escludere l’esperienza pacomiana. Il suo però non fu un monachesimo anacoretico, bensì cenobitico, anzi un singolare intreccio di vita monastica e vita presbiterale, che egli proponeva ai presbiteri della sua città, primus in Occidentis partibus, secondo l’incisiva dizione di Ambrogio. Non vi erano solo preti vercellesi, ma anche Evagrio di Antiochia (traduttore in latino della Vita Antonii), il greco Limenio, suo primo successore, e Gaudenzio che diverrà vescovo di Novara nel 398. Così conclude lo studio introduttivo all’edizione critica: «Eusebio pone una comunità di presbiteri di nazionalità diverse e di tradizione ecclesiali diverse che vivono insieme nella povertà, nell’umiltà, nella continenza, nella reciproca sopportazione e istruzione, nei digiuni e nelle veglie» (U. 58). Era una vita cenobitica del clero che comportava, come nei monasteri orientali, vitto, alloggio, preghiera in comune, studio delle Scritture. Sul suo significato teologale dovremo tornare di nuovo.

2.3 La Lettera II dalla prigionia: “resistenza e resa”

La circostanza della presentazione della nuova edizione critica degli Scritti di Eusebio, e delle Testimonianze antiche su di lui, ci domanda di sostare per apprezzarne il valore teologico, pastorale e spirituale. Se le Testimonianze sono utili per ricostruire il contesto e la rete di relazioni dell’opera di Eusebio, anche se da maneggiare con senso critico, gli Scritti sono un testimone diretto delle sue intenzioni e della sua opera. Tra di essi campeggia la Lettera II, che, come abbiamo detto, è il documento umano di prim’ordine sul suo esilio a Scitopoli. Mi piace definirne in sintesi il suo senso con un’espressione famosa di un altro nobile carcerato, che testimoniò fino al sangue la sua fedeltà al Vangelo: “resistenza e resa” (Bonhoeffer). E se il vescovo di Vercelli non arrivò a tanto, la sua lettera è attraversata dall’inizio alla fine dal brivido del suo esito infausto, che la colloca sotto il segno escatologico. Per trovare il bandolo della matassa per una presentazione teologico, pastorale e spirituale della Lettera II, riprendo i tre criteri ermeneutici che ho formulato all’inizio: il tema trinitario, la rilevanza ecclesiale, il risvolto politico della questione ariana e della reazione nicena. La lettera però è un documento comunicativo di straordinario valore alla propria Chiesa, da cui il vescovo si sente separato in modo ingiusto.

In primo piano sta la dimensione ecclesiale con cui il vescovo esule intende rinsaldare i vincoli di amore e fraternità, che la condizione di lontananza fa sentire ancora più vivi e affettuosi: è una vera e propria ecclesiologia della comunione dei santi (cc.1-2; cc. 9-11). In secondo piano, e per certi versi al centro del discorso, è la rilevanza sociale e politica della testimonianza cristiana del vescovo, con la drammatica denuncia della sua detenzione, perpetrata in modo violento e vessatorio, di là dall’esecuzione della condanna del Concilio di Milano, da Patrofilo, che tratta il fratello nell’episcopato peggio degli idolatri pagani (cc. 3-6: una sezione in cui è inserito il Libellus ad Patrophilum [cc. 4-5], uno scritto di sconvolgente e fiera testimonianza della distretta del IV secolo, con la commistione esplosiva di fede cristiana e ragione di stato). In terzo piano, sullo sfondo sta il tema trinitario, la ragione radicale dell’intrepida testimonianza del vescovo niceno, che fa capolino nella brevissima, ma icastica, professio fidei che sta al centro del Libellus (5.1), poi ripresa nelle diverse situazioni in cui si sono venuti a trovare coloro (vescovi, presbiteri o laici) che hanno tradito o barattato la fedeltà dovuta alla fede nicena (cc. 7-8). Questi ultimi due capitoli, nella loro allusività, riccamente illustrata nell’apparato dell’edizione critica, richiamano molte situa­zioni di evidente compromesso che la battaglia della fede trinitaria ha attraversato nel IV secolo, a motivo della contaminazione che per la prima volta il cristianesimo ha dovuto affrontare diventando pian piano religione maggioritaria e quindi strumentalizzabile dal potere politico. È bello allora indicare il senso della Lettera II con la cifra sintetica di “resistenza e resa”: resistenza agli uomini sino alla fine, al potere religioso compromesso con quello politico, alla violenza e al male cieco e incomprensibile; resa solo a Dio, al suo volto trinitario che opera con la sua forza salvifica, e resa alla comunione fraterna, dei presenti e degli assenti, che diventa comunione dei beni e dei santi, irradiazione della carità trinitaria. Provo a far percepire la bellezza dello scritto, riprendendone le tre dimensioni.

            «La nostra lettera siete voi» (2Cor 3,2). Eusebio aveva a disposizione molti modelli nell’epistolografia biblica, in particolare paolina, con cui rivolgersi alle sue comunità (Vercelli, Novara, Ivrea, Tortona). Ma l’incipit della sua lettera, dopo il saluto di rito, svolge il motivo dell’ansia procurata dall’assenza di notizie scritte che si trasforma in timore per la defezione dalla retta fede. La visita a Scitopoli di Srio e Vittorino, latori di beni, scritti e notizie orali, fa introdurre al vescovo, esule e imprigionato, il motivo della presenza dell’assente: «quasi rapito d’improvviso attraverso tutta la distanza che ci separa… mi parve di essere giunto fino a voi. Mentre ricevevamo le lettere di ognuno di voi e da esse venivo informato dei vostri sentimenti e del vostro amore, le lacrime si mescolavano alla gioia e il mio animo avido di leggere ne era ostacolato dalle lacrime; ed erano entrambe necessarie, perché i diversi sentimenti, con l’appagamento del desiderio, potessero adempiere i doveri imposti dall’affetto che nutro per voi» (1.3-2.1). Brano d’intensa commozione che mette davanti ai nostri occhi la gioia della visita insperata e lungamente attesa, un testo che eguaglia le parti più alte delle lettere paoline e che si anima con insospettata vivacità: «Occupato per giorni nella lettura, mi pareva di parlare con voi e dimenticavo le passate sofferenze: da ogni parte mi sentivo circondato da infinite consolazioni: da una parte la vostra fede, dall’altra il vostro affetto, dall’altra ancora le vostre offerte. Fra tante e così grandi consolazioni d’improvviso mi pareva di trovarmi non già in esilio ma in mezzo a voi» (2.2). Si legga il seguito per sentire la calda corrente che intreccia comunione di fede, di affetti e di beni, che vengono poi scambiati non solo nella comunità credente (2.3;2.4), ma anche condivisi con i vicini nel bisogno. Come ascoltiamo nel testo finale dell’incipit: «poiché volevamo trasformare i vostri frutti da terreni in celesti, da caduchi in duraturi, da effimeri in eterni, cominciammo a distribuirne ogni giorno a coloro che vivevano nelle ristrettezze” (2.6). La comunione dei beni diventa lo specchio della communio sanctorum.

            In perfetta inclusione, anche l’explicit della lettera (cc. 9-11) rinnova il motivo ecclesiologico. Il diacono Siro, che era in pellegrinaggio per visitare i luoghi santi (ad videnda loca sancta), documento inaspettato del pellegrinaggio nella terra di Gesù che allora cominciava a diffondersi, diventa il latore della risposta di Eusebio, che scriveva non già tra le lacrime, come Paolo, ma di nascosto, pregando Dio che «trattenesse di ora in ora i [suoi] carcerieri» (10.1). Il finale della lettera contiene due motivi tra loro profondamente intrecciati: la perseveranza della fede e il saluto personalizzato ai membri della chiesa, persino agli esterni. Si tratta di un’immagine di grande valore che intreccia la retta fede e la bellezza della comunione in una chiesa dai molti volti. Ascoltiamo i due testi dell’inclusione finale. Il primo: «custodite la fede con la massima vigilanza, conservate tra voi la concordia, siate assidui nella preghiera; ricordatevi incessantemente di noi, affinché il Signore si degni di liberare la sua Chiesa che soffre su tutta la terra e noi, che ora viviamo sotto l’oppressione, una volta ricuperata la libertà, possiamo alla fine gioire insieme a voi» (10.1). E, infine, il secondo, un quadro di struggente tenerezza con cui si chiude la missiva: «in questa lettera chiamo tutti per nome: voi tutti fratelli, ma anche voi, sante sorelle, figlie e figli, uomini e donne, giovani e anziani. Accontentatevi di questo saluto. Vogliate porgere i nostri ossequi anche a quelli che sono fuori della Chiesa e si degnano di nutrire affetto per voi» (11.1). Un’istantanea indimenticabile della Chiesa del primo millennio!

            Resistenza agli uomini e al male. Il centro della lettera è orchestrato sul tema drammatico della persecuzione, seguita alla condanna di Milano, durante l’esilio a Scitopoli. Proviamo ad azzardare un canone interpretativo della battaglia per l’ortodossia nel IV secolo: la parte fedele a Nicea, dalle sue forme più rigide ed estreme come in Ossio o in Lucifero sino ai modi più sapienti ed armonici come in Eusebio, Dionigi, Ilario, nonostante che nella pratica questi vescovi avessero talvolta il linguaggio della contrapposizione o, almeno, della fedeltà alla differenza cristiana, nella testarda e tenace difesa dell’homoousía nicena, non fa brillare la capacità di affermare lo specifico cristiano di fronte alla cornice di pensiero egemone e alla virulenza del potere politico che voleva strumentalizzare la nuova fede? Non è questo il senso della grande battaglia per la fede nicena, che tenne accesa la fiaccola per la sua ripresa al Concilio di Costantinopoli (381), il cui Simbolo (detto appunto Niceno-costantinopolitano) ogni domenica professiamo nella Messa e che è il testo più ecumenico della fede della Chiesa, in cui quasi tutti i cristiani si riconoscono? Con il respiro di questo canone interpretativo si possono anche leggere le parti centrali della Lettera II, in cui Eusebio descrive la sua fiera resistenza alle vessazioni di Patrofilo, sotto le inusitate sembianze di vescovo carceriere, figura che ci scandalizza e che toglie al cristianesimo patristico il tratto romantico con cui viene spesso presentato.

Eusebio prende avvio, nella sua drammatica denuncia d’ingiusta detenzione, dall’intervento diabolico che «eccitò contro di noi i suoi folli ariani, che già da tempo mal sopportavano non solo questi atti di carità, ma anche il fatto di non riuscire a convertirci alla loro falsa dottrina» (3.1). La violenza è il marchio della sopraffazione, la carità è il timbro della persuasione. La prima vittima della violenza è, anzitutto, la verità, perché dichiara che «questo potere era stato loro concesso dall’imperatore» (3.2). La distorsione del potere di Cesare e del culto a Dio si presenta in tutta la sua chiarezza. Eusebio reagisce con l’unica arma possibile, vera icona cristologica: «rinchiuso e per quattro giorni tenuto prigioniero e costretto ad ascoltare da molti di loro insulti e inviti a tradire la mia fede, lo dimostrai non profferendo nemmeno una parola» (3.3). Il silenzio è colpito con l’isolamento dell’esule nel palazzo di Patrofilo, e viene minacciata una sorte simile anche ai suoi con i quali il vescovo faceva vita comune. La risposta di Eusebio a questo sopruso è estrema: egli proclama solennemente, diremmo con linguaggio moderno, uno “sciopero della fame”. Nella lettera ai suoi vercellesi, il vescovo conficca come un piolo irremovibile il suo Libellus ad Patrophilum (cc. 4-5), un documento di drammaticissima umanità: egli è disposto a morire, ma non a tradire la verità, smascherando la menzogna di chi volesse far passare il digiuno fino alla liberazione come suicidio.

Nel Libellus – è notevole la sua inserzione in una lettera tutto sommato non lunga – Eusebio non disdegna di descrivere il suo trasporto al palazzo episcopale con tratti raccapriccianti («trascinato per terra supino e talora col corpo denudato», 4.1). Ma poi con uno scatto di fierezza annuncia la sua ferma intenzione: «non intendo assolutamente mangiare pane e bere acqua fino a quando ciascuno di voi avrà dichiarato, a voce e per iscritto, che non impedirete ai miei fratelli, che con me soffrono volentieri per la fede, di portarmi il vitto necessario da dove dimorano e non ostacolerete coloro che avranno la bontà di rendermi visita» (4.2). Il vescovo di Vercelli chiede garanzie sul suo nutrimento e rassicurazioni sulle visite dei compagni d’esilio, mentre per la seconda volta ribadisce la sua richiesta formale di una dichiarazione ufficiale, verbale e scritta, pena il sospetto di omicidio. A questo punto Eusebio emette una brevissima professione di fede, su cui torneremo, terminandola con l’attribuzione di responsabilità della sua morte, ed escludendo perentoriamente la probabile diceria di suicidio, che i suoi carcerieri macchinavano di diffondere in caso di esito letale di questa restrizione della custodia cautelare. Con un tratto solenne, chiamando «a testimoni tutte le Chiese», alla fine del suo Libellus Eusebio afferma che ha scritto tutto ciò «per evitare che dopo la mia morte voi diciate in giro che ho scelto io, di mia volontà, questo tipo di morte (voluntaria morte)» (3.2). La fierezza della rivendicazione culmina nella coscienza di poterlo far conoscere a tutte le Chiese.

Impressiona il fatto che il Libellus sia corredato da indicazioni cronologiche precise: «quattro giorni tenuto prigioniero» (3.3); «al quarto giorno ci costrinsero a far ritorno» (6.1); dopo l’accoglienza trionfale del vescovo nella piccola comunità degli esiliati, «resistettero appena venticinque giorni» (6.2) fino a incarcerare tutto il piccolo gruppo e disperderlo «in esilio in località diverse» (6.3); e, infine, ancora il racconto di successive angherie, sempre connotate da minuziose descrizioni temporali (6.3; 6.4; 6.5). Dopo questa specie di “diario” delle violenze dei filoariani, l’inizio del capitolo seguente (c. 7) è letteraria­mente segnato da una conclusione parenetica, con cui Eusebio confronta la persecuzione subìta umanamente peggiore delle persecuzioni dei pagani: «costoro mandavano in carcere ma non proibivano che i prigionieri ricevessero visite» (7.1). La descrizione delle efferatezze degli antiniceni è particolarmente minuziosa: mandano in carcere, compiono violenze, rubano i beni altrui, con una conclusione che fa sobbalzare il lettore moderno: «non sto a dire quanta crudeltà si sia impadronita di costoro da quando possono contare sul potere temporale!» (7.2).

La chiusa della lunga querimonia del vescovo esule consente il passaggio al c. 8 con il lucido j’accuse che riguarda i compromessi, i baratti e le deviazioni di coloro che stanno perdendo la differenza tra Dio e Cesare: per primi alcuni vescovi che nel timore di perdere la carica, i beni e i privilegi terreni lasciano la fede e i beni celesti; poi altri che, sull’esempio di questi vescovi, temono anch’essi di perdere i beni del mondo (7.4). L’editore critico commenta (U. 161) che, nel decennio che va dall’editto di Milano alla morte di Costanzo, non pochi vescovi, per paura di perdere le cariche ecclesiastiche, si sottoposero alle imposizioni imperiali, una vera piaga che si stava diffondendo a macchia d’olio nella nuova “chiesa imperiale”: i vescovi ariani si dimostrarono cortigiani più malleabili rispetto a quelli niceni. La denuncia della chiesa soggetta ai desideri dell’imperatore continua (c. 8) con la descrizione delle intimidazioni ai ricchi e ai poveri, persino alle vergini. E termina con la coscienza del tempo della prova a cui è soggetta la Chiesa di allora: «Questo è il tempo della prova, questo è il tempo in cui quelli che sono stati sottoposti alla prova saranno riconosciuti chiaramente» (8.3). Questi due capitoli della Lettera II (cc. 7-8) sono il documento prezioso che le coscienze più vigili avvertivano già il grave pericolo di quella che impropriamente è stata definita la svolta costantiniana.

            Resa a Dio e ai fratelli. La lettera è attraversata da cima a fondo da una corrente vitale di fiducia che il Dio confessato nella fede nicena sia vindice delle angherie e portatore di liberazione e salvezza. A giudicare dall’esito della vicenda dell’esilio di Eusebio, si deve dire che il vescovo vercellese sia stato dotato di spirito profetico, anche se nella lettera non v’è alcun accenno alla speranza della liberazione. Infatti, da quanto sappiamo dovrà passare molto tempo – sette anni – e altri spostamenti coatti, in Cappadocia e nella Tebaide, perché si annunci l’aurora della libertà. La resistenza di Eusebio agli uomini e al male è intrepida e senza tentennamenti. Nel testo l’unica resa è a Dio e alla dolcezza della comunione fraterna. Della resa a Dio è attestazione la fiducia sconfinata che attraversa il linguaggio della lettera in ogni suo snodo polemico e critico nei confronti degli avversari che vengono invece accusati di resa al mondo. La ragione di fondo della inconcussa fiducia in Dio è fondata sulla fede nicena. Non abbiamo un testo ampio, di sicura mano eusebiana, che ne attesti la formula, anche se la sottoscrizione al Tomus ad Antiochenos può fare da guida della fede nicena condivisa da Eusebio. Abbiamo però due perle di prima grandezza: una che ha la forma di una piccola professio fidei, incastonata nel Libellus ad Patrophilum; l’altra è la formula con cui Eusebio ha firmato il Tomus, mirabile per la clausola che contiene.

La professio fidei di Eusebio (5.1) presenta quasi una parafrasi in miniatura del Credo niceno, pur non citandone il termine tecnico di homooúsios: la scansione trinitaria del Credo è introdotta da un triplice novit riferito al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo. Il vescovo vercellese conosce bene la scansione trinitaria della fede, qui riferita in modo essenziale e tuttavia preciso. Al Padre è dato il titolo di “onnipotente”, di solito riferito all’atto creatore, senza escludere l’azione divina nella storia della salvezza. Del Figlio unigenito si professa che è inenarrabiliter de ipso [Patre] natus, senza usare né la terminologia tecnica di genitus, né il marcatore di Nicea che è homooúsios. Secondo l’editore critico, gli avverbi inenarrabiliter/ineffabiliter e gli aggettivi inenarrabilis/ineffabilis sono di solito dai Padri riferiti alla natura di Dio, mentre qui Eusebio li riferisce all’inesprimibile generazione del Figlio dal Padre. Si noti poi l’uso di natus come equivalente di genitus, segno ancora della fluidità del linguaggio, anche se viene tolta ogni ambivalenza nel successivo Deus sempiternae virtutis, che afferma l’uguaglianza del Figlio al Padre, pur non usando la lingua dell’ousía. I maestri della fede sanno che la concettualità è a servizio della intentio della fede. Non meno decisivo è l’uso dell’espressione cristologica: salutis nostrae causa… hominem perfectum induit; il tradizionale significato antidoceta del termine perfectum rivestirà nella seconda metà del IV secolo una chiara intenzione antiapollinarista e antimonifisita. Tra poco tornerò sulla subscriptio di Eusebio al Tomus ad Antiochenos, dove non c’è il termine ma il concetto, tra l’altro nello stesso senso del salutis nostrae causa. Seguono i rapidi tratti della vicenda salvifica della vita di Cristo: pati voluit, morte triumphata tertio die surrexit, ad dexteram Patris sedet venturus iudicare vivos et mortuos. Infine, il terzo novit ha come soggetto lo Spiritus sanctus, mentre la Chiesa ne è la testimonianza (testis est ecclesia catholica), professando così la sua fede trinitaria. La chiusa della brevissima professio fidei è come la firma del vescovo di Vercelli, iscritta con il sangue nel Libellus che poteva procurargli il martirio («io non potrò essere ritenuto responsabile della mia morte; responsabili lo sarete voi che avete voluto proibire ai miei compagni di portarmi il necessario per vivere», 5.1).

La seconda perla della fede nicena di Eusebio contiene una precisazione singolare, che anticipa tutto il grande dibattito su Cristo del quarto secolo (B. 1-24), a partire dal fatto che Apollinare, niceno convinto, approdava a decurtare l’umanità di Cristo. Nella subscriptio al Tomus ad Antiochenos, come ho già anticipato, Eusebio aggiunge una clausola sorprendente, che certo forse avrà impensierito lo sbrigativo Atanasio, il quale non poteva permettersi di aprire un altro fronte polemico con Apollinare, appartenente al suo partito niceno. Se, come è noto, Atanasio se la cava con una forma elusiva («Furono d’accordo [i Padri] nel riconoscere anche questo: che il Salvatore non ebbe corpo inanimato, né insensibile, né privo d’intelletto», Tomus ad Antiochenos, 7), il vescovo Eusebio condiziona la sua subscriptio alla seguente clausola: Ego Eusebio episcopus […] consentio eum [Salvatorem], cum Dei Filius esset, hominem esse factum, et excepto peccato, omnia, quae veteris erant nostrae humanitatis, assumpsisse. La formula intende professare l’integralità dell’umanità di Gesù assunta, con una bella dizione non solo sulla completezza antropologica (homo perfectus), ma anche sull’integralità soteriologica (ommia, quae veteris erant nostrae humanitatis): se non è assunto l’uomo perfetto e tutta la storia dell’uomo vecchio, eccetto il suo peccato, non è possibile che la venuta di Cristo possa salvarlo creando l’uomo nuovo. Al centro del IV secolo la nascente questione cristologica, introdotta dall’impoverimento dell’u­mano in Cristo operato da Apollinare (e poi più avanti dai monofisiti), trova già una sorprendente correzione radicale. La fede nicena che sposta il Figlio Gesù totalmente dalla parte di Dio (homooúsion to Patrì), non perde, anzi afferma totalmente la sua consustanzialità con noi. Eusebio anticipa il totus in suis, totus in nostris del Tomus ad Flavianum di Leone Magno. Quasi un secolo prima! La resa a Dio (e la resa ai fratelli nella comunione dei beni e dei santi con cui la Lettera II si apre e si chiude) sigilla la fede trinitaria e cristologica di Eusebio, la cui limpidità è forse dovuta – oso immaginarlo – alla sofferenza condivisa con Cristo, volto umano del Padre. Nello Spirito.

  1. Il discernimento di Nicea e la sua ricezione: l’immagine cristiana di Dio

«Questa sopportazione in sant’Eusebio crebbe con la vita del cenobio, e dalla consuetudine con una regola oltremodo austera egli attinse forza per sopportare le fatiche. Infatti chi oserebbe mettere in dubbio che questi due elementi – i doveri sacerdotali e le regole monastiche – siano di fondamentale importanza per un genere di vita improntato ad una scrupolosa osservanza dei precetti cristiani? Dunque la vita dei chierici si svolge nello stadio, quella dei monaci in una grotta; l’una contro il disordine del mondo; l’altra fuggendo i piaceri del corpo; l’una più gratificante, l’altra più sicura; l’una sa governare se stessa, l’altra imporre a se stessa delle restrizioni: entrambe, tuttavia, sanno rinnegare sé stesse per diventare di Cristo» (S. Ambrogio, Lettera 14, Extra coll., n. 71.72).

Nei sette anni di esilio di Eusebio (355-362) molte cose erano successe nel quadro internazionale. L’anno 359 è stato cruciale per la confusione accaduta al Concilio di Rimini, le cui determinazioni furono poi capovolte a Nike, sede in cui l’assise s’era trasferita, per poi tornare a Rimini e ottenere l’adesione di quasi tutti i vescovi. In parallelo ci fu nello stesso anno un Concilio a Seleucia. Quando la rappresentanza dei vescovi arrivò a Costantinopoli portando la formula di Rimini-Nike all’imperatore, non gli parve vero di siglare il 31 dicembre 359 la pace religiosa sulla formula riminese. Una professione di fede può essere oggetto di compromesso, ma non può essere una formula ottenuta con la forza e il sotterfugio. All’inizio del nuovo anno (360) l’azione di Costanzo sembrava aver raggiunto, soprattutto in Oriente qualche successo, «per unificare anche sul piano religioso le due parti dell’impero: prima l’unificazione era avvenuta sulla base della condanna di Atanasio, ora sulla base di un comune formulario di fede» (S1, 347). Ma l’unità si rivelerà non molto tempo dopo fragile e precaria, anche perché era vicina la fine di Costanzo (3 novembre 361).

3.1 Dal ritorno di Eusebio sino a Basilio e al Concilio di Costantinopoli (381)

Dopo Costanzo la salita al seggio imperiale di Giuliano (361-363) mutò radicalmente la scena. Ora possiamo riprendere il filo del racconto là dove l’avevamo lasciato, anche perché con l’avvento del nuovo imperatore furono liberati gli esuli, Lucifero, Eusebio e Atanasio, che abbiamo già visto in opera al Concilio di Alessandria nell’anno 362. Qui avviene la svolta che è testimoniata dal Tomus ad Antiochenos: sotto il profilo disciplinare fu presa la linea moderata di escludere solo i capipartito del concilio di Rimini, ma non tutti i vescovi filoariani o eusebiani; sotto il profilo dottrinale Atanasio entra in confronto con gli omeousiani, prendendo in esame la dottrina delle tre ipostasi che comportava l’affermazione di tre dei, così come la dottrina dell’unica ipostasi non significava immediatamente una monarchia divina, ma l’unica ousía del Padre e del Figlio e dello Spirito. La sovrapposizione di ousía e hypóstasis, da alcuni niceni ritenuti sinonimi, era lo scoglio da superare (S1, 367-368). Il resto della storia per la controversia ariana si può concentrare – saltando molti passaggi che troviamo ampiamente delineati in S1, 354-399 – su due personaggi, Damaso, vescovo di Roma, e Basilio, vescovo di Cesarea, che sostanzialmente portarono a sciogliere l’intricatissima serie di nodi tra Oriente e Occidente, ancora aperti alla morte di Costanzo. L’elezione di Damaso avvenne nel 366, non senza forti contrasti e spargimento di sangue dell’altra parte che aveva eletto Ursino. Forse anche per far dimenticare il modo non elegante della sua elezione, Damaso assunse subito una posizione con cui intendeva dare forza e lustro alla Sede romana: egli cercò di condannare, anche su istigazione di Atanasio, il filoariano Aussenzio di Milano, insieme con Valente e Ursacio, infirmando le deliberazioni di Rimini, con il motivo che non erano state approvate dal Papa, gesto con cui si afferma la coscienza di una primazia della Sede romana.

Se in Occidente l’imperatore Valentiniano tenne un atteggiamento di neutralità sulla questione religiosa, anche perché questa parte dell’Impero era in maggioranza nicena, in Oriente vigeva uno stato di disordine religioso tra le diverse varianti di un sentimento antiniceno (salvo l’Egitto). Valente cercò di ripristinare la situazione come si era creata alla morte di Costanzo, ma la divisione tra i diversi gruppi, in particolare gli omeousiani, rese difficile l’esecuzione dell’editto del 365. Occupato con i Goti, l’imperatore poté riprendere la sua politica religiosa solo nel 372, ma nel frattempo gli ariani s’erano molto frazionati, e la situazione si era intrecciata con la nuova questione sulla divinità dello Spirito Santo. La situazione sembrò precipitare con la successione del patriarca Eudossio a Costantinopoli, quando Valente impose il filoriano Demofilo, inaugurando un periodo di repressione.

È in questa situazione confusa che fa la sua comparsa la personalità di Basilio che fu eletto nel 370 nella sede di Cesarea. La sua figura, forte e persino autoritaria, ma dotata di grande intelligenza e sensibilità, campeggia nell’ultima fase della crisi ariana: egli fu abile politicamente nel perseguire una linea di vasto respiro per superare la frammentazione degli antiariani moderati, che favoriva di fatto Valente e Demofilo, e concepì una rete di rapporti con il resto dell’Oriente, con l’area antiochena, ancora lacerata dallo scisma, e soprattutto coltivò i rapporti con l’Occidente, in particolare con papa Damaso. La sua azione pratica però fu molto contrastata e riscontrò insuccessi penosi. In particolare il suo reiterato tentativo di farsi ascoltare dal vescovo di Roma andò incontrò a ripetuti rifiuti. Egli morì non ancora cinquantenne il 1° gennaio 379, ma l’apparente insuccesso della sua politica di vaste relazioni in Oriente e con l’Occidente aveva preparato il campo per una terza via tra la fede nicena d’antica osservanza dell’Occidente e l’arianesimo recente di Demofilo-Valente, sconfitto e ucciso ad Adrianopoli nel 378. In Oriente gli succedeva Teodosio, mentre in Occidente Graziano era già subentrato fin dal 375 al neutrale Valentiniano. Teodosio ribaltò l’orientamento ariano di Valente e con il Decreto del 27 febbraio 380, seguito da quello del 10 gennaio 381, impose la fede nicena, insediando nella sede di Costantinopoli Gregorio di Nazianzo. Questi però si dimise subito durante il Concilio Costantinopolitano I (maggio-luglio 381), che consacrò la fede nicena, arricchita dal contributo di Basilio e dei Cappadoci.

3.2 Il linguaggio di ousía e hypóstasis e l’intenzionalità della fede

Giunti a questo punto possiamo raccogliere il senso della controversia ariana, nella sua parabola che va da Nicea a Costantinopoli. Eusebio di Vercelli fu, se non protagonista, certo pioniere della diffusione del Simbolo niceno nella sua prima fase. Durante il ritorno dall’esilio (362-363), Eusebio si diede a rafforzare gli aderenti alla parte nicena nel suo lungo viaggio via terra e poi si concentrò sull’esperienza del cenobio vercellese, vera fucina di uomini ecclesiastici. La terza citazione della Lettera 14 di Ambrogio dà una singolare interpretazione della scelta pastorale di Eusebio, che cerca una sintesi tra la vita cenobitica e il ministero pastorale dei presbiteri: «Dunque la vita dei chierici si svolge nello stadio, quella dei monaci in una grotta; l’una contro il disordine del mondo; l’altra fuggendo i piaceri del corpo; l’una più gratificante, l’altra più sicura; l’una sa governare se stessa, l’altra imporre a se stessa delle restrizioni: entrambe, tuttavia, sanno rinnegare se stesse per diventare di Cristo». Senza forzare troppo il senso inteso da Ambrogio, mi pare di poter dire che il cenobio eusebiano sia una sintesi di Occidente e Oriente e di sentimento niceno che afferma l’unità divina del Padre e del Figlio e dello Spirito nella comunione trinitaria delle persone: dimensione verticale dell’unicità di Dio e dimensione comunionale della Trinità divina. Il “monastero nella città” di Eusebio ne propone una sintesi ardua e non sappiano con quanta efficacia si sia poi realizzata. In ogni caso sembra evidente il tentativo di sintesi tra Occidente e Oriente, perché nel primo Eusebio la sua opera si alimentava alla sua radice romana, mentre nel secondo veniva maturando la sua sintesi sofferta durante la persecuzione dell’esilio!

In effetti, se confrontiamo il punto di partenza dell’homoousía di Nicea col punto di arrivo della triunità di Costantinopoli, il senso della controversia può essere indicato nella dialettica tra i termini di ousía e hypóstasis, che passano dall’equivalenza nicena alla differenza constantinopolitana (cfr sintesi aggiornata in Mi, 366-370). Se il merito dei primi vescovi fedeli a Nicea fu la fedeltà all’homooúsios dei 318 Padri, per riportare totalmente Cristo “dalla parte di Dio”, sconfiggendo il subordinazionismo con cui Ario interpretava il sentimento occidentale dell’unità divina con lo strumento concettuale monarchiano dell’una substantia Dei (Tertulliano), il merito dei vescovi orientali (salvo la sede di Alessandria), pur continuamente minacciati di simpatizzare col subordinazionismo, in tutte le sue diverse versioni, eusebiane, omeousiane, ecc., fu di integrare la ricchezza della tripersonalità di Dio (del Figlio e dello Spirito), anche se all’interno dell’unità garantita dal Padre ingenerato. Al termine della crisi ariana del IV secolo, ai primi fu possibile accettare la distinzione di ousía e hypóstasis per accedere alla formula basiliana “mía ousía, treîs hypostáseis”, perché hypóstasis fu identificato con prósopon, principio di individuazione; mentre ai secondi fu praticabile l’homooúsios, quando fu liberato da ogni deriva sabelliana, dal momento che hypóstasis, identificata con ousía, non lasciava spazio alla ricchezza della vita intratrinitaria e all’economia delle missioni salvifiche del Figlio e dello Spirito. Con formula sapiente Simonetti conclude: «In N [Nicea] tale contesto ci è parso di impostazione asiatica o, se si vuole occidentale, nel porre l’accento massimo sull’unità di Dio (una ousía = una ipostasi) e al minimo sulla distinzione delle persone. Invece gli omeousiani insistettero al massimo sulla distinzione (tre ipostasi = tre ousie) e molto meno sull’unità» (S1, 542). Ambedue i fronti professano in pratica la sovrapposizione di ousía e hypóstasis. La formula di conciliazione di Basilio concepisce l’essenza divina (ousía) in termini concreti e reali, che però si articola in tre ipostasi che individuano la differenza di Padre, Figlio e Spirito. In tal modo se l’integrazione di Basilio costituisce l’antidoto alla possibile deriva monarchiana dei niceni, allo stesso modo la tenace difesa dell’homoousía di questi ultimi fornisce un antidoto altrettanto sicuro alla possibile deriva subordinazionista dei trinitari, in tutte le varianti che abbiamo visto pullulare nel mondo orientale.

Se la formula nicena, modificata da Basilio, custodisce l’intenzionalità della fede, resta nondimeno da ponderare lo strumento concettuale che entra in gioco. In fondo sia Occidente che Oriente condividono la stessa cornice ellenistica dell’ontologia del rapporto tra Dio e il mondo, connotata in termini cosmologici. L’unità della natura divina (ousía) è identificata con l’arché (Principio) del Padre ingenerato, con due possibili esiti devianti: quello subordinazionista, nelle sue infinite varianti orientali filoariane, resistenti ad ogni assorbimento nel Principio; o quello monarchiano, che poteva regredire alla figura sabelliana, la quale riduceva le tre persone a tre modi, potenze o denominazioni salvifiche dell’unico e medesimo essere divino. I primi (triunitari) erano sensibili alla ricchezza dell’economia del Figlio e dello Spirito; gli altri (unitrinitari) attenti all’unità del mistero unico di Dio: entrambi però nella cornice di pensiero che iscriveva l’evento della rivelazione e il donarsi di Dio agli uomini nel rapporto tra l’Uno immutabile e il mondo molteplice. La cornice di pensiero ellenistica entrava qui nel punto massima di “crisi ontologica”: perché se si faceva valere l’immutabilità di Dio (il Padre), il Figlio e lo Spirito (potevano essere) ridotti a manifestazioni (storiche) dell’unità/unicità del Principio; se, invece, si faceva valere il molteplice e il mutevole del mondo (la storia della salvezza), il Figlio e lo Spirito (potevano essere) subordinati o derivati di secondo ordine dal Padre, il Principio ingenerato. In ambedue i casi il Principio era pensato come l’Uno immutabile e immobile sul calco del mondo concepito in termini cosmologici; mentre il mondo era percepito come molteplice e mutevole sul fondamento dell’Essere, stabile e consistente, pensato sul calco di un’ontologia meta-fisica.

La cornice di pensiero greca faticava a pensare la storicità dell’Essere e la temporalità del mondo: la riflessione cristiana (e le sue formulazioni corrispondenti), pur non potendo pensare Dio e percepire il mondo se non all’interno di questa cornice, l’ha sottoposta al suo punto di massima revisione, riscrivendo profondamente lo schema ontologico di partenza. Ha introdotto il pensiero dell’unità rigorosa dell’arché (mía ousía) riplasmandolo con la differenza comunionale dalle persone (treîs hypostáseis), e si è lasciato educare dalla missione salvifica del Padre che invia il Figlio e lo Spirito per ripensare la pericoresi trinitaria come la comunione del Dio Agápe, in modo tale da immaginare l’unità di Dio non a spese della differenza, ma attraverso la differenza delle Persone. L’intenzionalità della fede ha tenuto ferma questa direzione, pur oscillando talvolta nelle formulazioni e facendo forza persino al linguaggio della cultura ellenistica. Così la distinzione di ousía (una) e di hypóstasis o prósopon (trine) assicurava un assestamento dei linguaggi, con una determinazione linguistica che poteva sembrare dirompente ad un orecchio greco, ma che produceva una conversione della mente e un invito a mettere lo strumento concettuale a servizio della fede e non viceversa. La posta in gioco è che quella distinzione servisse a far esperienza del fatto che il Dio incontrato nell’economia delle missioni (del Figlio e dello Spirito) fosse la comunicazione di Dio nell’immanenza delle relazioni, cioè di Dio così com’è in se stesso. Se lo strumento concettuale era angusto e rigido rispetto alla ricchezza della donazione trinitaria, l’intenzione della fede doveva/poteva avere la meglio sulla concettualità a disposizione, fosse pure quella di un pensiero di forte caratura ontologica.

La vigilanza circa il senso della fede che la battaglia antiariana ha mantenuto lungo quasi un secolo (e oltre), forse non ha saputo controllare tutti i punti di fuga. Due ne segnalo in particolare. Il primo: proprio perché la funzione mediatrice del Logos nella creazione, letta con lo strumento cosmologico, correva il rischio del subordinazionismo, confessare che il Verbo incarnato sta “dalla parte di Dio” (homooúsion to Patrí) ha spinto ad allentare il rapporto tra Cristo e la creazione, ricuperando la sua mediazione in termini prevalentemente amartiocentrici, cioè in rapporto al peccato, e faticando ad indicare il senso di Cristo per il mondo e l’uomo, prima e oltre il suo peccato. Per non intendere Cristo come “intermediario” cosmico (il demiurgo) si è persa (non sempre allo stesso modo) la dottrina della creazione in Cristo. Il secondo forse è stato il punto di fuga più insidioso, perché ha irrigidito ancora di più la diversità tra Oriente e Occidente: mentre in Oriente l’unità di natura è stata pensata a partire dalla trinità delle persone e quindi a partire dalla taxis trinitaria (triunità), perché l’unità risale al Padre, ma col pericolo di non sapere indicare il rapporto tra Cristo e lo Spirito (la questione del Filioque), in Occidente l’unità era pensata come unicità della sostanza e differenza delle persone (unitrinità), faticando a collegare i due piani dell’unità e della trinità, col duplice esito di pensare l’unità di Dio a monte della Trinità (il de Deo uno prima del de Deo trino) e concettualizzare la Trinità secondo l’analogia psicologica (Agostino), più che relazionale.

Il superamento della cornice greca, che il pensiero teologico del Novecento ha propiziato a favore del confronto con la fede biblica, anch’essa influenzata dalla cultura semitica, pur con contaminazioni ellenistiche, ha consentito di superare la contrapposizione ermeneutica di ellenizzazione-deellenizzazione (cfr. S3 e Ma, 115-118) per definire il cristianesimo patristico, che poneva in capo l’una solo all’eresia e l’altra solo all’ortodossia. In realtà, bisogna rileggere ogni epoca storica della fede nel suo incontro-scontro con la cultura, che ne disegna il ventaglio delle posizioni estreme o mediane, come ha mostrato oltre ogni dubbio la nostra sintetica ricostruzione. La storia della fede e delle dottrine dev’essere cosciente che ogni processo di inculturazione, anzitutto non è un processo ingenuo e semplicistico di adattamento a un rivestimento culturale che le rimarrebbe estrinseco, come un vestito sul corpo che si può mettere e dismettere, ma è un processo intricato e complesso che comporta un guadagno per la fede, ma anche un’inevitabile perdita. Il guadagno nel rapporto con l’ellenismo fu quello di un confronto con la dimensione ontologica della realtà, con la sua tendenza alla precisione concettuale e all’interazione profonda tra ragione e fede (di carattere “provvidenziale” secondo J. Ratzinger); la perdita fu la difficoltà a rendere ragione della storia e della libertà dell’umanità, non solo come luogo dell’irriducibilità del molteplice e dell’irrazionalità del mutevole, ma soprattutto con la tendenza ad intendere la storia come degradazione dallo stato originario e l’umano come segnato dalla corruzione e dal peccato, radicalmente bisognosa di salvezza (nel dualismo manicheo o nel rigorismo donatista). Praticare con lucida simpatia la storia della grande battaglia per la fede ortodossa significa discernere come la fede non ha paura di misurarsi con la cultura e la cultura ha sempre da imparare dalla fede.

Soprattutto comporta di ritornare sempre da capo alle fresche sorgenti del linguaggio biblico e della cultura semitica, l’uno e l’altra non separabili, con il forte senso della storia che li attraversa, con al centro il pensiero dell’alleanza e dunque delle relazioni tra Dio e l’umanità. Al Dio, la cui unità si dà nella relazione tra le Persone divine, corrisponde un’alleanza d’amore tra gli uomini che deve riflettersi nella comunione in Cristo e che deve continuamente alimentarsi alla sorgente di grazia che proviene dalla storia di Gesù e dall’azione dello Spirito. In ogni epoca della storia sotto la guida del medesimo Spirito!

+ Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara


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