La fraternità sacerdotale dedicata alla figura di don Giuseppe Rossi

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La Giornata di Fraternità Sacerdotale 2024, tradizionale incontro per il clero diocesano, è stata dedicata alla figura del martire don Giuseppe Rossi. Di seguito il testo integrale dell’intervento di don Marco Canali, delegato vescovile per la causa di beatificazione.

QUI LA SEZIONE DEDICATA ALLA BEATIFICAZIONE

 

 

Il duplice martirio di don Giuseppe Rossi

Intervento alla giornata di fraternità sacerdotale 2024

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In questo mio intervento, intitolato Il duplice martirio di don Giuseppe Rossi, vorrei rispondere alla domanda sul “perché” don Giuseppe Rossi sia ancora oggi un modello imitabile per noi presbiteri nella sua duplice testimonianza martiriale.

Il martirio

Duplice testimonianza, anzitutto, perché il termine greco martire ha questa doppia valenza semantica.

Si è testimoni/martiri, anzitutto, perché disposti a pagare nell’ordinario della vita quotidiana il proprio “essere di Cristo”; poi, lo si può diventare perché la propria testimonianza, preparata nel quotidiano giunge, quando le circostanze lo richiedono, a donare la vita fino all’effusione del sangue per suffragare di fronte a terzi la propria identità cristiana.

Don Rossi le ha vissute entrambe.

La prima, silenziosa ma generativa, nel corso della sua vita ministeriale a Castiglione; la seconda, in una fredda notte invernale, feconda nei suoi esiti nella prova suprema del dono della sua esistenza in quel 26 febbraio 1945, che oggi lo porta alla beatificazione.

Per noi, preti del XXI secolo, mi sembra però più importante soffermarci sulla prima forma di martirio che ha vissuto don Rossi perché in essa troviamo molti punti di contatto che sperimentiamo anche noi direttamente “sulla nostra pelle”.

È questa a mio parere la forma martiriale più importante che don Giuseppe ha vissuto. Studiandone a fondo la sua figura in questi venticinque anni, ho compreso dai suoi scritti personali e dalle testimonianze raccolte che egli ha saputo rendere progressivamente e con non poca fatica su se medesimo le vicende “ordinarie” del suo essere parroco “straordinarie”, aderendo lui per primo al Vangelo sine glossa, proclamandolo “con” e nella “sua” esistenza ad una comunità che ai suoi occhi gli appariva superficiale e distaccata dalle proposte radicali che egli proponeva. Infatti, ogni epoca ha le sue resistenze al Vangelo, come quelle che viviamo noi oggi.

In questi anni celebrandone la ricorrenza ho continuamente detto questo adagio: don Rossi «non è santo perché martire ma è martire perché è santo». La sua testimonianza cruenta non ci sarebbe stata o, al massimo, sarebbe passata come uno dei tanti omicidi efferati avvenuti in tempo di guerra, se non fosse stata preparata da una vita di piena adesione al Vangelo.

Vorrei dunque mostrarvelo brevemente.

Il resto lo potete leggere comodamente nella biografia ufficiale e nell’antologia che raccoglie i suoi scritti. Soprattutto quest’ultima, perché dai suoi testi non destinati ad alcuna pubblicazione, ma totalmente personali emerge una personalità volitiva e determinata, trasparente e serena, umile e rispettosa, schiva e di poche parole, assai riservata e posata, ma non per questo suo tratto caratteriale chiuso o alieno dai rapporti interpersonali. Non un “orso”, dunque, passi il termine, ma al contrario un uomo capace di manifestare apertamente e senza alcuna sbavatura “fuori dalle righe” la ricchezza interiore e l’intelligenza vivace, l’amore per la poesia e per la letteratura, la passione per il teatro e per la pittura, la curiosità sapiente per la scienza e l’ammirazione per la natura, la preparazione teologica non comune e il suo continuo informarsi – radio accesa ogni giorno e periodici dell’Università cattolica alla lettura costante -, il suo grande cuore aperto e sensibile alle gioie e i dolori che caratterizzano l’umanità che lo circonda. Insomma una personalità ricca e una poliedrica umanità non ristretta “tra le mura della chiesa” ma aperta al mondo contemporaneo in tutte le sue sfaccettature.

Il primo martirio

Il modello di prete incarnato da don Rossi

Parto, anzitutto, dalla cornice, costituita dal modello di prete, incarnato da don Rossi e propostogli dal vescovo Giuseppe Castelli il giorno dell’ordinazione il 29 giugno 1937. È racchiuso in questo binomio: Sacerdos Alter Christus e Sacerdos et Hostia, che sottende, però, in filigrana nella sua proposta l’icona evangelica del Buon Pastore, che dona la vita, proposta dal vangelo secondo Giovanni al capitolo decimo.

Sacerdos Alter Christus e Sacerdos et Hostia è la tipica concezione tridentina del sacerdote che intende il proprio ministero partendo da Cristo: da lui riceve la vocazione che investe tutta la sua vita e da lui gli proviene il conferimento del compito mediante l’ordinazione. Egli si considera come alter Christus, cioè come il Cristo nell’“oggi” in quanto ne assume il posto e lo rappresenta nella sua comunità. Ma nello stesso tempo è anche Hostia, vittima per il sacrificio ossia il prete con la sua vita e la sua azione sacerdotale deve rimandare a Colui che rende Dio visibile ed efficace tra gli uomini, al quale deve quotidianamente immolarsi a costo, se necessario, anche della propria vita. Si riassume bene, come ho poc’anzi detto, nell’immagine del Buon Pastore (Gv 10): conosce i suoi, se ne prende cura, cerca per loro i pascoli buoni e fertili, va incontro alle pecorelle smarrite e dà la vita per loro.

È, del resto, quanto afferma nel nostro tempo l’esortazione post sinodale Pastores Dabo Vobis al numero 5, dove san Giovanni Paolo II scrive:

«C’è una fisionomia essenziale del sacerdote che non muta: il sacerdote di domani infatti, non meno di quello di oggi, dovrà assomigliare a Cristo».[1]

E aggiunge al numero 15 della medesima esortazione l’identità, ripresa integralmente poi nel Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri, edito dalla Congregazione per il Clero del 2013:

«I presbiteri sono, nella Chiesa e per la Chiesa, una ripresentazione sacramentale di Gesù Cristo Capo e Pastore, ne proclamano autorevolmente la parola, ne ripetono i gesti di perdono e di offerta della salvezza, soprattutto col Battesimo, la Penitenza e l’Eucaristia, ne esercitano l’amorevole sollecitudine, fino al dono totale di sé per il gregge, che raccolgono nell’unità e conducono al Padre per mezzo di Cristo nello Spirito».[2]

Tutto ciò è evidente nel caso di don Rossi. Nel suo diario personale che – lo ripeto – non era destinato alla pubblicazione, ma assolutamente riservato e, dunque, libero da qualsiasi censura autoimpostasi, don Rossi scrive a questo proposito:

«In queste pagine, Oasi ricreative dello spirito, stanco di ‘negare <annegare> nella calma desertica della vita, studio un modello <Cristo>, che è la verità personificata. Mi sforzo di ritrarlo nei vari momenti della sua vita, con la passione di chi aspira alle gioie pure dello spirito. Un modello, che va avvicinato con umiltà: se no si guasta, si falsifica; con amore, se no svanisce in una vaporosità che confonde le linee della figura. Ho questo intimo desiderio di capire il Cristo nella storia e nella vita perché riempie di sé il passato e il presente: solo dei poveri “pigmei” fingono di ignorare la sua presenza nel tempo. Chi cerca la verità con animo sincero, con buona volontà, deve arrivare al Cristo, la Verità. Anzi dirò: perché Cristo è vivo di una vita senza fine e feconda nella sua beatitudine, <per>ché egli sente i gemiti di chi soffre la sete, la voce di chi invoca la luce: si fa incontro all’anima per donarsi, saziandone le intime aspirazioni. Mi pare che il Cristo come verità luminosa debba essere una conquista, raggiunta tra intimi travagli, meritata dopo ansiose ricerche dentro di noi».[3]

Mi sembra che queste parole restituiscano bene la fisionomia di quale prete voglia essere don Giuseppe. Egli lo raggiunge, come egli scrive, «tra intimi travagli» di paolina memoria alla piena conformazione a Cristo (Gal 2, 20), che diventano in don Rossi la costante positiva del suo vivere e pensare sacerdotali. Don Rossi lo mette in pratica, evidenziandolo nelle parole da lui scelte e prese dall’apostolo Paolo, scritte sull’immaginetta distribuita durante la prima messa «darò tutto quello che ho, anzi tutto me stesso per le vostre anime» (2Cor12,15), sottoscritta con l’invocazione «adveniat Regnum tuum», venga il tuo regno, Signore! In questa cornice e in questo quadro svolge il suo ministero pastorale.

Se ciò rimane valido anche per noi preti del XXI secolo, tuttavia non è sufficiente per esercitare il ministero pastorale, come don Rossi sperimenterà negli anni a Castiglione.

Il modello di parroco incarnato da don Rossi

Vorrei ancora citare ancora lo stesso numero 5 della Pastores Dabo Vobis:

«Certamente la vita e il ministero del sacerdote devono anche adattarsi a ogni epoca e ad ogni ambiente di vita… Da parte nostra dobbiamo perciò cercare di aprirci, per quanto possibile, alla superiore illuminazione dello Spirito Santo, per scoprire gli orientamenti della società contemporanea, riconoscere i bisogni spirituali più profondi, determinare i compiti concreti più importanti, i metodi pastorali da adottare, e così rispondere in modo adeguato alle attese umane».

A questo proposito, uno storico di chiara fama, Francesco Traniello, nel discutere il tema dei rapporti tra clero e Resistenza, osserva che, guardando in profondità, è ben percepibile una metamorfosi del modello di prete come alter Christus durante il secondo conflitto mondiale: non più o non più solo fondato sul deposito di una sacralità di ordine e di funzione, ma incarnato nel servizio, sino all’estremo sacrificio alla comunità dei credenti ma anche dei non credenti.[4]

Ciò è evidente nel ministero pastorale di don Giuseppe a Castiglione dove lui passa dall’iniziale «conquista delle anime», come egli scrive, alla più sofferta e sudata fatica di «camminare “con” e “per” il suo gregge» senza derogare in nulla dal suo mandato. Lo esprimo con una metafora. Se il suo posto rimane quello “dell’altare”, di fronte “al muro di impermeabilità” che lo circonda a fronte dell’annuncio evangelico, don Rossi non si rifugia mai “in sacrestia” né in un mondo etereo e disincarnato, che lo avrebbe fatto solo “uomo del sacro”, ma come Buon Pastore si fa prossimo del suo gregge senza derogare in nulla dal suo essere prete. Egli fa suo inconsapevolmente il detto agostiniano «Vobis sum episcopus, vobiscum sum christianus», per voi sono vescovo, ma con voi sono cristiano, declinato su se stesso: «per voi sono prete, ma con voi sono cristiano».[5]

Questo è il quadro che oggi definiamo della “carità pastorale” e restituisce bene le fatiche del suo primo martirio. Questo lo rende attuale anche per noi che viviamo in un tempo storico diverso, ma non meno segnato da impermeabilità all’annuncio evangelico.

Don Giuseppe passa così a Castiglione dall’entusiasmo tipicamente giovanile di chi vuole “tutto e subito” del primo tempo, «la conquista delle anime» o del «per voi sono prete», e matura progressivamente quella comprensione paterna propria del parroco, mediante l’esperienza pastorale degli anni che seguono, comprendendo che anche il prete dovrà mettersi al passo con la sua gente per camminare alla scuola di Cristo: è il suo «con voi sono cristiano».

Vi offro solo due pagine, scritte da lui a distanza di cinque anni che lo rivelano bene. Il primo è scritto a cinque mesi esatti dall’ingresso a Castiglione, nel 1939:

«Dopo cinque mesi di vita parrocchiale sento come un bisogno di una sintesi: quale risultato del mio lavoro? Nullo o quasi. Non vedo alcun frutto. Isolato col dolore che mi penetra nelle ossa, non trovo un metodo di conquista. Una roccia impenetrabile mi sta di fronte: un popolo senza desiderio di bene, di sacrificio, di eroismo. Mi pare di battere invano col furore dei miei giovani anni, di sprecare le migliori energie in un lavoro vano. Dopo questa amara constatazione non getto le armi perché non dispero ancora del tutto. Sopra il mio capo, sull’agitarsi di passioni umane veglia un Essere che tutto può. Mi getto disperatamente tra le braccia di Gesù di cui devo seguirne le orme verso la croce, il Calvario. Si scatenano le bufere umane che tutto paiono travolgere: con Dio sono oltre la grigia nuvolaglia delle passioni, nell’atmosfera serena dell’azzurro infinito, nella pace divina. Allora soffro con gioia perché unito al mio Dio sulla croce. Così io rivivo alla nuova vita che è nella morte del corpo. Comprendo le eroiche pazzie dei santi nel cercare la croce, la sofferenza: erano anime assetate di vita, quella vita sgorgata dal sangue versato sul Golgota che è lavacro di tutte le colpe, che è un farmaco di tutte le ferite».[6]

Fa sorridere un poco rileggere questo testo, ma è di una squisita limpidezza e di una santa ingenuità senza censure. Don Giuseppe ha solo 25 anni ed è da soli cinque mesi pastore di una piccola comunità. È un giovane e trepidante prete alle “prime armi”; attende con impazienza dai suoi parrocchiani i primi frutti del suo operato pastorale in una realtà per lui nuova, nella quale anche i suoi parrocchiani hanno bisogno di tempo per conoscerlo: è naturale che ci sia diffidenza da parte loro. Soprattutto la gente di Castiglione è piuttosto restia e anche un po’ prevenuta all’inizio nei suoi confronti, perché ricorda ancora la faticosa esperienza fatta con l’immediato predecessore di don Rossi, come riferisce don Angelo Luigi Stoppa, il primo biografo di don Rossi, ragione per la quale i parrocchiani temono di dover ripetere anche col nuovo parroco la stessa esperienza.

Capita così anche a noi quando entriamo in una parrocchia nuova per noi: forti dell’entusiasmo del “dopo seminario” e delle impressioni della prima messa, impariamo, nel corso del tempo e attraverso il martirio paziente della vita quotidiana e l’assunzione progressiva delle responsabilità del ministero a plasmarci nel carattere e a conformarsi nello spirito al Buon Pastore, che segue virilmente il suo gregge e lo custodisce, difendendolo dai lupi rapaci, e, poco alla volta, va in cerca delle pecorelle perdute, cogliendo però il momento e il metodo giusto per intervenire.

Ed ecco la seconda pagina di don Rossi, scritta nel 1943:

«Fui chiamato per vocazione ad essere apostolo della fede: come tale devo avvicinare le anime. Compito difficile e arduo. Il terreno spirituale si presenta molto accidentato, per la varietà dei caratteri che non si possono trattare con un solo identico metodo. Tante teste, tanti modi di agire e pensare: una norma elementare da tenersi presente. L’apostolo poi nella sua azione caritativa, pur a costo di gravi rinunce, non riesce sempre a modificare la sua natura in una forma che presenti meno attriti».[7]

In queste parole don Giuseppe manifesta pienamente il cuore di pastore che negli anni di ministero ha maturato la preziosa virtù della comprensione, della calma, della tenerezza stessa di Dio, sperimentate prima su se stesso e, poi, sulle anime a lui affidate.

Ma tra questi due scritti, ce n’è un altro in cui si rivela questo snodo tra il “prima” e il “poi”, consapevolmente assunto da don Rossi; è una pagina isolata del 1942:

«Ho aperto una lettera di s. Paolo a caso – ho letto questa frase: “ora quei che son di Xsto <sic, Cristo> hanno crocifisso la loro carne coi vizi e con le concupiscenze”. Le parole di s. Paolo sono chiare: non si segue Cristo solo fino ai piedi della croce: ma sulla croce. Il Crocifisso è simbolo del Cristianesimo. I bastardi che non furono rigenerati da Cristo sono serviti: la loro maschera di ipocrisia è lacerata. La carne, dicono questi, ha delle esigenze insopprimibili: si venga adunque a compromessi col Vangelo. Non si può: la religione di Cristo non è una combinazione chimica di elementi; essendo spirituale, pone la carne sotto il dominio dello spirito, nell’ordine dei valori. Legge della carne è l’istinto cieco; legge dello spirito è la ragione illuminata dalla fede; quella è disordine, questa è ordine, armonia. Appare quindi chiara l’importanza sociale della Religione, unica ad avere nella sua essenza quell’ideale di vita pratica che ha un nome solo: santità».[8]

Fuori dal linguaggio del tempo notiamo come don Rossi abbia fatto suo il Vangelo senza deroghe, ben espresso dalle sue parole: «l’ideale di vita pratica che ha un nome solo: santità». Lascio la parola al card. Renato Corti che nel 2011 scriveva a questo riguardo:

«La sua fede, certo messa alla prova, ma la sua personale adesione al Signore è stata la sorgente della luce e della forza anche nei momenti più difficili. Un pastore in tempi complessi e difficili per la vita della Chiesa e dell’intera società. Un autentico cristiano e un vero prete che non si è lasciato bloccare da ostacoli che umanamente potevano farlo desistere dal compimento della propria missione. Quelle prove, anzi, sono diventate uno stimolo ulteriore e quasi una “chiamata nella chiamata”. La convinzione che “gli uomini avranno sempre bisogno di Dio” risuona oggi più che mai forte. Un prete come don Giuseppe si spiega soltanto nella profonda adesione a una tale vocazione, radicata nel cuore e nella vita fino a plasmare ogni fibra del suo essere. Il suo sacrificio, preparato da un cammino di progressiva assimilazione al Buon Pastore che non scappa di fronte ai lupi ma offre la vita per il suo gregge, ha il profumo dell’unguento usato dalle donne per il corpo di Cristo deposto dalla croce. A questa radice di santità possono i nostri fedeli laici alimentare la vocazione battesimale a fare della propria vita un culto gradito a Dio. I nostri seminaristi e i nostri sacerdoti ne sono sospinti a rileggere con maggiore consapevolezza le parole, che accompagnano la consegna del pane e del vino durante il rito di ordinazione presbiterale: “Ricevi le offerte del popolo santo per il sacrificio eucaristico. Renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai, conforma la tua vita al mistero della croce di Cristo Signore”».[9]

È così che questo suo «intimo martirio» paziente e costante nel quotidiano con il gregge lo matura, e lo prepara all’oblazione totale della sua vita il 26 febbraio 1945.

È interessante proprio per questo rileggere il panegirico scritto nell’agosto del 1943 in occasione della festa di san Valentino, martire le cui reliquie sono a Calasca, nella quale don Giuseppe delinea la figura del martire e del martirio. Sarà la seconda lettura del breviario per la sua memoria. Mi sembra di intravedere tra le righe una tensione personale al sacrificio della vita, per il quale si sente pronto, quasi presago di un futuro per lui imminente:

«Ci furono sempre nella storia dell’umanità, dall’inizio del Cristianesimo fino ai nostri tempi, uomini guidati dallo spirito del male, che concepirono l’insano proposito di piegare, di far crollare il “secolare edificio della Chiesa”, di poter cantare l’inno di vittoria sulle rovine del Cristianesimo: ma tutte le armi, che la potenza del male ha escogitato, non sono mai riuscite a prevalere […]. Cristo-Dio non muore, perciò neppure la Chiesa muore. Essa ha sempre levato alto il vessillo della vittoria, anzi, il sangue sparso così abbondante di tanti martiri non ha fatto che richiamare nelle membra della Chiesa una più abbondante vita divina … Il martirio non è una sconfitta, ma un trionfo».[10]

Poi, nello stesso panegirico, la tensione al martirio aumenta e don Giuseppe ne parla con accenni talmente accorati che alla luce degli eventi successivi gli si sarebbero rivelate veramente applicabili:

«cerchiamo di comprendere e penetrare nell’animo del martire. Davanti all’alternativa di rinunciare alla vita e alla fede, non è facile la scelta: quale delle due voci potrà prevalere: la voce della vita o la voce della fede? […]. Ma il martirio è anche una testimonianza della propria fede e delle proprie convinzioni […]. In pratica traduciamo nella nostra vita il grande motto di san Paolo così: avrò sempre il Vangelo per legge, avrò Cristo come sicuro e sublime maestro, avrò sempre come sanzione dei miei atti pubblici e privati l’eternità».[11]

Il secondo martirio

Il secondo martirio vorrei raccontarvelo in chiave evangelica, intersecandolo con alcuni passi della Scrittura, che lo confermano e lo illuminano di una luce nitida.

È intitolato Quasi una via Crucis.

«Ogni giorno ero con voi nel tempio e non avete steso le mani contro di me; ma questa è la vostra ora, è l’impero delle tenebre» (Lc 22,53).

Castiglione Ossola, Valle Anzasca, ai piedi del Monte Rosa, 26 febbraio 1945, di notte. Un gruppo di Camicie nere cammina veloce per le strade buie del piccolo borgo. Raggiungono in fretta la canonica, che si affaccia sulla carrozzabile.

«Come contro un brigante, con spade e bastoni siete venuti a prendermi» (Mc 14,48).

Entrano con veemenza e, senza troppi complimenti, prelevano con forza don Giuseppe, che sta pregando il suo breviario. Non lo aveva ancora completato durante quel giorno, segregato come era stato con il suo gregge. Tornato a casa spossato sul far della sera, aveva avuto solamente la forza di sedersi davanti al focolare domestico, togliersi le scarpe, calzare le pantofole, incurante degli appelli della sorella Maria, che lo esortava a fuggire sulle montagne e che gli offriva un piatto di minestra, perché nulla aveva consumato dalla mattina. Ormai, don Giuseppe non aveva che fame solamente del suo Signore, nelle cui braccia quotidianamente amava rifugiarsi.

«Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!» (Mt 26,39).

All’irruzione della soldataglia, don Giuseppe chiede loro cortesemente solo di calzare le scarpe, ma non c’è ormai più tempo: quel branco famelico di uomini è già preda della furia bestiale.

Il gruppo si avvia, trascinando il prete nella notte oscura sulla «via» (Lc 23,26).

Don Giuseppe incontra quattro dei suoi parrocchiani ma non può che dar loro un cenno con gli occhi. C’è proprio tutto in quel suo sguardo mite; in loro, invece, il presagio della fine imminente.

«Non piangete su di me, ma su voi stessi, perché se trattano così il legno verde, che avverrà del legno secco?» (Lc 23,28)

Nel buio – neanche la luna ha osato quella sera affacciarsi a guardare – gli sgherri cominciano a spintonarlo e a colpirlo sino ai primi alberi, che si aprono sul vallone dei Colombetti.

C’è all’inizio di quel sentiero che scende al vecchio mulino solo una piccola cappella dedicata alla Madonna. Don Giuseppe «incontra la Madre». I suoi occhi miopi si fermano e si incrociano a tu per tu con quelli materni della Vergine. Don Giuseppe la prega di dargli la forza per bere il «Calice amaro», che si sta annunciando per lui, mentre il branco, in preda alla foga selvaggia, lo percuote e lo insulta, scaricandogli addosso tutti gli «improperi» che conosce.

Don Giuseppe perde gli occhiali, mentre la banda lo trascina a forza sempre più in basso là, «fuori dalla città degli uomini», dove si oscurano il cuore e la ragione.

Inizia così il brutale pestaggio, che sembra non avere mai fine, tante sono le botte. Lo deridono anche, domandandogli in scherno: «Chi ti ha colpito?» (Lc 22,64)

Uno, due, tre, quattro colpi … La violenza cieca si accanisce su di lui in crescendo ininterrotto di percosse continue, ormai difficili anche a contarsi. Don Giuseppe «cade una volta, due volte, tre volte, …» è trascinato a forza a pedate e sassate, fin giù nelle profondità della terra.

Quel branco di uomini con la preda ormai sfinita arrivato alla fine del vallone finalmente si ferma.

«Non gli tolgono la tunica e non se la dividono» (cfr. Gv 22,23-24) per portarla con loro come trofeo dell’ennesima infamia.

Lo costringono, invece, a scavarsi la fossa a mani nude, che si scarnificano poco alla volta tanto è duro il terreno gelato.

Non smettono però ancora nella loro bestialità, assetati da quella cieca furia, che vuole sfogare le sue voglie tremende, sino a quando qualcuno – bontà sua !?! – finisce il nuovo Cristo, prima con una pugnalata alla schiena, poi con il colpo di fucile alla nuca.

«Ecco l’uomo … ma … non ha più apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto» (Is 53,2).

Ridono ancora, divertiti come assatanati: hanno fatto fuori l’ennesimo «prete bastardo» da aggiungere ai tanti che già vantano.

Poi, lo coprono alla meglio con pietre e fogliame.

Infine, «sigillano la tomba nuova» improvvisata «con una grossa pietra» (cfr. Mt 27,60), posta con brutalità sulla povera testa di don Giuseppe, ormai informe per le percosse inferte con il calcio del fucile.

Ma ora, terminata l’impresa, quegli uomini – ma li si può definire ancora cosi!?! – scappano veloci nell’oscurità della notte perché quello che hanno appena compiuto – e lo sanno bene – non sarà un’esecuzione da annotare nel loro diario di guerra, ma solo un vero e proprio martirio, inciso invece con chiodi di ferro sul legno duro di una croce rinnovata ...

Le tenebre avanzano sempre più scure, sempre più dense, sempre più spesse.

L’acqua del vicino riale scorre, invece, lentamente e tranquilla: se ne ode solo il mormorio leggero in quella notte, così oscura, così fredda, così tragica.

Solo la macina del vecchio mulino abbandonato, ferma ormai da tempo, ha guardato a distanza quella scena terribile, testimoniando per l’ultima volta la molitura dell’ultimo mite «chicco di grano maturo, che darà poi frutto in abbondanza …» (cfr. Gv 12,24).

Tra non molto, infatti, sorgerà per tutti l’alba di un nuovo Giorno, «che sarà per la rovina di alcuni e la risurrezione di altri, nuovo segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori» (Lc 2,34).

Amen.


[1] Ioannes Paulus, Pp, II, Esortazione post sinodale Pastores dabo vobis, (25 marzo 1992), n. 5.

[2] Ibi, 15 e Congregazione per il Clero, Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri (11 febbraio 2013), I. Identità del presbitero.

[3] Tu ci rialzi con la tua mano. Antologia di testi di don Giuseppe Rossi a cura di Marco Canali, Novara, Stampa diocesana Novarese, 2024, p. 69.

[4] F. Traniello, Guerra e Religione, in Cattolici, Chiesa e Resistenza, a cura di G. De Rosa, Bologna 1997, pp. 59-60.

[5] Augustini Serm. 340,1.

[6] Tu ci rialzi, p. 60.

[7] Ibi, p. 70.

[8] Ibi, p. 61.

[9] M. Canali – A. Gilardoni, Don Giuseppe Rossi. Icona di un parroco martire, Novara, Stampa diocesana Novarese, 2024, pp. 105-106

[10] Tu ci rialzi, pp. 83-84.

[11] Ibidem.