Sovvenire nella Chiesa al servizio della missione apostolica

Facebooktwittermail

Dal 17 al 20 marzo, si sono tenute al Centro Maria Candida di Armeno le giornate nazionalidi formazione e spiritualità per operatori di Sovvenire. L’appuntamento era la seconda di tre tappe organizzate dal servizio per la promozione al sostegno economico della Chiesa cattolica della Cei (una per il Centro, Nord e Sud Italia), dopo quella che si è tenuta a febbraio ad Assisi. A predicare gli esercizi spirituali, anche ad Armeno così come nelle altre tappe, il gesuita Franco Annicchiarico. La messa conclusiva presso la basilica dell’abbazia Mater Ecclesiae dell’Isola di San Giulio è stata presieduta dal vescovo Franco Giulio, che ha anche tenuto l’ultima meditazione.

Di seguito il testo integrale del suo intervento.

 

«COLLABORATORI DELLA VOSTRA GIOIA»

Il sovvenire nella Chiesa al servizio della missione apostolica

 

Quando cerchiamo ispirazione nei testi del Nuovo Testamento per immaginare come erano lo stile e le relazioni tra gli apostoli e i loro collaboratori, osserviamo un panorama abbastanza fluido. I Vangeli, gli Atti degli Apostoli, le lettere di Paolo e altri scritti testimoniano alcuni tratti fondamentali del lavoro apostolico, che si adattava alle situazioni delle comunità che sorgevano con grande vitalità nell’area del mediterraneo. I testi sono spesso occasionali e s’interessano soprattutto ai grandi personaggi della missione, Pietro, Paolo e Giovanni. In secondo piano emergono figure di collaboratori nel ministero, di carattere itinerante o di servizio alla vita delle comunità.


COLLABORATORI DELLA VOSTRA GIOIA
Il sovvenire nella Chiesa al servizio della missione apostolica
20-03-2025 Download


Forse possiamo raccogliere qualche elemento più utile per il nostro tempo che deve aprirsi ad una generosa collaborazione dei laici, se seguiamo i personaggi che accompagnano Paolo o che sono inviati da Paolo per compiti particolari[1]. È indubbio che le Lettere di Paolo siano un documento straordinario dell’attività infaticabile che ha nell’Apostolo delle genti il suo campione. Egli non appare mai solo. All’inizio delle sue lettere, dall’impronta fortemente personale, egli cita sempre alcuni suoi collaboratori, in genere quelli che sono conosciuti dalla comunità a cui scrive. Al termine degli scritti, dove manda informazioni e formula i saluti, il panorama si anima di molte figure. Basti pensare al capitolo finale della Lettera ai Romani (Rm 16) dove egli cita Febe, Aquila e Priscilla, Urbano; bisogna ricordare Apollo menzionato quando Paolo affronta il tema della rivalità tra i gruppi nella comunità di Corinto (1Cor 1); non si possono dimenticare le due figure femminili di Evodia e Sintiche tra cui l’apostolo cerca di mettere pace a Filippi (Fil 4,2); mentre nel saluto finale del biglietto a Filemone, Paolo cita alcuni “collaboratori” che inviano anch’essi saluti: Marco, Aristarco, Dema e Luca (Fm 24). Questo per stare soltanto alle lettere autentiche di Paolo.

L’apparizione occasionale di queste figure è sempre accompagnata da espressioni che valorizzano da parte di Paolo i suoi collaboratori: Febe è «nostra sorella al servizio della chiesa di Cencre» (Rm 16,1), perché «essa ha protetto molti, anche me stesso» (Rm 16,2); Aquila e Priscilla sono una coppia di cristiani sfollati da Roma dopo l’editto di Claudio del 49 d.C.: hanno creato una comunità cristiana nella loro casa, sono “collaboratori” di Paolo (Rm 16,3), partecipano alla sua missione di evangelizzazione (At 18, 3; 1Cor 16,19), hanno persino «rischiato la loro testa» (Rm 16,4) per salvargli la vita, in un momento di grave pericolo; Urbano è «nostro collaboratore in Cristo» (Rm 16,9); quando l’apostolo cita la rivalità del partito di Apollo nella chiesa di Corinto, ribadisce però che tutti «siamo collaboratori di Dio» (1Cor 3,9); persino quando mette pace tra Evodia e Sintiche, che stavano creando fazioni a Filippi, riconosce che «i loro nomi sono scritti nel libro della vita» (Fil 4,3).

Da questa prima panoramica possiamo dire che Paolo raccoglie attorno al termine “collaboratori” il senso profondo di un ministero apostolico condiviso: collaboratori di Dio, collaboratori in Cristo, partecipi nella missione. Il senso spirituale, pastorale e persino pratico dei ministri del vangelo è ben riassunto nell’espressione di Paolo che suggella il primo capitolo della tormentata Seconda lettera ai Corinti: «Non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece collaboratori della vostra gioia, perché nella fede voi siete saldi» (2Cor 1,24).

Collaboratori della vostra gioia: questo è lo stile dell’apostolato di Paolo e dei suoi compagni, che è così appassionatamente illustrato poco prima: «Poiché, come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione. Quando siamo tribolati, è per la vostra consolazione e salvezza; quando siamo confortati, è per la vostra consolazione, la quale vi dà forza nel sopportare le medesime sofferenze che anche noi sopportiamo. La nostra speranza nei vostri riguardi è salda: sappiamo che, come siete partecipi delle sofferenze, così lo siete anche della consolazione» (2Cor 1,5-7).

Collaboratori della vostra gioia: è il senso di un servizio alla fede a caro prezzo, che passa dalla condivisione, dalla tribolazione, dal conforto, dalla sopportazione comune delle sofferenze, dalla speranza che rimane salda. In questo stile dobbiamo crescere insieme anche oggi per il servizio all’evangelo.

Tre collaboratori di Paolo, tuttavia, emergono in modo nitido dalle lettere autentiche e sono Timòteo, Tito ed Epafrodìto. Questi tre ci consentono di raccogliere alcuni tratti peculiari dei “collaboratori” al ministero apostolico: Timòteo, il fratello che conferma nella fede; Tito, il collaboratore che costruisce buoni legami; Epafrodìto, il compagno di lavoro e di lotta. Sono i tratti variegati che costruiscono come l’icona ideale dei collaboratori della missione. Possiamo inserire in questa cornice il tema del “sovvenire nella Chiesa”, sia sul versante dei soggetti, sia sul versante dell’azione apostolica.

  1. Il Sovvenire e i “collaboratori apostolici”

Oggi è difficile trovare collaborazioni e persone che siano sensibili al tema del Sovvenire, cioè del sostegno economico alle comunità cristiane, sia per quanto riguarda il sostentamento dei sacerdoti, sia per quanto riguarda i tre grandi polmoni della vita della chiesa (il culto, la carità e i beni culturali). Forse la linea più feconda è quella di suscitare passioni e azioni in coloro che sono stati delegati o sono interessati al tema. Oggi la motivazione delle persone è la cosa più difficile, ma anche la più necessaria per non risolvere il Sovvenire in una mera questione economica. Per questo la rassegna di tre figure emblematiche del NT di collaboratori apostolici è molto istruttiva.

Timòteo, colui che conferma nella fede.

Discepolo della prima ora di Paolo, Timòteo è citato in più lettere e quindi è conosciuto da diverse comunità cristiane. Appare nella Prima lettera ai Tessalonicesi, lo scritto più antico, insieme a Silvano, compagno di viaggio di Paolo ricordato in Atti (15,22-18,5). Egli è il collaboratore di spalla dell’Apostolo dei gentili, personalità prorompente che ha trovato in Timòteo appoggio e confronto. Per questo lo gratifica subito del titolo di “fratello” (2Cor 1,1) e ne delinea il tratto di fondo con una bella espressione: «abbiamo inviato Timòteo, nostro fratello e collaboratore di Dio nel vangelo di Cristo, per confermarvi ed esortarvi nella vostra fede, perché nessuno si lasci turbare in queste prove» (1Ts 3,2-3). Fratello e primo collaboratore, egli è l’uomo di fiducia che è inviato da Paolo alla comunità verso cui manifesta grande affetto («Siete voi la nostra gloria e la nostra gioia», 1Ts 2,20) e rende presente l’apostolo nel compito essenziale di conferma e di esortazione alla fede.

Soprattutto, però, la figura di Timòteo brillerà accanto all’apostolo come co-fondatore della comunità di Corinto e suo “rappresentante” nel momento burrascoso del conflitto con essa. È in questa occasione che emerge il tratto che fa di Timòteo non solo il “fratello”, ma anche il «mio figlio carissimo e fedele nel Signore» (1Cor 4,17). Paolo dichiara di averlo generato al ministero, ma riconosce che la sua “fedeltà al Signore” gli dona personalità apostolica autonoma, perché trascrive nel suo servizio il tratto fondamentale dell’Apostolo: «Vi prego, dunque: diventate miei imitatori! Per questo vi ho mandato Timòteo, che è mio figlio carissimo e fedele nel Signore: egli vi richiamerà alla memoria il mio modo di vivere in Cristo, come insegno dappertutto in ogni chiesa» (1Cor 4,16-17). Il “collaboratore” dell’Apostolo richiama alla memoria il suo modo di vivere in Cristo: egli non ne è solo l’ammiratore, ma l’imitatore, perché imita il Signore Gesù nello specchio della testimonianza di Paolo («diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo», 1Cor 11,1). L’immagine generativa usata dall’apostolo («mio figlio carissimo») fonda la personalità del suo più stretto collaboratore, che così può rappresentarlo di persona. Si noti: per il suo servizio diventa mediatore, non intermediario, perché rende presente “il modo di vivere in Cristo”. Se Paolo riconosce a Timòteo la capacità di “richiamare alla memoria” la forma di servo del Signore, afferma che l’autorità del collaboratore è contrassegnata dalla forma Christi.

Per questo l’ultimo tratto che dipinge il volto spirituale di Timoteo raggiunge il culmine nel testo pieno d’affetto scritto da Paolo in carcere: «Spero nel Signore Gesù di mandarvi presto Timòteo, per essere anch’io confortato nel ricevere vostre notizie. Infatti, non ho nessuno che condivida come lui i miei sentimenti (isópsychos) e prenda sinceramente a cuore ciò che vi riguarda: tutti in realtà cercano i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo. Voi conoscete la buona prova da lui data, poiché ha servito il Vangelo insieme con me, come un figlio con il padre. Spero quindi di mandarvelo presto, appena avrò visto chiaro nella mia situazione. Ma ho la convinzione nel Signore che presto verrò anch’io di persona» (Fil 2,19-24). È quasi un programma per il “collaboratore” nel ministero apostolico: egli è colui che “condivide i sentimenti” dell’apostolo e “prende sinceramente a cuore” la vita della comunità. Non vuole prevalere, non cerca i propri interessi, ma quelli di Gesù Cristo. Questo è il senso della fraternità apostolica: non tanto la ricerca dello “star bene” insieme, ma la condivisione del “modo di vivere in Cristo” nel “prendere sinceramente a cuore” la vita delle nostre comunità., nel servirle con uno spirito di disinteresse e libertà È un’immagine indimenticabile: tutti i collaboratori laici delle comunità cristiane possono coltivare, nella preghiera, nella celebrazione e nella carità, la forma umile del Cristo servo.

Tito, il costruttore di buoni legami

La seconda figura di collaboratore dell’apostolo Paolo è Tito, greco per nascita e convertito da Paolo, compagno del viaggio forse più rischioso di Paolo nella visita alla comunità di Gerusalemme. Egli fu la pietra d’inciampo, che consentì a Paolo di rifiutare la circoncisione quale condizione di accesso per diventare cristiani. È un paradosso: colui che fu per eccellenza il “cristiano incirconciso” si trovò a giocare un ruolo fondamentale nel tessere buoni legami per soccorrere la comunità dei poveri di Gerusalemme. Se nel cosiddetto concilio di Gerusalemme (At 15), non fu imposto nulla a Paolo e fu chiesto solo – secondo la versione dell’apostolo nella Lettera ai Galati – che ci «si ricordasse dei poveri» della chiesa Madre (Gal 2,1-10), egli annota che si era «preoccupato di fare» la colletta a favore della chiesa di Gerusalemme, un progetto di assistenza dove Tito ha giocato un ruolo fondamentale.

Questo collaboratore è colui che molto probabilmente porta ai turbolenti Corinti la «lettera scritta [da Paolo] tra molte lacrime» (2Cor 2,4; 7,8) tessendo le fila con la comunità, così che può ritornare dall’apostolo con la buona notizia della riconciliazione. Paolo recepisce la notizia così: «Dio, che consola gli afflitti, ci ha consolati con la venuta di Tito; non solo con la sua venuta, ma con la consolazione che ha ricevuto da voi. Egli ci ha annunciato il vostro desiderio, il vostro dolore, il vostro affetto per me, cosicché la mia gioia si è ancora accresciuta» (2Cor 7,6-7). Egli si rivela un fine tessitore di legami e un mediatore di pace attento a ricondurre la comunità nell’alveo dell’obbedienza all’Apostolo: «Più che per la vostra consolazione, però, ci siamo rallegrati per la gioia di Tito, poiché il suo spirito è stato rinfrancato da tutti voi. Cosicché, se in qualche cosa mi ero vantato di voi con lui, non ho dovuto vergognarmene, ma, come abbiamo detto a voi ogni cosa secondo verità, così anche il nostro vanto nei confronti di Tito si è dimostrato vero. E il suo affetto per voi è cresciuto, ricordando come tutti gli avete obbedito e come lo avete accolto con timore e trepidazione» (2Cor 7,13-15). Tito è una figura di identificazione per molti collaboratori del ministero pastorale, tessitore di buoni legami, uomo di comunione, forse perché ministro della carità.

E, in effetti, l’altro aspetto di questa figura di collaboratore di origine greca è di essere stato il grande animatore della colletta per la chiesa di Gerusalemme: l’uomo della riconciliazione dei conflitti diventa anche l’uomo della carità pratica tra greci e giudei. L’argomento della carità scioglie il cuore duro dei custodi della tradizione della chiesa di Gerusalemme, perché la colletta non è solo un gesto per alleviare la povertà economica di quella chiesa, ma è un segno inequivocabile che abbatte il muro di separazione tra le due anime del cristianesimo primitivo. La colletta, già iniziata presso altre chiese e in particolare a Corinto (1Cor 16,1-4; Rm 15,25-27), riceve un colpo d’acceleratore quando viene messa in capo a Tito, perché «portasse a compimento quest’opera generosa» (2Cor 8,6) proprio tra gli abitanti di quella città, così che l’apostolo registra il successo dell’impresa: «Siano rese grazie a Dio, che infonde la medesima sollecitudine per voi nel cuore di Tito! Egli, infatti, ha accolto il mio invito e con grande sollecitudine è partito spontaneamente per venire da voi» (2Cor 8,16-17).

Anzi Tito fa da garante che Paolo in questa grandiosa impresa economica non ha in alcun modo intaccato i fondi della colletta, e custodisce la comunione pratica tra le chiese, portando con sé anche altri, perché possano verificare il buon operato suo e dell’apostolo: «Con lui abbiamo inviato pure il fratello che tutte le Chiese lodano a motivo del Vangelo. Egli è stato designato dalle Chiese come nostro compagno in quest’opera di carità, alla quale ci dedichiamo per la gloria del Signore, e per dimostrare anche l’impulso del nostro cuore. Con ciò intendiamo evitare che qualcuno possa biasimarci per questa abbondanza che viene da noi amministrata» (2Cor 8,18-20). Tito è l’amministratore fedele di una grande opera di comunione e di carità, perché chi è trasparente nei beni e nella carità tra le comunità è anche efficace nell’opera di riconciliazione e di pace nei conflitti tra le persone. La carità-servizio che aiuta i poveri si alimenta alla carità-virtù della comunione fraterna. La carità dei primi cristiani, di cui la colletta per Gerusalemme è stata il simbolo più forte, capace di abbattere il muro di separazione tra giudei e greci, è stata forse il cemento che ha rinsaldato in modo concreto le anime della chiesa primitiva.

Per questo, anche nelle nostre comunità, gli uomini e le donne che, come Tito, non hanno paura della trasparenza delle mani, dei denari, della gestione e della rendicontazione, delle iniziative di carità sono anche i più liberi di cuore per richiamarci ai buoni legami della comunione e della riconciliazione: la comunione dei cuori suppone la comunione dei beni, la comunione delle risorse (nella parrocchia e tra le parrocchie) è un segno forte della comunione degli spiriti. La gente non perdona, oggi al prete e domani anche ai collaboratori laici, di essere faccendieri coi beni della chiesa, perché si diventerà inevitabilmente gretti ed egoisti anche nel legame degli affetti e nelle relazioni di fraternità.

Epafrodìto, il compagno di lavoro e di lotta

 Infine, il terzo collaboratore di Paolo è Epafrodìto, di cui l’apostolo fa menzione solo nella lettera ai Filippesi (Fil 2,25-30; 4,18). Egli è quasi il portavoce della comunità di Filippi, loro messaggero e ministro, «vostro inviato per aiutarmi [leitourgós] nelle mie necessità» (Fil 2,25). Paolo dal suo canto lo definisce «mio compagno di lavoro e di lotta» (ivi). Questa concisa espressione non può ridursi al fatto di uno scambio di doni e di lettere tra la comunità di Filippi e l’apostolo Paolo, che trova in Epafrodìto il postino affidabile. Paolo descrive con un’espressione di grande splendore questo scambio, prendendo a prestito il linguaggio del culto: «Ho il necessario e anche il superfluo; sono ricolmo dei vostri doni ricevuti da Epafrodìto, che sono un piacevole profumo, un sacrificio gradito, che piace a Dio» (Fil 4,18). L’apostolo è assai sensibile alla generosità del dono, che è richiamo interiore alla gratuità della preghiera e del sacrificio, capaci entrambi di generare alla vita cristiana nello Spirito.

Forse il tratto che definisce Epafrodìto indica anche il terreno fecondo di un compagno d’avventura che condivide la passione apostolica di Paolo, definita come un “lavoro” e una “lotta”. Collaboratore deriva da “lavorare insieme” e questo lavoro ha un carattere “agonistico”, di sfida alla morte. Talché il collaboratore di Paolo ha persino rischiato la vita per stabilire questa circolarità tra il dono della comunità e lo scambio dei sentimenti con l’apostolo, espresso nella lettera ai Filippesi, forse uno dei gioielli della letteratura apostolica. Paolo evoca il terribile rischio a cui Epafrodìto si è esposto, che diventa parabola di quella “comunione di lavoro e di lotta” che è il succo del ministero pastorale. Un pericolo che ha messo nella comunità e nell’apostolo sentimenti di vivo desiderio, preoccupazione, dolore, premura, gioia e apprensione. Il lavoro pastorale insieme è sempre una fatica e una lotta, e la differenza tra i mercenari prezzolati e i collaboratori appassionati sta nella comune dedizione al vangelo e alla vita delle comunità, tra l’apostolo e i suoi collaboratori. Senza occupazioni dispotiche di spazi per creare il proprio orticello e legare le persone a se stessi, né senza gestioni del sacro devoto per gratificare il gusto narcisistico di sé. In entrambi i casi con la perdita della fatica disinteressata del vangelo.

Paolo scrive un brano di intensa tenerezza, che ci piacerebbe sentire narrare da ogni ministro del vangelo nei confronti dei suoi collaboratori: «Aveva grande desiderio di rivedere voi tutti e si preoccupava perché eravate a conoscenza della sua malattia. È stato grave, infatti, e vicino alla morte. Ma Dio ha avuto misericordia di lui, e non di lui solo ma anche di me, perché non avessi dolore su dolore. Lo mando quindi con tanta premura, perché vi rallegriate al vederlo di nuovo e io non sia più preoccupato. Accoglietelo dunque nel Signore con piena gioia e abbiate grande stima verso persone come lui, perché ha sfiorato la morte per la causa di Cristo, rischiando la vita, per supplire a ciò che mancava al vostro servizio verso di me» (Fil 2,26-30).

La modernità di questo testo è sconcertante: non è facile veder circolare tra i ministri del vangelo la stima per tali persone (“Abbiate grande stima verso persone come lui”), forse perché non è usuale sentire apprezzare la dedizione senza riserve di noi e dei nostri collaboratori (“perché ha sfiorato la morte per la causa di Cristo, rischiando la vita”). Lodiamo la presenza di molti ministri del vangelo per il loro servizio a prezzo della vita, lodiamo l’amore di tanti genitori per l’educazione dei figli, lodiamo la finezza di molti operatori della liturgia e della catechesi per la passione nel donare il vangelo come un padre e una madre, lodiamo tante donne e uomini della carità per un volontariato umile e nascosto, lodiamo molti religiosi e religiose per la cura dei malati e dei poveri, lodiamo tanti professionisti che danno testimonianza nel servizio alla comunità con un’onestà senza infingimenti, lodiamo tanti malati che dedicano il tempo della loro sofferenza all’edificazione della chiesa, luogo del perdono e della festa. Il nome di uno sconosciuto collaboratore di Paolo, Epafrodìto, diventa l’icona viva, il patrono dei “collaboratori della vostra gioia”, della gioia del vangelo.

  1. Il Sovvenire nella cornice dell’azione missionaria della chiesa

Nell’ultimo decennio la questione del rapporto della Chiesa con i beni è stata al centro dell’attenzione pubblica con gli scandali che hanno avuto un enorme eco nella comunicazione mediatica, provocando un grave danno all’immagine della sua missione evangelizzatrice. La coscienza cristiana (e quella pubblica) ha sentito come particolarmente sconveniente la mancanza di trasparenza nella gestione dei beni ecclesiastici. Detto in termini semplici: la gente non perdona alla chiesa la manipolazione nell’uso delle risorse, nella chiarezza delle operazioni finanziarie e nella rendicontazione delle gestioni economiche. Qui l’apporto dei laici dovrà favorire comportamenti sempre più rigorosi e trasparenza nella conduzione dei beni ecclesiasti. Il Sovvenire è colpito al cuore se l’opera virtuosa e appassionata di molti che ancor oggi si dedicano alla gestione del patrimonio della chiesa viene stravolto: parrocchie, istituti religiosi, associazioni e movimenti, tutti sono chiamati a un soprassalto di autenticità!

All’inizio, il tema di questo intervento era stato formulato in modo provocatorio così: il denaro (i beni) è sterco del demonio o cibo degli angeli? Mi spiace deludere i presenti: né l’uno, né l’altro. Queste formulazioni provengono dalla “patologia” nella gestione dei beni e nell’uso del denaro da parte della Chiesa e nella Chiesa: il denaro e i beni sono demonizzati o spiritualizzati, in ogni caso usati col principio del fine (buono) che giustifica l’uso di mezzi e metodi discutibili (talvolta perversi). Invece, la “fisiologia” dell’uso dei beni dice che essi sono strumenti e risorse nella mano dell’uomo e in carico alla coscienza delle persone, e possono essere usati bene o male. Ma con un’avvertenza: l’uso distorto del denaro e dei beni non è solo un peccato (talvolta anche reato), ma alla fine ci rende schiavi di essi. Non ci fa commettere solo errori di gestione, ma ci corrode come la ruggine di evangelica memoria, che distorce il senso dell’annuncio cristiano e svuota persino il gesto generoso della carità. Che fare dunque perché la testimonianza evangelica sia trasparente, coraggiosa e disinteressata insieme?

Illustro cinque punti decisivi per realizzare una corretta trasparenza amministrativa nelle comunità parrocchiali e diocesane. I parroci e i vescovi, con i rispettivi Consigli Affari Economici Parrocchiali e Diocesani (CAEP e CAED) hanno il grave dovere morale di gestire i beni della chiesa in modo trasparente, responsabile e documentato seguendo questi criteri.

2.1 Occorre tener rigorosamente separati i beni e i soldi della parrocchia dai beni e dalle risorse personali (di preti e vescovi): vi sono ancora confusioni inaccettabili con la pratica diffusa di anticipare denaro personale e dare e ricevere contributi senza corretta contabilizzazione. Ho visto preti e vescovi lasciare ai parenti eredità insospettabili per la vita di un ministro (spesso proveniente da famiglia modesta e senza alcun lascito per la chiesa e la carità). A questo proposito, il testamento personale chiaro e scritto, consegnato alla Curia, a un notaio o a un destinatario affidabile e rintracciabile, è un atto di grande sensibilità pastorale e un dovere della vita spirituale del ministero.

2.2 È necessario consegnare il Rendiconto amministrativo annuale della Parrocchia, comprendente tutte le gestioni separate (Oratori, Centro giovanile, Caritas, Ramo commerciale, ecc.) secondo la modulistica predisposta, accompagnato da un bilancio che sia veritiero e giustificato, controfirmato responsabilmente dai membri del CAEP. Senza la consegna del bilancio annuale l’Ordinario non dovrebbe rilasciare il nulla osta per ulteriori lavori e per partecipare ai fondi. Lo stesso discorso dovrebbe valere per la Diocesi, per la quale forse non c’è nessun organo superiore di controllo, verifica e rendicontazione.

2.3 È facile notare che molte volte manca una seria programmazione secondo un ordine di priorità e di importanza dei lavori da fare e da prevedere per le comunità e i beni ecclesiastici, così che in tempo di crisi si sciupano soldi per opere di facciata o lavori faraonici e non si mantengono i beni essenziali che riguardano il culto (soprattutto la Chiesa parrocchiale), l’educazione e la carità. A questo proposito sarà da formulare un criterio più ampio della parrocchia per la ristrutturazione o la creazione di nuovi ambienti, così da non creare in parrocchie viciniori doppioni domani difficilmente gestibili. Bisogna superare la logica del “tutti devono avere tutto”. I sacerdoti e i laici corresponsabili sono da richiamare alla chiarezza su questo punto (la gestione dei beni è una questione di alta spiritualità!), perché rivela la libertà di cuore del prete e dei suoi collaboratori.

2.4 Occorre evitare interessi privati o familiari (nessun incarico o lavoro può essere conferito a parenti dei preti o dei membri CAEP o del CAED). Nessun membro dei CdA degli enti ecclesiastici ed assimilati può essere soggetto di rapporti professionali, commerciali e lavorativi con gli enti ai cui partecipano gli stessi preti o laici sedendo nei loro organi direttivi. A questo proposito vi sono ragioni di incompatibilità (parentela o interesse), ma talvolta anche motivi di inopportunità, quando uno siede nel CdA di un ente ecclesiastico e magari partecipa a un altro ente che potrebbe intrattenere rapporti col primo. La gente giustamente non ci perdona di essere manager indaffarati e custodi disattenti e interessati dei beni delle comunità.

2.5 Infine, proprio per quanto riguarda il Sovvenire, bisogna attivare in ogni comunità parrocchiale ed ente ecclesiastico una campagna promozionale di sensibilizzazione per la firma dell’8xmille e le offerte liberali. Uno dei modi decisivi è quello della valorizzazione e della pubblicità delle opere finanziate nelle comunità con interventi dell’8xmille, chiedendo agli organi economici di dare il massimo di pubblicità, proprio attraverso i delegati diocesani. Forse, in occasione del Giubileo, si può lanciare una campagna nazionale di sensibilizzazione diocesi per diocesi, con questa indicazione comune: rendere noti tutti gli interventi fatti negli ultimi dieci anni a favore dei beni culturali delle diverse comunità diocesane. Vi è un grave distanza tra l’interesse delle guide delle comunità e dei loro collaboratori quando si tratta di ottenere finanziamenti e il momento di pubblicazione dei risultati ottenuti: si ha quasi l’impressione di un falso pudore nel dichiarare e rendere noto che i fondi provenivano dall’8xmille.

La conclusione è semplice: basta solo riflettere un momento per rendersi conto che la fiducia in un’istituzione circa la sua affidabilità economica e finanziaria dipende dalla saggia amministrazione, dalla trasparenza dalla gestione e dalla rendicontazione precisa e puntuale. Molto lavoro da fare resta ancora davanti a noi!

+ Franco Giulio Brambilla

Vescovo di Novara


[1]           Ho trovato spunto per questa parte nel contributo di G. O’Collins, La riforma della Curia romana: i «collaboratori» apostolici, in La Civiltà Cattolica 169 (2018) n. 4027: 3-17. Sul tema dei collaboratori di Paolo si veda: W.-H. Ollrog, Paulus und seine Mitarbeiter, Neukirchen Verlag, Neukirchen – Vluyn 1979; F.F. Bruce, The Pauline Circle, Eerdmans, Grand Rapids (Mi) 1985; e le voci per i tre personaggi di J. Gillman, «Timothy», «Titus», «Epaphroditus», in D.N. Freedman (ed.), Anchor Bible Dictionary, Doubleday, New York 1992, rispettivamente, vol. 6, 558-560 (Timoteo), vol. 6, 581s. (Tito), vol. 2, 533s. (Epafrodito).