Nella mattina di oggi, giovedì 28 marzo, il vescovo Franco Giulio Brambilla ha presieduto la Messa del Crisma nella cattedrale di Novara. Anche quest’anno gli oli santi consacrati dal vescovo arrivano dagli ulivi coltivati a Capaci, nel luogo dove il 23 maggio 1992 avvenne l’attentato mafioso che uccise il giudice Giovanni Falcone, Francesca Morvillo ed i poliziotti della scorta. Gli oli sono stati donati dall’associazione dall’Associazione Quarto Savona 15 (sigla radio dell’auto di scorta), che cura il giardino della memoria, d’intesa con la Questura di Palermo e l’arcidiocesi siciliana. A consegnarli al vescovo, in una breve cerimonia, la Questore di Novara Alessandra Faranda Cordella. Durante la celebrazione si è tenuto anche il rito di Ammissione dei candidati agli ordini sacri, vissuto dal Simone Piccotti, seminarista del seminario San Gaudenzio.
Di seguito pubblichiamo il testo integrale dell’omelia pronunciata dal vescovo Franco Giulio.
Essere preti alla soglia del Giubileo
Nella Messa crismale di questo Giovedì Santo intendo lasciarvi in eredità gli impulsi più importanti per la vita del prete sulla soglia del Giubileo del 2025. Il prossimo anno saranno anche i millesettecento anni del grande concilio di Nicea (20 maggio – 25 luglio del 325), pietra miliare della fede cristiana, quando la fede nella divinità di Gesù Cristo ha ricevuto la sua irreversibile definizione, proclamando Gesù della «stessa sostanza del Padre» (homooúsion to Patrì).
ESSERE PRETI ALLA SOGLIA DEL GIUBILEO
Omelia per la Messa crismale del Giovedì Santo
28-03-2024 Download
Per questo ho pensato di farvi una sorpresa, che è il mio dono personale per questi dodici anni trascorsi tra voi. Ho raccolto tutti gli interventi del mio ministero episcopale: sono due volumi a stampa, raccolti in cofanetto, più un terzo digitale, da oggi accessibile sul sito della Diocesi (www.omeliefrancogiuliobrambilla.it). Lì troverete pubblicate anche tutte le omelie della messa crismale di questi dodici anni. Possiamo sintetizzarne il messaggio attorno alla domanda: quale immagine di prete per quale Chiesa domani?
Per rispondere a questa domanda cito il brano essenziale del vangelo della Messa crismale.
«Lo Spirito del Signore…
mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio,
a proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista;
a rimettere in libertà gli oppressi,
a proclamare l’anno di grazia del Signore. (Lc 4,18-19)
L’anno di grazia del prossimo Giubileo chiede insistentemente di fermarci a mettere a punto il nostro essere preti, almeno attorno a tre punti: l’uomo del Vangelo, l’uomo dell’Eucaristia, l’uomo della fraternità.
1. L’uomo del Vangelo
La prima domanda si presenta in modo radicale: possiamo dire in buona coscienza di essere uomini del Vangelo? Proviamo a chiederci se la nostra predicazione e il nostro annuncio sono incentrati sul Signore Gesù Cristo. Vi invito a registrare per alcuni mesi la nostra omelia, per vedere se è moralistica o stravagante, impressionistica o precettistica, oppure se fatica a far brillare la “figura” del Signore Gesù che cammina sulle nostre strade per indicarci il mistero di Dio. Proviamo a vedere come è la nostra consegna alla Parola di Dio: in questi ultimi cinque anni a quale libro della Bibbia abbiamo dato un tempo di studio, di meditazione e di traduzione pastorale. Nessuno può misurarci il tempo dedicato alla preparazione dell’annuncio evangelico, della catechesi, della meditazione: tuttavia lo specchio della nostra coscienza lo registra infallibilmente. Temo che per non pochi sia molto di meno rispetto al tempo passato sui social o in altre faccende che poco hanno a che fare col Vangelo.
Il Vangelo è ascolto e passione per il mistero di Dio, è preghiera e amore per la vita delle persone. Spesso si scambia il Vangelo con il nostro narcisismo, quando siamo mossi dalla continua ricerca di approvazione e ammirazione, quando facciamo anche cose belle, ma esse diventano come diamanti per la nostra corona di gloria; quando abbiamo bisogno di specchiarci in Facebook o in Instagram, e quando il nostro è un ministero preoccupato della propria immagine. Non possiamo annunciare il Vangelo quando il nostro ministero è iperattivista, quando si disperde in mille iniziative per sentirsi vivo, quando si strema in molte incombenze e non riesce a coinvolgere i laici, quando alla sera facendo il conto delle cose fatte ci accorgiamo che ci siamo lasciati guidare dagli eventi ed siamo giunti trafelato sulla soglia della notte. Il Vangelo non può brillare sul nostro volto, quando il nostro ministero è depresso, quando tira a campare, quando un prete vive il proprio ministero in modo solitario e isolato e non si vede mai, quando si trascina demotivato a gestire l’ordinario o a rincorre la propria carriera.
Il prete è uomo del Vangelo, quando il suo ministero è umile e duttile, si lascia educare il cuore, riserva spazio a sé e agli altri, è capace di ascolto e di preghiera, preferisce arrivare un giorno dopo con una persona in più, assume il ritmo dei preti vicini, coltiva un senso profondo di fraternità, si lascia animare dalla carità verso i piccoli e i poveri. Oggi, voglio lodare chi è qui presente e lavora umilmente, che ha il senso della Chiesa, che è presente con naturalezza agli incontri diocesani, che è positivo e costruttivo, che propone l’immagine di un presbitero solare che trasmette fiducia e speranza.
2. L’uomo dell’Eucaristia
In secondo luogo, il prete è l’uomo dell’Eucaristia, in cui esprime una vita di comunione al “sacrificio di Gesù”. Proviamo a vedere come celebriamo la nostra messa. Il rito che celebriamo è un’insidia grande: basta aprire il messale ed è tutto pronto. Chi di noi durante la settimana prepara la messa della domenica, leggendo prima il rito, formulando in modo sobrio la preghiera dei fedeli, scegliendo un segno essenziale, predisponendo con decoro la chiesa? Con chi prepariamo la celebrazione dell’Eucaristia? Proviamo a vedere se la messa non è diventata nostra proprietà, e non è più la divina liturgia della Chiesa, perché decidiamo noi che cosa fare, come imbellettarla e renderla stravagante, magari seguendo mode che assolutizzano un aspetto del rito fino a farlo diventare l’unico.
La messa non è per far “socializzare” la gente, ma per far crescere la comunione; la messa non è per insinuare il senso del “misterioso” con orpelli e incensi, con paramenti strani e cose astruse, ma per custodire il mistero santo del corpo e sangue di Gesù sacrificato. Non siamo noi a dover cambiare la messa, ma è la messa che cambia noi! Lo dico serenamente ancora una volta: tutti gli estremismi mettono in luce le nostre paure e le nostre paturnie, non la docilità alla grande Tradizione della Chiesa!
Mi hanno molto colpito due celebrazioni di questo ultimo anno: la prima il 10 settembre a Ghemme per la proclamazione della Beata Panacea, patrona della Valsesia, la seconda l’11 ottobre all’Isola di san Giulio per i cinquant’anni della fondazione del Monastero Mater Ecclesiae. C’era tantissima gente e moltissimi preti: sono state due celebrazioni senza sciatterie e senza smancerie liturgiche, ma abbiamo celebrato due belle, luminose, profonde Eucaristie, con intima e festosa partecipazione, dove l’azione liturgica non era solo equilibrata, ma armoniosa, senza pompe inutili e senza sbavature cerimoniali. La gente ha il senso della bellezza che apre al mistero ed edifica l’identità di un popolo. Alla fine, è la stessa gente che dice in modo semplice: è stato bello e abbiamo sentito palpitare la brezza dello Spirito!
3. L’uomo della fraternità
Il prete è l’uomo della fraternità, perché vive una vita capace di prendere il respiro dei fratelli e della gente. La parola carità è ormai così usata da essere abusata, perché ridotta a risposta al bisogno e non a liberazione dalle povertà. La stessa parola fraternità talvolta è usata come un’arma per invocare una Chiesa sinodale sopra di noi, ma sotto di noi è difficile essere capaci di ascolto e comunione. Eppure il termine va difeso nel suo senso più tradizionale. Una spiritualità presbiterale ha bisogno oggi di comunione fraterna. La comunione è più facile da scrivere, che da praticare nelle Unità Pastorali Missionarie. La fraternità è più forbita sulla bocca, che nella cura diuturna delle relazioni di fiducia e coinvolgimento pastorale.
Il tempo perso a stare insieme, ad ascoltare, a progettare in comune, a discutere, a smussare i propri punti di vista, pur geniali, a trovare vie di convergenza, non esige una forte docilità allo Spirito? Il tempo dedicato a stare con i giovani e con le famiglie, a sentire e curare le povertà materiali e spirituali, non è l’atmosfera più autentica che ci fa trovare il senso della vita fraterna, la paternità del ministero che si curva sulle ferite dell’uomo per sanare l’umano piagato e disperato? Questo è il senso radicale della fraternità: non è solo il sentimento della comunità psichica, ma è l’ardito cammino della comunità spirituale. Si è fratelli non solo quando si sta bene insieme, ma quando si cammina sullo stretto sentiero dell’ascolto del Vangelo. È l’avventura di abitare con l’umano e nell’umanità della nostra gente!
Alla fine, voglio dirvi una parola semplice. Con il mio stile talvolta un po’ esigente, in questi anni ho cercato di volervi bene. Vi invito ora a un esercizio di vita presbiterale: scriviamo sul nostro “quaderno intimo” quanto tempo abbiamo dedicato alla preghiera, allo studio, alla meditazione, alla confessione, agli esercizi spirituali, alla devozione, alla cura della nostra persona, alla custodia dei nostri sentimenti, alla fraternità ecclesiale, alla cura spirituale della gente, alla comprensione del nostro tempo. Guardiamo con sincerità alla nostra immagine pratica di prete sulla soglia del Giubileo, mentre il prossimo 26 maggio qui nel Duomo di Novara sarà beatificato un giovane prete, don Giuseppe Rossi, “icona di un parroco martire”. Celebrando la sua beatificazione dobbiamo fare come lui, che non ha abbandonato la sua gente per servire il Dio vivo e santo.
+Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara