Sabato 10 giugno in cattedrale mons. Franco Giulio Brambilla ha ordinato cinque nuovi presbiteri: don Giacomo, don Gianluca, don Alessandro, don Daniel e don Gabriele. Di seguito il testo integrale della sua omelia.
Il bel pastore
Omelia per le Ordinazioni presbiterali
Carissimi ordinandi,
don Giacomo, don Gianluca, don Alessandro, don Daniel e don Gabriele,
carissimi genitori, cari sacerdoti e voi tutti che siete qui presenti,
prima di commentare il Vangelo consentitemi di dare un annuncio: il prossimo anno ho intenzione di fare il giro della diocesi ascoltando tutti i sacerdoti secondo la formula, come si usa dire oggi, del “sinodo dei sacerdoti”. Non ci saranno particolari incontri, liturgie solenni, ma una visita che abbia la forma dell’incontro fraterno. Sarà ispirata da alcuni testi di riferimento: penso basti l’omelia dell’ultimo giovedì santo e il testo che ho inviato ieri a tutti i sacerdoti sulla vita quotidiana del prete. L’omelia del giovedì santo, incentrata sul “roveto ardente” del prete in riferimento alla Messa come convito e sacrificio, e il testo inviato ieri su “la vita quotidiana del prete”, sono come le due facce di una medaglia per un ministero armonico, spiritualmente intenso e umanamente felice.
Il bel pastore
Omelia per le Ordinazioni presbiterali
11-06-2022
Download PDF
Dato questo annuncio vorrei che le mie parole fossero d’incoraggiamento per l’inizio del vostro ministero presbiterale. Forse potrebbe essere l’ultima volta che abbiamo così tanti eletti al presbiterato e per questo preghiamo intensamente il Signore perché non lasci mancare vocazioni alla sua Chiesa. Oggi la nostra cattedrale ha una significativa presenza di giovani e ragazzi e magari qualcuno di loro può essere toccato da una felice intuizione vocazionale.
Mi piace commentare il Vangelo che voi ordinandi avete scelto (Gv 10, 11-18), partendo dalle espressioni con cui Gesù si autodefinisce. È interessante il fatto che nel vangelo di Giovanni, Gesù offra molte definizioni di sé:
«Io sono il pane della vita». (Gv 6,48.51)
«Io sono la luce del mondo». (Gv 8,12.9,5)
«Io sono la porta delle pecore». (Gv 10,7.9)
«Io sono il buon pastore». (Gv 10,10.14)
«Io sono la risurrezione e la vita». (Gv 11,25)
«Io sono la via, la verità e la vita». (Gv 14,6)
«Io sono la vite vera». (Gv 15,1.5)
Fino all’autodefinizione di fronte a Pilato:
«Tu lo dici: Io sono re». (Gv 18,37)
Nel testo di oggi, come abbiamo ascoltato, Gesù si definisce “il buon pastore”. Ma se si va al testo originale si trova la sorpresa per cui la nostra traduzione di “buon pastore” è solo una di quelle possibili, poiché il testo greco dice in realtà:
Ἐγώ εἰμι ὁ ποιμὴν ὁ καλός (Gv 10,11)
Egò eimì o poimèn o kalòs
Io sono il pastore, quello bello.
Notiamo innanzitutto il doppio articolo: “Io sono il pastore – non dice buono, ma quello bello/ὁ καλός”! Probabilmente questa definizione ha come background semantico l’espressione ebraica טוב/tob, con cui nella Sacra Scrittura si dice, ad esempio, della creazione: “Dio vide che era cosa molto buona” (cfr. Gn 1,4-31) con un’espressione che intende sia buono che bello, la bellezza estetica e la bontà etica, così come è descritto anche il frutto del giardino (“bello a vedersi e buono a gustarsi”: Gn 3,6). Quindi il pastore non ha da essere solo buono, ma deve essere anche bello.
Farò allora una breve sottolineatura degli aspetti contenuti in questo aggettivo, declinandolo così: il pastore bello, il pastore buono e il pastore dedito.
1. Il pastore bello
Il senso di bello nella Sacra Scrittura, che si ritrova anche nel Nuovo Testamento, porta in sé l’idea di splendore, di realtà attraente. Per esprimerlo con una parola moderna si dovrebbe dire seducente! È difficile oggi che la nostra vocazione presbiterale sia seducente. Un tempo c’erano frotte di giovani che si accostavano al seminario, perché il prete aveva un ruolo riconosciuto nella società. Invece, come scrivo nell’articolo inviato ieri, la figura del prete nella città, se non scomparsa, è però difficile da rintracciare e soprattutto da riconoscere. Nei paesi di media e piccola dimensione il prete è ancora un punto di riferimento, ma tra molti altri, non certamente tra i più importanti.
Eppure ancor oggi il prete può far apparire il carattere “seducente” del suo ministero. L’aggettivo indica “colui è capace di condurre dietro di sé” – dal latino: secum ducere –. La parola seducente significa che il nostro essere presenti in mezzo alla gente, il nostro volere bene alle persone, il nostro amarle, deve essere qualcosa che si trasforma in un incontro personale. Non si può essere seducenti se non si è presenti, se non si è capaci di stare vicino alla vita, alla storia e alle fatiche delle persone. Tale aspetto è per così dire la prima caratteristica, quella che appare e che sta in vetrina. Nelle stagioni della vita di un prete, all’inizio si può essere seducenti e talvolta persino travolgenti, ma, se osservate i vostri confratelli convenuti oggi per l’ordinazione nei cui volti si scorge qualche primavera in più, questo primo aspetto inizia ad appannarsi.
Tuttavia l’essere seducente del prete porta con sé le sue difficoltà, perché a lungo andare si può diventare seduttivi e persino seduttori. Insisto molto, personalmente, nel distinguere chiaramente l’essere seducenti – un prete deve saper attrarre – e l’essere seduttivi, che vuol dire legare a sé, senza liberare l’altro, senza dargli la giusta autonomia. In un gruppo di adolescenti, bisogna essere seducenti e persino un poco seduttivi; ma poi un giovane, un diciottenne o un ventenne, deve cominciare a stare in piedi da solo. Deve avere una sua vita umana e spirituale che è autonoma, che ha interiorizzato la sua guida! Altrimenti si corre il rischio di legarlo a sé, e, quando noi partiamo – poiché nella vita si parte sempre, e anche chi rimane per molti anni non è comunque eterno –, accade che un nostro giovane faccia fatica a sentire la vita cristiana come significativa, perché si è identificata con una persona sola.
Non dimentichiamo che il pastore bello è prima di tutto Gesù: Io sono il buon pastore! Poi ci sono i casi anche drammatici di relazioni malate o distorte, che generano persino abusi, e che riguardano i pastori seduttori, come ci sono maestri, professori, istruttori, allenatori, cioè tutti coloro che hanno un compito educativo, che devono tenere ben vivo il limite per non sconfinare e diventare seduttori! Ecco, allora, la definizione del pastore seducente – Ἐγώ εἰμι ὁ ποιμὴν ὁ καλός/Io sono il bel pastore – ci comunica una cosa bellissima, che io vi auguro di cuore, ma che vi mette anche in guardia, poiché ogni realtà buona può nascondere anche un’insidia. Il Vangelo, infatti, parla del mercenario che non è pastore, di cui si dice:
«Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge». (Gv 10,12)
Egli è semplicemente seduttivo, non mette al centro nient’altro che il proprio io, esposto in vetrina, e di cui tutti gli altri devono essere un po’ adoratori.
- Il pastore buono
Il secondo aspetto, quello più importante e che non sta in vetrina, ma, per così dire, si trova in magazzino, è rappresentato dall’altra sfumatura: “Io sono il pastore buono”. Potremmo dire che, se il primo aspetto sottolinea che il pastore è seducente, il secondo delinea come il pastore debba essere “nutriente”, vale a dire che ha il compito nutrire la vita delle persone. Per nutrire gli altri, deve nutrire prima di tutto se stesso, e di questo troverete ampia descrizione nel contributo che ho inviato ieri.
Ora intendo sottolineare come il pastore deve nutrire la vita delle persone: ha la missione di presentare, cioè, un tipo di fede, di umanità, di cristianesimo, di vita sacramentale, di annuncio della Parola, capace di essere nutriente. Abbiamo un dato indubitabile: molta gente oggi frequenta gruppi esoterici, dove si adottano magari gesti stravaganti, almeno se osservati dall’esterno, alla ricerca di una fantomatica spiritualità, mentre le nostre parrocchie faticano a diventare luoghi di nutrimento spirituale e di consolazione, anzi di crescita umana. Nutriente significa, infatti, che fa crescere: il popolo di Dio vi sarà grato per questo aspetto. Il bambino riconosce subito la madre che lo nutre e sa che da lei avrà sempre lo sguardo, il gesto, la vicinanza e anche i mezzi pratici per nutrirsi e crescere; sa, altresì, che dal padre avrà sempre la sua presenza che gli insegna non solo il mestiere per campare, ma anche il mestiere per vivere. Sono questi i due “mestieri” fondamentali che il padre trasmette, l’uno per campare e l’altro per vivere, che tutti i grandi poeti e romanzieri hanno sempre raccontato.
Ecco dunque il pastore nutriente deve essere davvero così. E per fare ciò, è chiaro che non si può vivere sempre nella prospettiva del “dare”. Occorre anche potersi alimentare, nutrire anche noi stessi. Preparare l’omelia all’inizio della settimana in modo tale che quella della domenica diventi un’omelia sapida, non semplicemente una cosa scritta oppure un po’ improvvisata. Siate pastori nutrienti e si potrebbero fare molti altri esempi… soprattutto a proposito della vicinanza alle persone dopo questi due anni di chiusura, di ansia, di paura e persino di rabbia. Mi ha molto colpito il fatto che i medici siano state le persone più in crisi del terzo lockdown, perché si sono dovuti confrontare con i malati contagiati che non volevano neppure farsi curare.
- Il pastore dedito
E, infine, il terzo e ultimo aspetto ci presenta il pastore “dedito”. Colpisce l’ultima parte del Vangelo che dice:
«Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo». (Gv 10,17-18)
Probabilmente noi ci saremmo aspettati solo la prima metà delle affermazioni di Gesù – “io do la mia vita… io la do da me stesso… nessuno me la toglie” – così si esprime in modo rigoroso anche il latino di questo testo: “quia ego pono animam meam… sed ego pono eam a me ipso”. Il pastore pone la sua vita, la dà consapevolmente. E per donarla consapevolmente non può lasciarsela sequestrare. Ci sono sacerdoti infilati dentro alcune famiglie, che diventano quasi un soprammobile della loro casa; ci sono sacerdoti che si sono messi dentro storie inimmaginabili, ma questo si vede subito, sin dall’inizio.
Il pastore dedito è un pastore “appassionato”. Se il primo aspetto lo definisce seducente, quest’ultimo lo fa vedere appassionato. Vi esprimo il mio pensiero con un linguaggio molto semplice: siate appassionati dei giovani, anche se due di voi, più avanti negli anni, diventeranno parroci nel breve volgere di anni, tuttavia per essere un buon prete, e domani un buon parroco, bisogna avere dentro l’amore per i giovani. Ciò significa l’amore per la gente che cresce, l’amore per il futuro, l’amore per il domani. Amate i vostri giovani, state loro vicini, perdete tanto tempo per loro, perché non sarà tempo perso.
E poi amate le famiglie. La famiglia rappresenta il tratto di umanità dentro la Chiesa. È persino sorprendente che si debba spiegare questa cosa. Se la Chiesa è fatta solo di individui è un arcipelago, cioè un insieme di isole. Se la Chiesa è fatta di famiglie è invece una rete connessa. Amate la famiglia senza infeudarsi in nessuna di esse, perché voi devete rimanere preti!
Amate anche le persone che sono nella sofferenza. Oggi è di moda parlare dei poveri e in Italia abbiamo certamente ancora molti poveri materiali, ma chi ha l’occhio profondo per vedere, in giro scorge tanti poveri spirituali. Gente che si toglie o butta via la vita anche nel mondo giovanile, gente che si infila in una dipendenza, anche il bullismo è un grande segno di disagio sociale. Di persone che non si sentono protette, accolte, amate, stimate… Amate i poveri, qualunque essi siano! Non guardate solo se hanno fame, guardate anche se mancano del necessario per vivere.
Sono questi gli amori di un prete appassionato: i giovani, le famiglie e i poveri, soprattutto di spirito. È quanto vi auguro di cuore, prima di invocare l’abbondanza del dono dello Spirito Santo su ciascuno di voi!!!
+Franco Giulio Brambilla
Vescovi di Novara